mercoledì 31 dicembre 2008

Buon anno nuovo?


31/12/2008. Si chiude un anno difficile. Ma quante (troppe) speranze e paure per l’incipiente 2009!

I bilanci di fine anno sono qualcosa che spetta a presidenti, commercialisti, opinionisti e cartomanti. Per carità: non aggiungiamo altre voci alle tante – troppe – che già dicono la loro.

Quello che a noi interessa qui è ringraziare tutti coloro che nel 2008 ci hanno seguito, letto e sostenuto, e – in anticipo – tutti coloro che lo faranno nel 2009, l’anno terribile che tutti aspettiamo e che, alla fine, sta arrivando. E, magari, provare a fare qualche riflessione.

Sarà, alla fine, quella che pare ci aspetti la grande recessione che tutti paventano? Ottant’anni dopo il 1929, lo spettro della miseria torna ad affacciarsi nella società dell’opulenza che hanno creato per noi e che si nutre della nostra solitudine e del nostro egoismo? Può darsi. Intanto, però – come accaduto su scala locale in Argentina o nella Russia degli oligarchi e degli agenti segreti – pochi furbi stanno approfittando della crisi e della paura per arricchirsi alla faccia del resto dell’umanità. Ce ne accorgeremo solo dopo, alla fine del tunnel, quando raccoglieremo cocci e sorprese. Ma stiamo tranquilli che è e sempre sarà così. La crisi di molti, normalmente rappresenta la fortuna di pochi. E ciò pone i prodromi di nuove, cicliche crisi. Almeno finché non sarà cambiato modello e sistema di sviluppo. Ma c’è chi sostiene ancora che il capitalismo sia il sistema migliore, nonostante nella sua patria in molti non la pensino più così…

L’anno bisestile sta per finire e ci lascia una scia di veleno e ansia: l’Iraq in cui si continua a morire, lo spettro del fallimento politico e diplomatico e della disfatta militare in Afghanistan, la crisi sempiterna con Teheran e le incipienti elezioni iraniane che segneranno la fine del breve “impero” dell’impresentabile Ahmadinejad, le rinnovate tensioni indo-pachistane, il surriscaldamento globale, la crisi del sistema bancario e quella del sistema assicurativo in arrivo, via via fino all’attualità della nuova fiammata di stupidità e sangue a Gaza si spostano, tutte insieme, come un blocco granitico dal peso inimmaginabile, da un anno all’altro ma, soprattutto, da un presidente degli Stati Uniti all’altro. Dalla certezza, dunque, della fine del governo di un inetto che per otto anni ha negativamente condizionato il pianeta alla rinata speranza evocata prima e ora incarnata dal primo capo dello Stato nordamericano nero, che restituisce al globo terracqueo in stagflazione economica ed etica una rinnovata speranza di uguaglianza, di libertà, d’etica. D’intelligenza.

Barak Obama non è detto sia l’uomo del futuro e non è certo che, alla fin fine, soddisfi le aspettative di tutti noi. Potrebbe essere un nuovo bluff a stelle e strisce, un nuovo John Fitzgerald Kennedy che, oggi rievocato e ricordato con enfasi – in particolare nella provincia italiota così superficiale – nessuno riesce o vuole ricordare come l’uomo della baia dei porci, altro che storie!

Su Obama il peso e le pressioni sono enormi. Da un lato ci siamo noi, la maggioranza dei silenziosi e degli insoddisfatti, coloro che vorrebbero che fosse finalmente posto un freno agli sporcaccioni che devastano il mondo per non seguire le più elementari misure anti-inquinamento, agli assassini che producono armi e le vendono (e a coloro che, acquistandole e usandole, permettono al Prodotto interno lordo di molti Paesi di crescere, alla faccia dei civili che massacreranno), agli intossicatori che spacciano sulle nostre tavole cibi sempre più devastanti e ai nostri figli merda da sniffare, fumare o infilarsi in vena, agli affamatori che preferiscono buttare prodotti agricoli sotto terra per farne crescere il prezzo sui mercati nazionali e internazionali piuttosto che inviarli a chi muore di fame, inclusi coloro che muoiono di freddo nei Paesi ricchi, buttati per strada al freddo sotto qualche cartone racimolato intorno a un’edicola. Dall’altro lato ci sono gli interessi di questa microscopica minoranza di ottusi ricchi, abili a sguazzare nell’acquario infame della loro opulenza e privi delle anche minime qualità umane di rispetto e pietà. Alcuni di loro, in tarda età, paiono svegliarsi e volersi rifare una verginità. Bentornati tra noi. Ma perché, in definitiva, dovremmo ricordare Bill Gates come l’uomo che, con la sua fondazione, aiuta i poveri per lavarsi la coscienza, quando la sua azienda ha “gabbato” centinaia di milioni di persone con i suoi sistemi operativi difettosi, permettendo al grande padrone dell’informatica mondiale di riutilizzare una inima parte di quegli introiti per lavarsi coscienza e immagine? Basta Mr. Gates, basta con le sue licenze e il suo sorriso da nonno buono, e basta con le altre poche migliaia di arroganti padroni del mondo che fanno e disfano sulla nostra pelle, creando brevetti, costruendo muri e abbattendo ponti con la complicità negligente e ghiotta di politici mediocri e mendaci che non meritiamo. Come quelli italiani, ad esempio.

Che anno sarà, il 2009, in un Paese come l’Italia, ormai periferia della periferia, messa con le spalle al muro da sogni di grandezza mai raggiunta e da una classe politica di mediocrità storicamente forse mai raggiunta prima, neppure ai tempi della negletta casa regnante che un tempo il destino, con sarcasmo e cinismo, c’impose? Nel Paese delle polemiche stantie e offensive del minimo buon gusto, non dobbiamo, purtroppo, aspettarci altro che un calo ulteriore del rispetto per l’intelligenza di chi, qui, pure ci vive e intende continuare a farlo. Un’opposizione inesistente e incapace non potrà bilanciare un governo altrettanto incapace e lontano dalle aspettative generali nei suoi interessi e nei suoi piani d’azione. Chi guadagna 20.000 euro al mese e vive in giacca e cravatta, magari montando su polemiche pruriginose perché nel prezzo del pranzo sontuoso a costo proletario che il contribuente gli paga non è più incluso il gelato, d’altronde, neppure lontanamente può immaginare che cosa voglia dire campare con 400 euro al mese lavorando in un call center o facendo le pulizie in nero a ore, oppure cucendo orli di pantaloni accecandosi davanti a una macchina da cucire. E stiamo parlando dei fortunati, di quelli cioè che, in definitiva, una miseria di lavoro pure l’hanno o se lo sono creato. Senza ricorrere a drastiche misure, senza abbassarsi a delinquere per sopravvivere. Perché questo è ancora, per fortuna, un Paese di brava gente. Brava gente sola e intristita, purtroppo. La classe politica italiana ignora completamente le condizioni in cui vive il Paese reale, perché non lo frequenta, non lo conosce e, soprattutto, non lo capisce. Perché non è sufficiente sapere. Il passo successivo è capire. Solo la comprensione – e il bagno di umiltà che vi è alla base – permette di trovare delle soluzioni. Ma come può chi colleziona ville o si rilassa veleggiando verso la Sardegna o fa il ministro dai Caraibi o il ministro ombra dal Kenya conoscere i reali bisogni e le vere paure di un Paese e dell’eterogeneo popolo che fortunatamente e per sua sfortuna vi vive?

La paura è oggi il vero discrimine della politica mondiale e quindi, di riflesso – esportatori di ottimi cervelli e importatori di pessime mode come siamo – della “politichetta” nazionale. Chi ha avuto la fortuna di viaggiare per scrivere conosce bene certi meccanismi, che i mezzibusti televisivi affini al potere goffamente tendono a mascherare dietro porte fittizie e sigle ricche di effetti speciali: la paura del diverso, l’instillazione de terrore per “l’altro”, sono l’anticamera de disastro sociale e civle, e non di rado della guerra e della devastazione. Chi continua a pensare che i Balcani siano un altro mondo rispetto all’Italia non conosce quelle terre e ne frequenta poco o male altre. Basta soffiare sulla paura per il diverso, basta mettere all’indice la diversità come sinonimo di pericolo, invece che di ricchezza. Questo è un crimine contro l’intelligenza umana e contro l’umanità stessa. Quanto sono brutti e puzzolenti, secondo certa politica e certi media, gli africani che arrivano in Italia attraverso il Mare di Mezzo? Eppure, da marzo a ottobre, quando questi stessi africani servono per la raccolta – in nero e in odore di sfruttamento persino semi-schiavistico – di pomodori, fragole e patate, improvvisamente l’allarme muta, sfuma, diventa qualcosa di diverso. O persino scompare. Gli interessi del caporale e del padrone terriero per cui lavora vengono prima della “sicurezza nazionale”, del bisogno di rimandare indietro “la marea che ci invade”, e che sapientemente lasciamo sfruttare. Gli “zulù” sono tali e fanno paura quando non ci occorrono. Solo allora. Quando guadagnano 30 euro al giorno, lavorano 12 ore sette giorni a settimana, non sanno neppure di avere (forse ancora per poco) diritto all’assistenza medica anche se sono clandestini e vengono sfruttati coattamente, allora puzzano meno. L’importante è che, quando non vengono sfruttati nei campi, scompaiano e vadano a rintanarsi come topi nei ghetti marci e freddi che la polizia ben conosce e nei quali devono rinchiudersi fino al mattino dopo, quando scatta la nuova chiamata del caporale. Altre dodici ore di patate, fragole, pomodori da raccogliere, per farli arrivare belli mondati e a prezzi stratosferici sulle tavole degli italiani rincoglioniti dalla plastica colorata e dagli effetti speciali. Nessun sappia, tutti dormano.

In definitiva, chissà davvero che 2009 sarà.

Che 2009 sarà in Kivu, nell’est della Repubblica democratica del Congo, dove negli ultimi dieci anni sono morti in quattro milioni, ma quasi nessuno se ne ricorda, perché coltan, legname, oro, diamanti e altri “ben di dio” vengono prima e soddisfano di più le esigenze del cittadino-consumatore-cliente globale?

Che 2009 sarà a Gaza, dove un popolo intero è ostaggio di un doppio incubo dal quale non potrà forse mai uscire?

Che 2009 sarà in Iraq, dove un giornalista rischia 15 anni di carcere e pare sia già stato picchiato e torturato per avere tirato “solo” un paio di scarpe (forse le uniche calzature che aveva) contro un uomo inqualificabile come Gorge W. Bush ma nessun tribunale, mai – né iracheno né internazionale – chiamerà lo stesso signor Bush e la sua claque di squali a rispondere dei crimini perpetrati ai danni di un popolo, in nome e in virtù di una provetta fasulla mostrata al mondo intero?

E che 2009 sarà in Cecenia, dove la setta degli ex agenti del Kgb al potere al Cremino non allenta la morsa dei paramilitari e della violenza contro una popolazione vittima di un genocidio silenzioso?

E in Georgia, dove un presidente-padrone amico dell’Occidente si permette di prendere a schiaffi in publico il suo primo ministro dopo avere provocato, non più tardi dello scorso agosto, almeno 2.000 morti in un’avventurosa campagna di riconquista territoriale a lungo attesa dal “democratico” primo ministro e onnipotente padrone Vladimir Putin per assestare la mazzata filale a Tbilisi e lanciare sinistri avvertimenti all’Ucraina? E in quest’ultimo Paese, dove la questione del gas russo porterà a conseguenze interne ben più gravi di quanto in molti si aspettino?

Sono domande troppo grandi per tutti noi, alle quali non si può dare una risposta. E allora, consapevoli che il gigante nordamericano è in declino e che oggi i nuovi astri si chiamano Cina (dove i diritti umani vengono rispettati sulla base del “modello tibetano”…) e India, aspettiamo metà gennaio e speriamo che qualcosa simile a una stella cometa si sistemi sul tetto della Casa Bianca, a Washington. Obama non può essere l’uomo del destino né il salvatore venuto da Chicago. Speriamo solo sia un uomo e un governante avulso dalle porcherie del potere alle quali la classe politica statunitense ci ha fatto assistere negli ultimi anni, e che dagli Stati Uniti parta finalmente una ventata di ottimismo fresco e frizzante. Se poi l’aria nuova entrasse anche nelle narici e nelle teste delle gerarchie religiose dei grandi monoteismi mondiali, il miracolo sarebbe davvero enorme. Ma è vero che siamo a Natale, però probabilmente neppure il Dio più onnipotente potrebbe riuscire in quest’ultimo prodigio. Non si può chiedere troppo a Babbo Natale, come sanno molti bambini…. Sarebbe anche pericoloso dal punto di vista occupazionale: quanti imbecilli che ammazzano in nome della fede rimarrebbero, a ogni latitudine, senza lavoro?... No, in tempi di crisi pare che questo non sia proprio possibile…

martedì 23 dicembre 2008

A proposito del male


Intervista di Antonello Sacchetti a Luca Leone, autore di Uomini e belve, storie dai Sud del mondo"

D: Partirei dal titolo. Provo a suggerire un sinonimo di “uomini”: “persone”. Ma le persone possono contenere una belva? Per cosa passa il confine tra vittime e carnefici?
R. Io sono partito da un’idea simile, ma al contrario. Ho cercato per prima cosa un sinonimo di belve e credevo di averlo trovato in “bestie”. Poi ho pensato che “bestia” è molto comunemente utilizzato come sinonimo di “animale” e non volevo correre il rischio di far confondere la “bestia umana” con la fiera, spesso ben più nobile a livello istintuale dell’uomo. Così ho optato per “belva”, che mi dà l’idea della bestia – o dell’animale – in caccia selvaggia e senza quartiere, dell’animale pronto a colpire non per mangiare ma per il gusto di fare del male. Nel caso dell’essere umano, però, la caccia assume ben altri connotati e sviluppi rispetto al resto del regno animale; di qui, il libro. “Persone” sarebbe stato il termine più appropriato per esprimere l’appartenenza positiva al genere umano, un’appartenenza senza distinzione di generi, ma più fattori hanno contribuito alla scelta del titolo finale: “persone” ha un’accezione appunto positiva, mentre qui si parla di persone quando loro – noi – subiscono/subiamo, ma che al contempo hanno – sia come singoli sia come gruppi – già dentro una propensione al cambiamento e a trasformarsi esse stesse in carnefici; “uomini” ha un’accezione almeno parzialmente negativa già in partenza, poiché è ancora oggi pratica comune identificare al maschile l’appartenenza al genere umano, subordinando la componente femminile, che invece nel libro non di rado è la parte che più subisce ma ha altresì grandemente una connotazione positiva e propositiva; inoltre, “uomini” è in termini di comunicazione molto più forte ed efficace di “persone”, e in editoria è fondamentale che un titolo sappia comunicare e colpire: “Uomini e belve” è molto più “forte” e ancestrale di “Persone e belve” o di “Persone e bestie”. Al contempo, per le ragioni prima esposte, “Uomini e bestie” non convinceva e poteva far pensare anche ad altro, magari essere persino un manuale sulla vita in campagna, perché no? Per questo, alla fine, abbiamo scelto questo titolo. Per rispondere alla seconda parte della domanda, il confine è molto labile, e quel che vi passa può essere anche molto sottile, non di rado invisibile: il cinismo, la vendetta, un trauma grave e la sua mancata rimozione, la patologia, la brama di potere, persino – per quanto possa sembrare pazzesco – la noia e la mancanza di un’etica che qualcuno ci abbia tramandato… Se è vero, come purtroppo spesso lo è, che non di rado le principali “belve” sono coloro che da bambini hanno subito gravi violenze, che una volta adulti ripetono a loro volta sui più deboli, sembra quasi che il circolo vizioso del male sia destinato a non fermarsi mai e, anzi, ad alimentari all’infinito.

D: Una domanda “tecnica”: è stato difficile reperire il materiale per questo libro? È davvero un viaggio attorno al mondo, ma non sei potuto andare in tutti i luoghi in cui sono ambientate le storie.
R. Confermo assolutamente che non sono potuto andare in tutti i luoghi di cui si parla, anche se Dio solo sa se avrei voluto. Ho però incontrato, e molte volte, tutte le persone di cui trasmetto esperienze e testimonianze, e ho controllato e verificato ogni fonte come da manuale. Rigorosamente. Non è stato affatto difficile: è stato sufficiente, a un certo punto, fare il sunto delle mille persone che il mio lavoro di giornalista mi ha portato a incontrare negli ultimi anni e cercare – cosa che è venuta assai facilmente – di unire le loro storie con un filo comune. Dal libro sono rimaste fuori tante storie e due interi continenti, a dimostrazione di quante ne avessi e ne abbia. Reperire una storia è la cosa più facile del mondo, se si è aperti alla realtà esterna e ai messaggi che costantemente ti lancia. Molto più difficile è approfondirli, capirli, interpretarli nel modo giusto, contestualizzarli, verificarli. Per farlo bisogna applicare le tecniche del mestiere, come ben sai. Spero di esserci riuscito e di aver fatto tutto questo nel modo migliore, più chiaro e gradevole possibile, nonostante il tema non sia facile.

D: È diverso l’approccio tra le storie raccontate qui in Italia dai protagonisti e quelle che hai raccolto in presa diretta, come in Bosnia?
R. No, l’approccio è sempre lo stesso e parte dal rispetto per la persona con cui stai parlando e dalla reciproca volontà e capacità di aprire un canale di comunicazione umano, di stabilire un “contatto”, di essere sinceri. Cerco sempre di contestualizzare ciò di cui scrivo. Mi piace provare a sondare l’animo della persona, osservare le gestualità, gli occhi, le mani, il modo in cui è vestito, siede, parla, mi guarda o non lo fa. E mi piace inserirlo nel contesto che lo e ci circonda, negli odori, nei colori, nell’aria stessa che in quel momento respiriamo, e che porta con sé frammenti d’universo in ogni nanosecondo. Raccontare una storia è impossibile senza narrare le mille e mille altre storie che si sviluppano tutto intorno. Non possiamo mai decontestualizzare ciò di cui scriviamo e la persona di cui scriviamo: rischieremmo di commettere un falso e di trasmetterlo. Per questo l’approccio non può essere mai diverso. Possono cambiare le attenzioni, le cautele, le barriere linguistiche e culturali, i pericoli, i luoghi e così via, ma l’approccio come sopra descritto no. Altrimenti si falsa ciò di cui si scrive o si rischia di inserire una vicenda in una specie di camera iperbarica, facendole perdere ogni senso e ogni utilità.

D: Nel libro, le storie dell’ex Jugoslavia hanno un ruolo centrale? Anche se è difficile generalizzare, ma a dieci anni dal conflitto del Kosovo, potresti delineare un quadro dell’ex “paese degli slavi del sud”?
R. Ho cercato di dare a tutte le testimonianze e le vicende lo stesso peso ma, certo, dedicare cinque capitoli a un pezzetto di Balcani – Bosnia, Serbia, Kosovo – vuol dire probabilmente sottolineare la centralità di questi Paesi solo apparentemente così incredibilmente periferici.
È difficile in un’intervista fare un quadro della situazione, poiché non basterebbe un intero libro con tante pagine. L’epilogo, non definitivo, del conflitto kosovaro è solo un’altra tappa della “guerra jugoslava”, che qualcuno una volta ha definito “la guerra dei dieci anni” ma che, in realtà, ormai è arrivata a quota 16 e tende a proseguire. Al di là delle suddivisioni territoriali, di cui ciascuno di noi ha certamente ormai sentito parlare, quel che pesa è il messaggio fatto passare, e ormai attecchito, dai cialtroni guerrafondai e golosi che hanno avviato e conseguito lo smembramento jugoslavo con la forza delle armi, a partire dal 1992, e cioè che “insieme non si può vivere”, che un’etnia è culturalmente o addirittura biologicamente superiore all’altra, nell’area di un fazzoletto di terra montuosa. I nazionalismi sono il peggiore dei risultati della guerra cominciata 16 anni fa e sono loro, oggi, i principali responsabili – insieme alla cecità e alla bramosità europea – del disastro umano e culturale in corso in questi Paesi. I nazionalismi, che non di rado si tingono di un fascismo affatto di facciata, sono il principale ostacolo verso la vera pace e verso la nascita o la rinascita di società di nuovo tollerante, in cui sia possibile vivere senza doversi ogni volta guardare le spalle. Questo è il dato di fatto in tutti i Paesi – Slovenia, Croazia, Bosnia Erzegovina, Serbia, Montenegro, Kosovo, Macedonia – sorti dalla carcassa decomposta della Jugoslavia titina; Paesi in cui neppure lontanamente, fino a oggi, si è affermato il principio semplice ma al contempo complicatissimo enunciato dal premio Nobel per la pace Adolfo Pérez Esquivel: “Non può esservi pace senza giustizia”. Dov’è, la giustizia, in questi Paesi, Bosnia in testa? E la pace? Quella vera?

D: La storia di Daniela la romena è la storia dei vicini di casa, della porta accanto, in tutti i sensi..
R. È, in tutti i sensi, la storia di questa Italietta piccola e provinciale, impaurita ed egoista, che la nostra mediocre classe politica, a 180 gradi, ci sta lasciando in eredità. Un Paese di migranti che si trasforma in un ghetto per gli immigrati è un Paese che non ha né memoria né umanità. Oggi stiamo rischiando di diventare questo. Non dobbiamo dimenticare che siamo stati il Paese delle leggi razziali. Il 1938 non è lontano e la xenofobia e il razzismo sono agenti patogeni che raramente lasciano un corpo debilitato, come è attualmente il nostro corpo nazionale. Bisogna tenere alta la guardia e aperta la mente, altrimenti si rischia di risprofondare nell’abisso dei manganelli e degli stivali neri. Mentre invece dovremmo finalmente veleggiare verso un futuro privo di ottuse contrapposizioni ideologiche ormai tramontate e sconfitte, lavorando per il rispetto della vita e della creatività umana, in tutta la sua enormità.

D: Racconti guerre dimenticate: Cecenia, Georgia, Liberia. E crisi mai risolte, come quella cubana. Dimmi la verità: se tu non fossi anche l’editore, credi che avresti trovato facilmente chi pubblicasse un libro “scomodo” come questo?
R. Non so come risponderti. Non credo che scomodo sia il libro, né gli argomenti trattati, sinceramente. Scomodo è il modo in cui gli argomenti vengono trattati. E questo è il caso. Puoi scrivere di crimini mostruosi per negarli o per raccontarne l’esteriorità, per mostrarne una scorza amorfa e addolcita. Puoi al contrario provare a sporcarti le mani e l’anima ed entrare nelle realtà che vuoi raccontare. Io da sempre provo a fare questo. Non so se ci riesco. Ma ci provo con umiltà. Per quanto riguarda l’editore, stai tranquillo che se ti presentassi con 4-5.000 euro “in bocca”, quasi qualsiasi editore ti pubblicherebbe, anche se sparassi a zero contro tutto e tutti. Magari non ti farebbe arrivare in libreria o sui giornali, ma stai pur certo che non pochi si affretterebbero a farti firmare un contratto. Si ha un’idea molto edulcorata del mondo dell’editoria, un’idea ancora quasi romantica. Meglio cominciare ad aprire gli occhi.

D: Mi incuriosisce il tuo doppio ruolo di scrittore ed editore. Spiegaci difficoltà e aspetti interessanti.
R. Cerco di sdoppiarmi e di non condizionare l’uno con l’altro. Alla fine non ci riesco, perché l’editore condiziona l’autore, c’è poco da fare. Per di più, l’editore “punisce” l’autore, perché i miei libri finiscono con l’essere quelli che non riesco a promuovere come dovrei, finendo per lasciarli sempre in fondo alla lista, dopo gli altri. Probabilmente è così che pago questo doppio ruolo, che tra l’altro è molto divertente, perché non è così diffuso il fatto che un autore conosca le problematiche cui va incontro un editore e viceversa. Senz’altro, come dire, l’approccio da editore con il me stesso autore è molto più sereno che non con gli altri autori della casa editrice, che non di rado pretendono ma non comprendono le difficoltà oggettive del mestiere e del mercato, e gli sforzi che facciamo per andare avanti. Però non vivo una realtà da “sdoppiato”. Anzi, in definitiva mai come oggi ho vissuto con i piedi per terra e ricco di una consapevolezza che aumenta anno dopo anno. E infatti, tra la ventina di libri cui stiamo lavorando per il 2009 ci sarà un altro mio nuovo lavoro, di nuovo sulla Bosnia. Sarà un libro completamente diverso da come l’avrei prospettato fino a due anni fa. Gli ultimi viaggi in Bosnia, e in particolare l’ultimo all’inizio di dicembre 2008, mi hanno definitivamente fatto capire che cosa voglio scrivere e come. Ho materiale per dieci libri: lo sforzo sarà riuscire a scriverne uno solo da 160 pagine, buttando tutto il resto. L’appuntamento, se riuscirò in questa impresa improba ma affascinante, è per l’autunno 2009. Però non dimentico i libri “vecchi”, a partire da “Sotto il mattone”, del 2007, scrivendo il quale mi sono divertito come non mai, sperimentando in prima persona i vizietti antipatici dei furbetti di casa nostra.

D: Per finire: non corri il rischio di dipingere un mondo di sole belve? Di dare cioè un messaggio apocalittico?
R. Niente affatto, anzi mi sforzo di fare il contrario, come ho cercato di spiegare nelle ultime presentazioni del libro: alla fine questo lavoro mi ha convinto in modo inconfutabile che l’essere umano dentro di sé ha una forza enorme, inimmaginabile e positiva, e che proprio questa forza non solo ci permetterà di sopravvivere ma, prima o poi, ci permetterà anche di fare finalmente il passo in avanti di cui abbiamo bisogno, verso un mondo più libero e verso dei rapporti umani diversi. Oggi il pianeta potrebbe farci vivere tutti meglio. Invece stiamo allargando la forbice, sempre di più, e ci stiamo macchiando di un’aberrazione: la povertà e la fame nel mondo. Ne siamo tutti responsabili, come del grosso delle guerre che si combattono in decine di Paesi del mondo. Io sono convinto, nonostante tutto, che sapremo venirne a capo. Bisognerebbe cominciare solo a mandare a casa i politici e gli speculatori che abbiamo e che davvero non meritiamo, perché di questa gente non se ne può veramente più. In pochi decenni ci hanno distrutto secoli di sviluppo umano e culturale, finendo col dare un prezzo e un’etichetta col codice barrato a tutto. Ci vorrà del tempo, ma perché non sperare di farcela?

martedì 16 dicembre 2008

Alla ricerca dell'Undicesimo Comandamento


A Once, Buenos Aires, con Francesca Bellino, autrice de "Il prefisso di Dio"

Da Salerno a Buenos Aires il passo non è breve ma Francesca Bellino – autrice per i tipi di Infinito edizioni del saggio “Il prefisso di Dio. Storie e labirinti di Once, Buenos Aires”, novembre 2008, pagg. 192, € 14,00 – ha trovato il modo più sorprendente per colmare un Oceano di distanza e portare per mano il lettore nel quartiere “fantasma” più famoso del mondo, quell’Once che ha dato i natali a tanti artisti e che è stato culla della cultura ebraica in Argentina.

Dall’intervista con la Bellino scaturisce una Buenos Aires inedita, sconosciuta ai più, priva di confini e ricca di contaminazioni culturali, una città colta e interiormente forte che gira attorno a un quartiere che non esiste, ma che tutti conoscono, che non sta sulle mappe ma che tutti cercano e in cui, in un modo o nell’altro, tutti prima o poi fanno ritorno.

El Once e il numero undici sono al centro della chiacchierata sul libro che, tra l’altro, è ulteriormente arricchito dalla prefazione del grande compositore portegno Luis Bacalov, secondo cui “un viaggio in compagnia de ‘Il Prefisso di Dio’ apre le porte meglio di qualunque guida turistica non solo a el Once e a Buenos Aires, perché Francesca Bellino racconta questi luoghi e storie con la partecipazione vitale e affettuosa di una scrittrice attenta e desiderosa di spaziare oltre e oltre e oltre ancora”.

D. Francesca, il tuo libro colpisce e impressiona favorevolmente fin dal titolo. Che cosa è – e quale è – però questo “Prefisso di Dio” di cui parli e come nasce questo titolo così particolare?
R. Il titolo nasce da una barzelletta che ironizza sulla convinzione degli argentini di godere della presenza costante di Dio in città. Dios attiende en Buenos Aires, dicono, per comunicare che Dio riceve nel suo ufficio a Buenos Aires e da lì fa i suoi miracoli. Quando si ha l’intenzione di telefonargli, infatti, si dice che non c’è bisogno di fare il prefisso perché per chiedere aiuto a Dio basta “una chiamata locale”! “Il prefisso di Dio” richiama, inoltre, il numero ricorrente in tutto il libro, l’11, o Once in spagnolo – nome del quartiere della città dove si svolge la storia – perchè il prefisso di Buenos Aires è 011. Il numero 11 è stato il punto di partenza del mio viaggio di conoscenza del quartiere, della città e della società argentina ed è poi diventato il filo conduttore di tutti gli avvenimenti narrati. La sorpresa per me è stata scoprire che la storia era “già scritta”: dovevo solo ricomporla mettendo insieme gli 11.

D. Nel tuo libro tutto ruota attorno al “quartiere fantasma” Once. Come definiresti Once e che rapporto c’è tra il quartiere, la gente che in esso vive e la città di Buenos Aires?
R. Once per me simboleggia l’Aleph di Borges «uno di quei punti dello spazio che contiene tutti i punti. Il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli». Anche se per molti porteños – così sono chiamati gli abitanti di Buenos Aires – Once è solo un luogo di passaggio per raggiungere altri posti perché lì si trova una grande stazione, per me questo quartiere invece ha rappresentato il centro del labirinto che può portare alla conoscenza di se stesso e degli altri perché vi confluisce tutto e la sua atmosfera stimola al confronto con i propri limiti e con le differenze delle culture di altre comunità. A Once coabitano pacificamente ebrei, boliviani, peruviani, coreani, oltre a immigrati di origine italiana e spagnola. Once è considerato un quartiere fantasma perché non compare sulle mappe della città. Una delle sfide che la protagonista compie in questo viaggio di ricerca, infatti, consiste proprio nel trovare i confini di un quartiere che non esiste – conosciuto ufficialmente con il nome di Balvanera – eppure scenario di importanti pagine di storia della città di Buenos Aires, dalla nascita del tango ai grandi flussi immigratori di fine ‘800, dalla concentrazione della prostituzione ai primi attentati terroristici in America Latina negli Anni ’90, all’ambasciata d’Israele e all’Amia, fino alla tragica morte di 194 ragazzi nella discoteca Cromañon nel 2004, fotografia dell’Argentina di oggi: corruzione, insicurezza e normalizzazione del pericolo.

D. Proviamo a fare una panoramica dei grandi nomi nati in questo quartiere. Once ha dato i natali ad alcuni tra i più grandi rappresentanti della cultura e delle arti non solo dell’intera Argentina ma di tutto il mondo. C’è una spiegazione, secondo te, o è solo un caso?
R. È vero, molte figure rappresentative dell’Argentina nel mondo sono nate o vissute a Once, come gli autori di tango Julio De Caro, José Razzano, Alberto Castillo, il maestro d’orchestra Daniel Barenboim, fondatore della West-Eastern Divan Orchestra che riunisce giovani musicisti d’Israele e dei Paesi arabi, lo scienziato, medico e fisiologo Bernardo Alberto Houssay, vincitore del Nobel per la medicina nel 1947. Vi è nato e ancora ci vive e ci lavora anche uno degli scrittori ebrei più apprezzati della nuova generazione, Marcelo Birmajer, e si racconta che lo stesso Carlos Gardel, il grande mito del tango, abbia trascorso la sua infanzia tra le strade di Once, come è successo anche al maestro Luis Bacalov, autore della prefazione de “Il prefisso di Dio”, nato in un quartiere vicino, Villa Crespo. Una spiegazione? Ho sempre pensato che niente succeda per caso, e che «ogni incontro casuale è appuntamento», come ci ricorda Borges. Probabilmente la convivenza di culture diverse e la possibilità di dialogare con il “diverso” aiutano a guardare il mondo in maniera più ampia e a sviluppare potenzialità, aspettative e creatività con maggior coraggio, libertà e determinazione.

D. La tua ricerca dell’Undicesimo Comandamento – uno degli assi portanti del tuo libro – alla fine ha dato frutti?
R. Tanti. Come dice uno dei personaggi del libro, «ogni passo è la meta». È più importante il cammino che si compie per raggiungere il traguardo o per trovare l’oggetto desiderato che l’arrivo o il ritrovamento in sé. Il libro, che fonde il linguaggio del saggio, del reportage e del romanzo, racconta i passi che compie la protagonista per imparare a confrontarsi, a dialogare e a rispettare l’Altro. Il mio augurio è che anche i lettori facciano lo stesso viaggio percorrendo le pagine del libro, ponendosi delle domande sulla propria vita. L’invito che mi piacerebbe arrivasse a chi leggerà “Il prefisso di Dio”, infatti, è quello di cercare, ognuno sulla sua strada, un Undicesimo Comandamento valido per tutte le religioni, una legge inedita da usare nelle nuove società plurali che, come in Italia, in tante nazioni stentano a funzionare.

D. Perché un turista dovrebbe visitare Once? Da quali suggestioni dovrebbe (o potrebbe) farsi guidare?
R. Once non è affatto un luogo turistico, non ci sono attrattive, è un luogo assolutamente anonimo, ma sicuramente può essere interessante passeggiare su una delle sue strade tematiche colme di prodotti variopinti e a buon prezzo, o attraversare plaza Miserere, dove tante persone si dimenano in attività di ogni tipo e osservare come a Buenos Aires sia assolutamente normale costruire una sinagoga a fianco di una chiesa cattolica gremita di fedeli in cerca di un miracolo e vedere persone di religioni diverse correre a compiere il proprio rito di preghiera senza inibizioni, vergogne o paure. Non c’è bisogno di andare a Once, però, per imparare ad ascoltare l’Altro e apprezzarne le differenze. Lo si può fare anche a Piazza Vittorio a Roma.

D. Come definiresti gli argentini?
R. Persone molto colte, forti e vitali con una grande capacità di reagire e rialzarsi dopo ogni tipo di caduta.

© Infinito edizioni 2008 – Si consente l’uso libero di questo materiale citando chiaramente la fonte

giovedì 20 novembre 2008

"Morte agli Italiani!", parla Enzo Barnabà


"In un secolo i meccanismi della xenofobia non sono molto cambiati, purtroppo"

“Il massacro di Aigues-Mortes, che il 17 agosto 1893 costò la vita a nove operai italiani linciati da una folla inferocita, rappresenta indubbiamente un episodio non secondario dei rapporti tra l'Italia e la Francia, sia al livello delle relazioni politico-diplomatiche tra i due Stati che a quello della storia delle classi subalterne dei due Paesi. Malgrado ciò, bisogna registrare il processo di rimozione verificatosi in Francia dove dei fatti – in pratica cancellati per un secolo dalla memoria collettiva nazionale – si è cominciato a parlare soltanto negli ultimi anni. In Italia, invece – grazie all'incidenza che il massacro ebbe sulla politica interna e in particolare sullo scontro tra le due linee politiche, rappresentate da Crispi e da Giolitti, che sul finire del secolo si contendevano la guida del Paese – l'episodio, peraltro più citato che conosciuto, continua a far parte del patrimonio storico post-risorgimentale”.

Questo l’incipit di Morte agli Italiani!, il nuovo sforzo saggistico dello storico e romanziere Enzo Barnabà, un uomo che ha scritto pagine importanti di letteratura sia in Italia sia in Francia e che con questo nuovo lavoro sull’eccidio di Aigues-Mortes (pubblicato nell’ottobre 2008 da Infinito edizioni) ha stracciato un velo di omertà e di vernice nera su uno degli eventi più tragici della fine del secolo XIX nei rapporti italo-francesi, che rischiò di far sprofondare in un conflitto i due Paesi.

Il libro di Barnabà, corredato da una certosina e rara ricostruzione iconografica degli eventi, può essere riassunto come un grande saggio storico e un notevole servizio alla verità, figlio come è di anni di ricerche e studi, oltre a essere ulteriormente impreziosito da una profonda e sentita prefazione del giornalista Gian Antonio Stella e da una introduzione inedita e postuma scritta dall’ex segretario del partito comunista italiano Alessandro Natta.

Con Barnabà, siciliano da anni residente a Ventimiglia e profondamente amato dai suoi ormai conterranei liguri, abbiamo parlato, discorrendo del libro, d’immigrazione, di politica e di storia, provando a mettere a confronto due secoli solo apparentemente così distanti. Il risultato di questa chiacchierata, per molti versi illuminante, è spiazzante: la durezza dei tempi odierni e la crescente xenofobia, in Italia, verso lo straniero ma, più in generale, verso colui che ci appare “diverso”, sembra perfettamente e drammaticamente ricalcare gli anni che portarono ad Aigues-Mortes e quelli successivi, che culminarono nel bagno di sangue della seconda guerra mondiale.

Enzo Barnabà, perchè questo libro?
Per due motivi. Intanto perché trovo intollerabile che frotte di turisti percorrano allegramente le strade di Aigues-Mortes senza essere sfiorati dal sospetto di trovarsi nei luoghi che furono teatro dello scatenarsi della più ignobile follia omicida. E inoltre perché il diffondersi della xenofobia è sotto gli occhi di tutti; non è male ricordare che siamo stati un popolo di emigrati che ha subito le ferite del razzismo.

L’eccidio di Aigues-Mortes e le sue cause sono da tempo rimossi dalla memoria nazionale. Puoi descrivere quei giorni drammatici e spiegarci il perché di questa rimozione?
La sadica violenza dell’eccidio colpì profondamente l’opinione pubblica italiana. Si sfiorò il rischio di passare dalla guerra doganale in corso tra i due Paesi a quella guerreggiata. Le manifestazioni spontanee che si registrarono in tutta la penisola (durissime quelle di Roma e di Napoli) furono cavalcate da Crispi e dalla Corte per fare cadere Giolitti e mettere in atto la svolta reazionaria, il colpo di stato larvato, da cui il Paese si libererà soltanto qualche anno dopo, con la cosiddetta crisi di fine secolo.
La memoria storica dei popoli è, ahimé, selettiva e non è piacevole ricordare che prima di diventare un Paese d’immigrazione siamo stati un Paese di emigrazione. Se comunque in Francia la rimozione è stata totale, direi che in Italia è stata parziale. In realtà, da noi l’eccidio è sempre più o meno stato citato dai manuali di storia, ma i fatti erano conosciuti poco e male. Ancora recentemente si è scritto di centinaia di morti. Le ricostruzioni sommarie e imprecise sono state la regola.

Che cosa ha significato allora l’eccidio e quali valori può ispirare all’Italia incattivita di oggi?
Per i socialisti italiani e francesi l’eccidio fu un campanello d’allarme che pose drammaticamente il problema dell’internazionalismo, che poi in soldoni era quello politico della difesa del proletariato in quanto tale (autoctono e immigrato che fosse) piuttosto che quella del solo proletariato nazionale.
La destra francese voleva estendere il protezionismo alla manodopera (“Se proteggiamo le nostre pecore, dobbiamo a maggior ragione proteggere il lavoro nazionale” sosteneva Barrès) mentre al padronato la concorrenza tra lavoratori faceva comodo. I meccanismi non sono molto cambiati, come si vede.

Al termine dell’ottima prefazione di Gian Antonio Stella, il giornalista si augura con forza che mai più abbiano a ripetersi episodi come quello di Aigues-Mortes. Tu temi che il germe della xenofobia possa, prima o poi, provocare nel nostro Paese un simile dramma?
Piccoli pogrom avvengono tutti i giorni nell’Italia di oggi. Se si leggono i giornali boulangisti francesi di 120 anni fa e quelli leghisti di oggi, si ritroveranno le stesse parole, gli stessi argomenti: è davvero sorprendente. La paura e il disprezzo del diverso non possono che alimentare, oggi come ieri, sadismo e violenza. Agli storici è ben noto come, nei periodi connotati dalla recessione, la xenofobia esca dallo stato di latenza. Oggi, il quadro economico alimenta la guerra tra i poveri e anche quel meccanismo psicologico che spinge a vedere nell’immigrato il piedistallo su cui montare per cercare di sfuggire all’emarginazione. Il quadro politico, poi, non è dei migliori: basta dare uno sguardo a quanto Stella dice di Berlusconi e del suo governo nella prefazione al saggio.

Da quanti anni studi i fatti di Aigues-Mortes e che cosa, in particolare, ti ha spinto a dedicare così ampia parte della tua vita a questo episodio avvenuto oltre un secolo fa?
Un pannello stradale che indicava "Aigues-Mortes" svolse negli Anni ‘70 la funzione della madeleine. Mi balzarono in mente l'aula del liceo, il professore di storia e il libro di testo che dedicava due righe alla strage. Volli saperne di più. Le pubblicazioni italiane erano con ogni evidenza imprecise e quelle francesi desolatamente reticenti. Insegnavo in un liceo di Nîmes, il capoluogo del dipartimento in cui si trova la cittadina in cui avvenne la strage e l'archivio dipartimentale si trovava a due passi. Dopo un paio di pomeriggi, aprivo il "dossier Aigues-Mortes", un centinaio di documenti che da quasi un secolo nessuno aveva più preso in mano. Fortuna o fiuto, non saprei dire.
Ho poi con una certa pignoleria continuato le ricerche. Per dieci anni ho utilizzato buona parte delle mie ferie per andare in giro tra archivi ed emeroteche: Parigi, Marsiglia, la stessa Aigues-Mortes, Angloulême (dove si svolse il processo farsa) e poi Roma, Milano, Torino (la maggioranza dei morti e dei feriti proveniva dal Piemonte), ecc. Mi ha aiutato il fatto di essere bilingue e biculturale. Abitualmente, lo storico italiano ha difficoltà a orientarsi con sicurezza tra i documenti francesi; e viceversa, naturalmente. Mi ha anche aiutato il fatto che la vicenda si sia svolta nel 1893, l'anno dei Fasci Siciliani, alla cui storia avevo già dedicato un libro.

C’è un politico italiano in particolare a cui consiglieresti la lettura del libro? Perché e quali effetti vorresti destare in lui?
A Gentilini, ma credo che non servirebbe a nulla. Lui e i suoi amici sono convinti che l’emigrazione italiana fosse diversa da quella straniera di oggi. Gli italiani, dicono, “portavano con loro duemila anni di civiltà”. Se sapesse qual era la percentuale di analfabeti! Credo che non riesca neppure a immaginarlo.

A chi dedicheresti idealmente il tuo sforzo saggistico?
A chi pensa che la fatica dello storico sia un atto di civismo.

martedì 4 novembre 2008

“RiScatto” per le vittime dello stupro


In un libro il progetto voluto da Olivia Molteni Piro e da Il Sole onlus in Etiopia


Olivia Molteni Piro è forza allo stato puro, vera dinamite.
Tutti la conoscono, a Como – dove è nata e vive – come ad Addis Abeba, e in tanti hanno imparato ad amarla. Madre adottiva, madre naturale e donna naturalmente slanciata verso il prossimo, un giorno di qualche anno fa ha scoperto che lo stupro in Etiopia, anche nelle famiglie, è una piaga sociale molto diffusa e assai poco punita.

Quel giorno la sua vita, già improntata al sostegno del prossimo in difficoltà, è cambiata del tutto e i viaggi, dapprima in Etiopia, poi in Burkina Faso, sono diventati una costante per lei e per la sua famiglia, forgiata nel granito esattamente come questa donna dagli occhi luminosi e sereni. Granito, sì, ma con sotto un enorme cuore che batte e pompa sangue.

Fondato Il Sole onlus, oggi Olivia si è “ritirata” a fare la nonna a tempo pieno, lasciando la sua “creatura” a un gruppo ben affiatato, guidato da Vittorio Villa.
Il progetto “Fiori che rinascono”, creato appositamente per portare aiuto e una speranza di futuro alle vittime della violenza sessuale ad Addis Abeba, è nel frattempo diventato un libro per i tipi di Infinito edizioni, “RiScatto”, il cui titolo ha appositamente una doppia lettura: atto finale di un corso di fotografia tenuto dal fotografo Gin Angri per aiutare le ragazze a superare il trauma; ma anche riscatto sociale e personale da una condizione di prostrazione interiore a una rinascita profonda, con la vita che, al termine del tunnel, torna a risplendere (come testimoniano anche gli scritti delle ragazze, pubblicati a corredo dell’importante apparato fotografico).

Uno splendido libro fotografico a colori, “RiScatto”, appositamente a basso prezzo di copertina, il cui scopo è finanziare il progetto “Fiori che rinascono”, sia in Etiopia sia nel nuovo Paese africano, il Burkina Faso, in cui Il Sole intende diventare operativo, sempre con lo scopo di opporsi alla pratica generalizzata e impunita dello stupro.

Con Olivia abbiamo fatto il punto della situazione sul progetto “Fiori che rinascono”, sul libro che da questo progetto è stato generato e sul nuovo impegno in Burkina Faso. Facendo una panoramica piuttosto rara su un argomento, lo stupro, di cui si parla sempre poco e poco volentieri, ma che purtroppo distrugge e condiziona la vita di milioni di bambine e donne non solo in Africa ma in tutto il pianeta.

Olivia, cominciamo dal titolo: che cosa rappresenta per te e per Il Sole e per le ragazze questo riscatto?
Il riscatto è una battaglia combattuta con ogni strumento a disposizione e senza ripensamenti o esitazioni per la conquista di uno status sociale perso e di una dignità distrutta dalla violenza sessuale. Comincia con la riappropriazione di una percezione positiva di sé e del proprio corpo, passa attraverso la ricostruzione di un’autostima e un’identità forti e stabili, e si conclude con il desiderio e la spinta motivata a essere reintegrati in un tessuto sociale che respinge, isola e stigmatizza.

Quali sono i contorni e le dimensioni dell’emergenza legata, in Etiopia, alla violenza sessuale contro i minori e perché Il Sole ha scelto di lavorare in questo Paese così difficile?
Le dimensioni dell’emergenza legata alla violenza sessuale in Etiopia non sono di facile definizione perché difficile è definire cosa si intenda per” violenza” in un contesto culturale che legittima abusi di ogni tipo su donne e bambini all’interno della famiglia stessa. Un contesto dove i matrimoni precoci (età media delle bambine 13 anni) avvengono di regola nella maggior parte delle regioni del Paese. Dove i matrimoni riparatori per rapimento e stupro sono il 50% nel sud del Paese. Dove il 74% delle donne ha subito la mutilazione dei genitali. Forse si può azzardare che due bambine su dieci sono vittime di stupro nel Paese. Ma ha veramente importanza quantificarne il numero?
Quando Il Sole iniziò a occuparsi del fenomeno, nel 2002, fu il primo a creare un network di organismi istituzionali, ong locali, strutture sanitarie, uffici legali e di polizia che lavorassero in modo coordinato per avere il polso della situazione e strutturare servizi a 360 gradi per le piccole vittime della violenza. E fu il primo a offrire, tramite una formazione specifica e mirata agli operatori del settore, gli strumenti che non esistevano per un approccio professionale con la riabilitazione psicologica e ad avviare momenti di incontro con le famiglie finalizzati a creare consapevolezza di un ruolo genitoriale di protezione e tutela che la cultura locale non prevede.
Proprio perché l’Etiopia era un Paese così difficile culturalmente, nel rapporto con le istituzioni, e per la limitata libertà di azione, lavorare per i bambini sessualmente abusati è stato un dovere dal quale Il Sole non ha potuto chiamarsi fuori. Ed il progetto “Fiori che rinascono” è stata la sfida più grande che l’associazione abbia mai affrontato.

Il recente “giro di vite” del governo di Addis Abeba ai danni delle organizzazioni umanitarie straniere quali conseguenze ha avuto sul progetto “Fiori che rinascono” e sulle ragazze?

In questo momento il progetto “Fiori che rinascono” è temporaneamente sospeso, in attesa di individuare una nuova modalità per continuare a implementarlo secondo gli standard previsti per il raggiungimento di obiettivi di base significativi. È ovvio che Il Sole non rinuncerà a renderlo nuovamente operativo nel momento in cui le condizioni saranno favorevoli alla “rinascita” del progetto. E le ragazze non sono state abbandonate a loro stesse perché continuano a usufruire di alcune forme di sostegno che ci permettono di tenerle monitorate e continuare il percorso con loro in attesa di tempi migliori.

Qual è la cosa che più ti è rimasta impressa ne rapporto con queste ragazze?
La contraddizione tra i loro sguardi che parlavano in silenzio di disperazione, rabbia e rassegnazione al tempo stesso e il bisogno, espresso in modo prepotente e quasi gridato, di individuare figure adulte delle quali fidarsi ancora. La richiesta di essere amate nel modo giusto, con rispetto, con attenzione per la loro unicità, con accettazione di quel vissuto che le aveva lacerate e offese.

Ora “Fiori che rinascono” si sposta da est a ovest del continente africano e approda nel Burkina Faso. Perché e con quali aspettative?
Perché la violenza sessuale su un minore è un fenomeno transnazionale che colpisce ovunque con la stessa ferocia, lasciando conseguenze devastanti. È dovere morale di tutti, in particolare di chi ha scelto di operare nel settore della tutela dei diritti dei bambini, affiancarsi a quelli di loro che maggiormente soffrono per la violazione di tali diritti. Etiopia, Burkina Faso, India… Ovunque anche un solo bambino diventi invisibile e muto, noi siamo chiamati a restituirgli identità e voce, usando gli strumenti di cui disponiamo e l’esperienza che ci siamo costruiti sul campo, anche pagando prezzi alti in termini di frustrazioni e sconfitte. Il Sole si aspetta di interloquire, anche in Burkina Faso, con le istituzioni e la società civile, per creare una rete di strutture nell’ambito delle quali i bambini vittime di violenza sessuale possano trovare accoglienza, ascolto e gli strumenti adeguati per diventare adulti socialmente attivi e capaci di costruire una società più accogliente e sicura per i loro bambini.

Quanto occorre investire per un progetto come “Fiori che rinascono” e come fa una piccola organizzazione umanitaria a trovare i fondi?
L’investimento su un progetto come “Fiori” non è affatto cosa facile. Non si tratta di “semplice” raccolta fondi. È qualcosa di più profondo, di più complesso. Si tratta di aggregare risorse di ogni genere, umane, materiali, logistiche e anche, successivamente, finanziarie.
L’impegno che il progetto “Fiori” richiede è totale, assoluto e totalizzante. Non è pensabile gestire il progetto con solo alcune delle risorse richieste. Servono tutte. Per cui non bastano fondi, ma serve un gruppo di persone legate da uno spirito di gruppo indissolubile, una volontà ben precisa, un’ideale comune in grado di mettere in relazione le diverse risorse necessarie e renderle le più produttive possibili. In questo senso il “costo” del progetto è elevato, ma i “benefici” (giusto per usare termini cari agli economisti) per chi partecipa attivamente in ogni singola fase del progetto sono sicuramente ben più cospicui.
In conclusione, il progetto “Fiori” è particolare non solo per la specificità del problema toccato, ma anche e soprattutto per la modalità corale di mettere insieme le risorse necessarie per trovare soluzioni adeguate a questo problema.

Se qualcuno volesse aiutarvi, in modi diversi, come potrebbe fare?
Pur riconoscendo che il sostegno finanziario è imprescindibile per la realizzazione di un progetto quale “Fiori che rinascono”, l’impegno di persone che abbiano una professionalità specifica nel campo del recupero del trauma indotto dalla violenza sessuale sui minori e che siano disponibili a collaborare con Il Sole su basi di volontariato è altrettanto importante e significativo. Per una piccola organizzazione umanitaria quale Il Sole, risorse umane motivate e che condividano gli ideali e le finalità dell’associazione facendosene portavoce, sono un patrimonio prezioso.

lunedì 20 ottobre 2008

La tolleranza della Sarajevo assediata



Intervista ad Alda Radaelli, autrice di Sabur. Racconti d’amore e di massacro

di Luca Leone

“In una città che ha perso 10.000 abitanti fatti a brandelli dalle granate, in cui ogni uomo ha vissuto un’esperienza di trincea tra le peggiori, che dovrebbe averlo reso duro e insensibile, per quel poliziotto sparare un colpo di pistola a un cane randagio morente è come sparare a sangue freddo a una persona che ti chiede aiuto… Quel cane non appartiene a nessuno ma nessuno si sente di abbandonarlo. Questo è il mistero di Sarajevo”. E un’ottima ragione per leggere Sabur. Racconti d’amore e di massacro (Infinito edizioni, 2008, pagg. 140, € 12,00), il bel libro di Alda Radaelli – autrice anche del testo citato – che si giova della prefazione della scrittrice Maria Pace Ottieri e della postfazione del foto reporter di guerra Mario Boccia, la cui visione della guerra e dell’assedio è diversa da quella esposta dalla Radaelli, e la cui testimonianza è stata accolta tra le pagine di “Sabur” proprio per dimostrare che è la civiltà dello scambio di opinioni a dover prevalere, anche e soprattutto tra coloro che vedono nelle cose sfumature diverse.

“Sabur” è un libro di guerra e di dolore ma anche d’amore e di civiltà, dalla prima all’ultima riga. L’autrice, che ha vissuto gli oltre 1.400 giorni del sanguinoso assedio (costato la vita a oltre 10.000 persone), si trovava sul posto per svolgere la sua missione di giornalista, esattamente come Boccia. Da quel giorno, la sua vita – la loro vita – non è stata più la stessa.

Alda Radaelli racconta in questa breve intervista la sua esperienza nella Sarajevo di allora e in quella di oggi, a partire dalla prima, inevitabile domanda.

Cominciamo dal titolo del libro: Sabur. Come spiegheresti ai lettori il significato di questa parola bosniaca, ma quasi arabo-spagnola nella fonetica, e che cosa rappresenta per te “Sabur”?

R - Partiamo da una premessa. Per me le radici dell’Europa sono tre e non due: quella ebraica, quella musulmana e quella cristiana. Ho appreso dalla cultura musulmana una parola che usano a Sarajevo, ma che proviene dall’impero ottomano, e che usano anche gli arabi (o forse l’hanno inventata loro ancora prima?). La propongo come invito a tutti noi. Ne trascrivo il significato dalla prima pagina del libro: “Sabur significa per il musulmano tolleranza, pazienza, autodisciplina. Sabur l’ha aiutato a sopravvivere a due genocidi di uguale matrice nell’arco di 50 anni Sabur non gli permette di covare vendetta. Ma non chiedete al musulmano di Bosnia di dimenticare.
Il primo genocidio è avvenuto durante la seconda guerra mondiale ed è descritto dallo storico Vladimir Dedjer nel libro Genocid nad muslimanima.

Hai vissuto un’esperienza tragica come l’assedio e il bombardamento di Sarajevo, il più lungo che la storia bellica europea moderna e contemporanea abbia mai conosciuto. Ti sei sottoposta a questo assedio volontariamente, per volontà di testimoniare. Come descriveresti la tua esperienza a Sarajevo durante la guerra?
R - È una esperienza ragionata, senza nessun eroismo. Sapevo esattamente quello che rischiavo. All’inizio, pensavo che era importante testimoniare direttamente. In un secondo tempo ho capito che tutti a livello internazionale sapevano tutto e che la divisione della Bosnia era stata pianificata a tavolino per cancellare, là e altrove, ogni esempio di pacifica convivenza tra culture diverse. Ma a quel punto avevo assorbito dalla popolazione valori irrinunciabili non solo per sopravvivere, ma per vivere. E non c’era più ragione di andare via perché stavo bene lì. È quello che chiamo ancora oggi lo spirito di Sarajevo.

Lo rifaresti?
R - Certo. Mi ha cambiato la vita. Mi ha dato un sereno rapporto con il mondo che prima non conoscevo.

Oggi, quando torni a Sarajevo, con quali occhi la osservi e quale rapporto hai con le persone che hai conosciuto durante l’assedio?
R - Mi onoro di essere una delle poche persone che è stata accettata, perché a Sarajevo, come dice Mario Boccia nella postfazione, non è facile entrare. In una Bosnia ridotta a un quarto del suo territorio, che vive sotto la minaccia di scomparire dalla carta geografica, vivo meglio che in una Italia in cui mi riconosco sempre meno.

Molti sarajevesi e almeno il 50% dei bosniaci quotidianamente devono sostenere una dura lotta per mangiare e sopravvivere. Perché il dopoguerra bosniaco è stato ed è così lungo? Di chi è la colpa?

R - Di chi rifiuta di prendersela. D’altronde lo stesso avviene nel resto del mondo, dove il 4% della popolazione sfrutta a proprio beneficio tutte le ricchezze del pianeta, provocando livelli di sofferenza e disperazione indicibili.

Che cosa pensi di coloro che negano l’aggressione alla Bosnia Erzegovina e parlano di guerra fratricida, come se la guerra e il genocidio bosniaci non fossero stati qualcosa di programmato a tavolino?
R - Penso che non ce ne libereremo mai. Rispondo estendendo il concetto del grande filosofo Yeshayahou Leibowitz, recentemente scomparso, il quale dice che la shoah è un problema di chi l’ha voluta, non di chi l’ha subita.

E di fronte all’arroganza di un criminale di guerra come Radovan Karadzic, che cosa provi?
R - Nulla, fa il suo mestiere di criminale per cui è stato scelto per scatenare l’aggressione alla Bosnia. Il problema riguarda chi sta dalla sua parte. Ma questo vale non solo per la grande maggioranza dei serbi di Serbia e di Bosnia, ma per la grande maggioranza degli italiani, che, approvando o disapprovando Berlusconi, lo considerano comunque un esempio di successo, e quindi sotto sotto pensano più o meno coscientemente: “Perché no, se è vincente?”. Anche Karadzic è vincente, perché è stato chiaro dal primo giorno che il processo all’Aja non si farà mai.

La Bosnia tornerà mai più il “paradiso” multiculturale e di tolleranza che era una volta?
R - Non era un paradiso, ma era un esempio positivo da cui partire per consolidare le basi di una buona visione della vita, come c’era nell’antica Spagna per 700 anni, in Sicilia fino ai Normanni, come c’era in Libano prima degli anni Ottanta, come c’era in Iraq prima di Saddam. Come c’è nella Palestina del musicista Daniel Barenboim, del poeta Mahmud Darwish, di cui piangiamo la recente dolorosissima perdita di Mustapha Barghuti, di Edo Murtic, pittore e scultore di grande intensità. Egli ci ha lasciato prima di morire una serie di opere dedicate a Sarajevo ed esposte dentro lo scheletro imponente della biblioteca distrutta, che vive proprio perché masse di giovani di tutto il mondo la vengono a visitare, com’è successo quest’estate durante il Film Festival. Non chiediamoci se tutto ciò sia ancora recuperabile. Non è mai morto. E tante persone lo testimoniano in tutto il mondo. Sta a noi rapportarci a loro. Per me Sarajevo è tuttora questo.

venerdì 3 ottobre 2008

La cicogna che venne da Oriente


Luca Leone intervista Paolo Moretti, autore dell’ottimo La cicogna che sconfisse l’aviaria

È una cicogna che vola da Oriente a Occidente quella di cui racconta Paolo Moretti nel suo ottimo La cicogna che sconfisse l’aviaria (Infinito edizioni). Una cicogna che nel becco porta la piccola Mehala, con i suoi occhi carichi di luce e gioia di vivere, a due genitori italiani provati ma al contempo fortificati da un’attesa ben più lunga dei nove mesi biologici, un’attesa fatta sì, è vero, di scartoffie e dolore, ma anche carica di aspettative e sogni per una paternità (e una maternità) voluta con tutta la forza dell’amore.

Ed è proprio questo “La cicogna che sconfisse l’aviaria”, con prefazione di Marco Scarpati e postfazione di Stefano Zecchi: una meravigliosa storia d’amore, a lieto fine, con spunti, consigli e indicazioni fondamentali per chi voglia intraprendere l’irta ma non impossibile strada dell’adozione internazionale. Perché l’amore, alla fine, trionfa. Nonostante le difficoltà.

Abbiamo parlato di questa storia a lieto fine con Paolo Moretti, ottimo giornalista (La Provincia di Como), ormai esperto in adozioni internazionali e papà felice.

D. Paolo, l’idea che comunemente si ha della cicogna è un po’ diversa da quella che hai sperimentato tu. La tua è stata una cicogna venuta da Oriente, dopo qualche peripezia e una lunga attesa. Puoi raccontarci di questa cicogna e di quanto sia difficile l’adozione internazionale?
L’esperienza, la storia, l’abitudine ci racconta di cicogne che esauriscono il loro viaggio entro nove mesi al massimo. La nostra, come quella di tante altre decine di migliaia di famiglie, ci ha messo molto di più, ha affrontato un volo molto più turbolento, ma non per questo la planata è stata meno magica. Anzi. La nostra cicogna ci ha messo un anno e mezzo a sorvolare i cieli tra l’India e l’Italia. Tanto, mia moglie ed io, abbiamo atteso, con solo una fotografia da coccolare, di poter abbracciare nostra figlia. Sono tempi burocratici che non conoscono i ritmi e i bisogni del cuore. L’adozione internazionale, purtroppo, è anche questo. È lunghe attese. È incertezza. È paura di non farcela. Ma poi, alla fine, tutto quel fardello di ansie e dolore si è sciolto di fronte al sorriso pieno di vita di nostra figlia. E ciò che hai vissuto come un’ingiustizia, cambia luce all’improvviso: perché era nient’altro che la strada necessaria da percorrere per arrivare dove si sognava.

D. Che cosa occorre, a livello interiore, per essere pronti a fare il grande salto e aspirare a diventare genitori adottivi?
Fughiamo subito il campo da dubbi: i genitori adottivi non sono genitori di serie “B”, ma non sono neppure dei supereroi. Di sicuro esiste una consapevolezza, nel viaggio che accompagna l’adozione, che spesso manca quando si sta per diventare genitori biologici. E questo è normale perché fin da piccoli ci insegnano – è così quasi per tutti – che esiste un solo modo per diventare mamma o papà: procreare e partorire. La carenza di una cultura diffusa dell’adozione e dell’accoglienza fanno sì che, quando ci si trova a scegliere di imboccare quella via, si debba fare i conti con se stessi e con tutte quelle barriere psicologiche che decenni di cliché hanno inevitabilmente costruito. Io, personalmente, ho vissuto dapprima il trauma di scoprire di non poter avere figli biologici. Quindi il rifiuto di diventare padre. Poi la diffidenza nei confronti dell’adozione. Ma, passo dopo passo, ho affrontato i miei demoni. E quella che inizialmente ritenevo essere un’ingiustizia, ora la considero la mia più grande fortuna. Il grande salto, in ogni caso, mia moglie ed io lo abbiamo fatto quando abbiamo capito che procreare non vuol dire inseminare o partorire, quando abbiamo iniziato a realizzare che la pancia cresce nove mesi, il cuore tutta una vita. Ed è lì che si forma la vita. Che nascono i sentimenti. E che abbiamo trovato nostra figlia.

D. Credi che tutti coloro che scelgono, come pegno d’amore, l’adozione internazionale debbano confrontarsi con le difficoltà che hai raccontato o per alcuni, magari per certi “Vip”, le strade sono più brevi e sempre ben asfaltate?

Siamo portati a pensare che le difficoltà ci siano solo per impedirci di raggiungere un obiettivo, anziché viverle come un’occasione per crescere. Certo quando si è immersi, in quelle difficoltà, la possibilità di una scorciatoia appare come un miraggio. Fortunatamente in Italia, se non impossibile, è molto difficile poter contare su strade privilegiate. Ad alcuni sarà forse successo, ma gli ingranaggi italiani – di sicuro imperfetti – che regolano l’adozione internazionale rendono difficile poter trovare vie preferenziali. Non così, purtroppo, avviene all’estero. Le notizie sulle discutibili adozioni agevolate di vip quali Madonna non aiutano a far comprendere la realtà dell’adozione internazionale. Gli Usa, anche in questo campo, dettano legge in tutto il mondo. E accanto a meravigliosi esempi di adozioni difficili (molti bimbi con gravi problemi fisici trovano una mamma e un papà negli Stati Uniti) propongono una normativa e una consuetudine di rapporti con gli orfanotrofi che sembra privilegiare l’aspetto economico a quello del legittimo e inviolabile diritto di un bambino ad avere una famiglia.

D. Come descriveresti il tuo libro e perché è diverso dagli altri sull’argomento?
Lo descriverei come una chiacchierata tra amici con sottofondo musicale. Forse è diverso dagli altri perché non nasce per essere un libro. Piuttosto è una raccolta di emozioni, sensazioni, storie che volevo fissare su carta per non dimenticarle, certo, ma soprattutto per raccontarle a mia figlia quando sarà grande. Stefano Zecchi, nella sua postfazione, scrive che “sono i racconti, le storie sull’adozione che possono raggiungere il cuore dei problemi” e che “La cicogna che sconfisse l’aviaria” fa “pensare più con il cuore che con la testa”. Nel mio avvicinarmi in punta di piedi al mondo dell’adozione ho trovato molti libri tecnici sull’adozione, ma poche storie. Forse per questo il mio libro sembra diverso dagli altri.

D. Viviamo in un Paese sempre più alle prese con una grave crisi d’identità, d’etica e di rispetto per la diversità. Tua figlia ha la pelle scura. Che futuro credi avrà in un Paese che sembra sempre più assomigliare al Sudafrica dell’apartheid e in cui, pure, i bambini adottati nei Paesi più lontani sono ormai decine di migliaia?
I recenti fatti di cronaca, come l’omicidio di Abdul a Milano, mi hanno fornito non pochi pensieri al riguardo. Mi ha fatto sensazione sentire, dai telegiornali, titoli di questo tenore: “Ucciso un ragazzo nero, ma italiano”. Viviamo ancora in una società dov’è ancora indispensabile indossare un’etichetta d’origine controllata, per poter essere accettati e dove è necessario precisare che “era nero, certo. Ma non come tutti gli altri neri: lui era italiano”. Siamo un Paese in cui la diversità è ancora vissuta come una possibile fonte di problemi e paure piuttosto che come una ricchezza; dove anche nella morte c’è il bianco e il nero. Tutto questo, è chiaro, mi fa paura. Eppure sono un inguaribile romantico. I bambini amici di mia figlia, quando l’hanno incontrata la prima volta, all’inizio, curiosi, hanno comprensibilmente chiesto il perché di quella pelle colorata in modo diverso. Una volta che la spiegazione è stata loro fornita, con il sorriso sulle labbra, non hanno più visto davanti a loro una “bimba marroncina”, ma semplicemente una loro amica. Ho la speranza che ognuno di noi riscopra, in sé, quel saper essere così meravigliosamente bambini.

D. Sei tra i co-fondatori di un’associazione che porta lo stesso nome di tua figlia. Come e dove opera l’associazione e perché avete avvertito il bisogno di fondarne una?
In realtà l’Associazione Mehala, pur portando il nome di mia figlia, non è stata una mia idea. È nata dalla volontà di un gruppo di persone, che aveva incontrato casualmente Mehala in un viaggio in India, di realizzare progetti per poter davvero aiutare i piccoli orfani, quelli che io chiamo i bimbi “caduti dal nido”. La sede dell’Associazione è a Paderno d’Adda, in provincia di Lecco. Chiaramente ora ne faccio parte anch’io, perché tra gli obiettivi vi è anche quello di parlare di adozione e diffondere quella cultura dell’accoglienza di cui parlavo sopra e che ancora manca.

D. Un pensiero per chi, come te e tua moglie, si accinge ad avviare la procedura per l’adozione internazionale e una per chi, invece, l’ha già avviata e sta aspettando magari da un anno o due una risposta.
A chi sta pensando di addentrarsi nel mondo dell’adozione mi verrebbe da dire: buona strada ovunque questa vi porti e munitevi di scarpe buone e pazienti, non sempre sarà facile. A chi è in attesa dico quello che è stato detto a noi quando, dopo un anno, stavamo ancora coccolando una foto senza alcuna prospettiva di partenza: arrabbiatevi, piangete, maledite, ma non perdete mai la speranza e, soprattutto, siate sempre protagonisti del vostro tempo. Anche quando sembra sprecato: un giorno i vostri figli vi chiederanno cosa facevate nella loro attesa e voi avrete una sola possibilità, raccontargli la verità.

© Luca Leone/Infinito edizioni 2008 – Si consente l’uso di questo materiale citando la fonte.

mercoledì 10 settembre 2008

Intervista a Elisa Mussaeva sulla Cecenia e sul Caucaso


Foto di Felice Rogialli - Associazione Rondine Cittadella della Pace

L'articolo è stato recentemente pubblicato in questa versione dal quotidiano "Liberazione". L'intervista completa a Eliza Mussaeva sarà pubblicata sul libro di prossima uscita (ottobre 2008) dal titolo Uomini e belve. Storie dai Sud del mondo (Infinito edizioni, pagg. 176, € 13,00).

“Certe volte, le persone pagano con la vita il fatto di dire ad alta voce ciò che pensano”. Questa convinzione era pervicacemente radicata nella giornalista moscovita Anna Stepanovna Politkovskaja, una delle vittime più illustri sacrificate, il 7 ottobre 2006, sull’altare della “guerra domestica” in Cecenia della Russia di Vladimir Putin. Eliza Mussaeva fa parte di questa stessa categoria di persone, suo malgrado. Anche se, per fortuna, finora ha sempre pagato “solo” con lo sradicamento dalla sua terra, la Cecenia, con la perdita del posto di lavoro e con le umiliazioni il suo essere una donna libera figlia di una terra che conosce solo guerra, tirannia e abominio.
Eliza ha uno sguardo malinconico, infelice, anche quando sorride. Ha un mento forte, bei tratti della sua terra e occhi marroni penetranti ma assorti, sprofondati in incubi e pensieri che sanno di disperazione e morte. La signora Mussaeva gira – ora con la Federazione internazionale di Helsinki per i diritti umani, ora con Amnesty International, ora con altri sostenitori – l’Europa con la sua borsa piena di denunce, sangue e fantasmi, nella speranza che qualche governo le dia retta e che i grandi media internazionali tornino a parlare di Cecenia e di Caucaso, luoghi in cui prima Boris Eltsin poi Vladimir Putin hanno combattuto, tra il 1994 e il 2003, due guerre mostruose, terminate formalmente (ma in realtà mai concluse) con non meno di 100.000 morti, centinaia di migliaia di sfollati e un conflitto repentinamente trasferitosi dalla sola Cecenia all’intera regione caucasica. “In effetti – spiega la nostra interlocutrice facendosi cupa – la situazione in Cecenia in questi anni si è evoluta. La stessa Russia è mutata, così come lo sono le relazioni russo-cecene. Non possiamo pensare di mettere a confronto le guerre combattute in Cecenia. Per la sua natura intrinseca, la guerra non è mai umana. Ma, detto questo, la prima guerra cecena cominciata da Eltsin era senz’altro più ‘umana’ di quella condotta da Putin. Nella prima guerra cecena il concetto di ‘civili pacifici’ almeno era preso in considerazione; nella seconda, di questo principio è stata fatta carta straccia. Il secondo conflitto è stato di per sé più crudele, cinico e privo sia di principi sia di scrupoli”.
Viene da chiedersi il perché di tutto questo. La risposta è complicata perché almeno quattro fattori, oltre al petrolio su cui il Paese praticamente galleggia, hanno provocato lo scoppio del conflitto: l’affermarsi prima in territorio ceceno, poi nelle vicine Ingushetia, Dagestan e Ossezia, di potenti e ben armate (e appoggiate dall’estero) bande armate; la crescente influenza del fondamentalismo islamico nella regione; l'importanza strategica del Caucaso intero e dalla Cecenia in particolare per la Russia; il rilievo sia economico sia strutturale della regione non solo per il pompaggio ma anche per il passaggio dei grandi oleodotti e gasdotti che devono raggiungere l’Europa occidentale e far entrare denari sonanti nelle casse del Cremlino che gioca al riarmo, delle aziende russe e dei loro amici oligarchi. Un bel mucchio di ragioni, insomma. Valide ancora oggi, che “in Cecenia non è più in corso una guerra nel senso tradizionale del termine” precisa la Mussaeva allargando le braccia. “Il conflitto è stato represso, è vero. Ma il punto è che ormai i combattenti separatisti ceceni non rischiano più tanto solo le loro vite, ma anche e soprattutto quelle dei loro famigliari. In effetti, il modo ‘più efficace’ per combattere, dal 2004 a oggi, contro i separatisti ceceni è stato quello di prendere in ostaggio i loro cari”. E i corpi speciali ceceni, i cosiddetti “sgozzatori” inviati anche nella recente crisi georgiana a fare “il lavoro sporco”, sono bravissimi quando si tratta di prendersela con gli innocenti e farli a pezzi.
“La Russia sostiene di trovarsi coinvolta in combattimenti contro il terrorismo internazionale – continua Eliza dopo aver bevuto un sorso d’acqua – Tutta la lunga striscia di violenza di cui abbiamo parlato poco fa è giustificata da questo slogan: la lotta contro il terrorismo internazionale. In nome di questa lotta, inquirenti e tribunali coprono ogni violenza perpetrata, dai rapimenti alle torture fino agli omicidi. E così la lotta contro il terrorismo finisce per produrre a sua volta terrorismo. Negli ultimi anni, quelle di cui parlo sono diventate pratiche ben note, anche in seguito alla comparsa di prigioni illegali usate sia dal Servizio di Intelligence federale russo (Fsb) sia da altri centri di potere. Le organizzazioni non governative attive nella regione hanno raccolto moltissime informazioni sulle prigioni illegali del nord del Caucaso e le hanno messe a disposizione delle grandi organizzazioni internazionali: le persone vengono detenute in cantine o in buchi scavati nel terreno. Sebbene, tuttavia, le prigioni e i metodi di detenzione statunitensi a Guantanamo abbiano giustamente sollevato proteste, nessuno ricorda mai che situazioni simili o addirittura peggiori sono vissute dai detenuti nelle carceri illegali russe. È curioso che le persone siano così…selettive”.
Oggi che dalla capitale cecena Grozny le rovine sono state in parte portate via e sta cominciando uno sforzo di ricostruzione, la popolazione civile continua però a pagare un pesante tributo alla guerra combattuta, alla guerriglia in corso e alla violenza dei corpi d’armata russi. “Almeno 5.000 persone risultano scomparse senza aver lasciato traccia. Si tratta di persone rapite non da banditi che volevano chiedere un riscatto ma da rappresentanti del governo russo. Nessuno si sta preoccupando di cercarli. Nessuno ha o sta spiegando alle madri che fine abbiano fatto i loro figli né, naturalmente, i responsabili di queste scomparse sono stati individuati e puniti. Decine di migliaia di persone hanno subìto torture. Oggi stanno cominciando a uscire fuori sia le vittime sia i testimoni. Ma tutti non vogliono altro che dimenticare, rimuovere, spegnere i loro cervelli. In decine di migliaia sono costretti intanto a rientrare in Cecenia dalla vicina Ingushetia. Innanzitutto perché l’Ingushetia non è ormai più un luogo sicuro. E inoltre in quanto questi profughi sono stati semplicemente forzati a rientrare dall’azione congiunta compiuta a tal proposito dalle autorità inguscete, cecene e russe”.
Un altro mistero, oltre a quello degli scomparsi, è rappresentato dal presunto uso da parte dell’esercito russo di sostanze vietate nel corso dei due conflitti, e in particolare del secondo. “È difficile dare una risposta secca a questa domanda – spiega l’attivista con aria sconsolata – Questo perché non esistono prove certe in proposito. Ci sono testimonianze che descrivono tipici sintomi legati all’uso di armi chimiche o batteriologiche, ma non è mai stato possibile avere una prova documentale certa di eventuali attacchi con questi armamenti, tali da confermare le testimonianze. Posso fornire due esempi tratti da testimonianze disponibili. Il primo riguarda l’insediamento di Stariye Atagi dove, nell’agosto del 2000, sono state abbandonate molte magliette per uomo. Chiunque le abbia indossate, o anche semplicemente toccate, ha sofferto di strane malattie, all’apparenza paralisi del sistema respiratorio. Sono morte molte persone e, tra loro, anche una donna. Il secondo esempio viene dal grande avvelenamento di donne verificatosi nel distretto ceceno di Shelkovsky. Anche Anna Politkovskaya ne scrisse. Nell’inverno del 2005, circa 80 giovani donne sono state colpite da una strana forma di avvelenamento. I loro sintomi erano di asfissia, perdita di conoscenza e isteria. Fonti ufficiali dissero che le ragazze erano state colpite da ‘un disturbo psicologico di massa correlato alla guerra’: un’espressione molto appropriata, non c’è che dire. Purtroppo non conosciamo le vere cause di questa ‘strana malattia’, ma molto probabilmente si è trattato di avvelenamento chimico. In più, continuiamo ad avere il dubbio che le autorità siano più interessate a occultare questi casi che non a ’investigarli. Nell’estate del 2007 molti studenti sono stati ricoverai in ospedale nella vicina Ingushetia con sintomi simili. Nessuno ne conosce, ovviamente, le vere cause…”
Rimane da capire se i cattivi siano solo i russi… Eliza alza le mani, come a testimoniare che ben ardua è la sentenza, soprattutto per chi è così emotivamente coinvolto. “Quel che mi sento di dire è che nel 1994 il conflitto esplose come guerra per l’indipendenza della Cecenia. Ora il movimento si è trasformato. Oggi sono ancora attivi e armati gruppi clandestini nelle repubbliche nord caucasiche confinanti con la Cecenia. Ma al loro interno vi sono ormai molti islamici radicali. Gli attacchi terroristici contro obiettivi anche civili sono stati compiuti durante il periodo di comando di Shamil Basayev”, ovvero il barbuto responsabile del massacro della scuola “Numero Uno” di Beslan, dove il 3 settembre 2004 persero la vita 326 degli oltre 1.300 ostaggi di un commando di 32 guerriglieri ceceni. Basayev, una belva priva di scrupoli, è stato assassinato il 10 luglio 2006 dalle forze di sicurezza russe nel villaggio di Ekazhevo con altri cinque separatisti ceceni. “Possiamo solo ipotizzare legami tra Basayev e gli appartenenti all’opposizione separatista – prosegue la Mussaeva – ma non va dimenticato che Aslan Maskhadov (ex ufficiale dell’Armata rossa diventato nel 1992 capo di Stato maggiore ceceno e ispiratore del separatismo di Grozny, eletto nel 1997 presidente della Cecenia e divenuto dal 2004, un anno prima di essere ucciso dalle forze speciali russe, capo della guerriglia indipendentista, n.d.A.) condannò pubblicamente gli attacchi terroristici di Beslan ed era pronto a recarsi personalmente presso la scuola assediata per liberare i bambini, se solo i russi glielo avessero permesso. Maskhadov, inoltre, avrebbe voluto processare Basayev. Lo sappiamo da coloro che presero parte ai negoziati. Oggi molte persone vanno a combattere a causa di ingiustizie subìte, dell’uccisione di loro congiunti o in conseguenza delle torture o dei trattamenti degradanti loro inferti. Purtroppo, finché l’intero Caucaso del nord continuerà a essere interessato dalla tensione e dai conflitti, non ci potrà essere soluzione né alla crisi cecena né a tutte le altre”.

venerdì 29 agosto 2008

Processo Karadzic, seconda ridicola udienza

L’imputato non si dichiara né colpevole né innocente…


Il tribunale delle Nazioni Unite per l'ex Jugoslavia ha accolto oggi pomeriggio una dichiarazione di non colpevolezza a nome dell’ex leader serbo-bosniaco Radovan Karadzic, accusato di undici capi d’accusa, tra cui crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio, dopo il rifiuto da parte dell'imputato di dichiararsi colpevole o innocente. La notizia è riportata dall’agenzia Reuters.

Alla seconda udienza preliminare in vista del processo per crimini commessi durante la guerra in Bosnia del 1992-1995, Karadzic si è rifiutato di esprimersi in merito a ciascuno degli 11 capi di imputazione contro a suo carico. "Non mi dichiarerò in linea con la mia posizione nei confronti di questa corte", ha detto Karadzic in merito alla prima accusa, quella di genocidio, riferendosi alla sua sfida alla legittimità del tribunale. Iain Bonomy, il presidente della corte, gli ha chiesto se questa posizione si riferisse a tutti i capi d'accusa, ottenendo come risposta da Karadzic un fermo e risoluto: "Assolutamente sì". La corte ha quindi dedotto che l’intenzione di Karadzic è di dichiararsi non colpevole.

I capi di imputazione attribuiti a Karadzic, 63 anni, comprendono due capi d'accusa per genocidio, uno per l'assedio di Sarajevo, durato 43 mesi, e uno per il massacro di 8.000 bosniaci musulmani a Srebrenica. Il processo dovrebbe iniziare l'anno prossimo dopo le procedure preliminari, e se l'accusa decidesse di emendare gli 11 capi di imputazione potrebbero esserci altre fasi di udienza preliminare che rimanderebbero ulteriormente l'inizio del processo.

Esperti legali hanno rintracciato un parallelismo fra il comportamento di Karadzic e quello dell'ex presidente jugoslavo Slobodan Milosevic, dopo che quest'ultimo fu portato all'Aja nel 2001 per difendersi contro le accuse di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio.

“È evidente che Karadzic cercherà di rimandare l'inizio del processo e di utilizzare il tribunale come tribuna e megafono per rendere pubblico il suo punto di vista sul conflitto”, ha pronosticato Andre de Hoogh, professore di legge all'università di Groningen. Allo stesso tempo, i giudici delle Nazioni Unite cercheranno di velocizzare le operazioni per evitare che accada quello che è accaduto nel processo a Milosevic, durato quattro anni, con 300 testimoni, per poi concludersi con la morte dell'imputato nel 2006, a processo ancora aperto.

Personalmente credo che il Tribunale dell’Aja rischi di trasformarsi in uno squallido ‘Bagaglino’, se si continuerà di questo passo. L’obiettivo di Karadzic è arrivare senza sentenza al 2010, allorché il Tribunale dovrà chiudere i battenti. E allora si affiderà alle cure dei suoi amici russi in sede di Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

È giusto e sacrosanto essere garantisti, ma qui si sfiora davvero il ridicolo. Karadzic è uno dei peggiori criminali che abbia calcato il proscenio europeo dai tempi di Adolf Hitler e andrebbe messo un limite alla sua evidente e inevitabile tattica attendista e ostruzionistica. Il limite è quello della decenza, che comprende il rispetto verso le vittime di quest’uomo che ha preso disgustosamente in giro il mondo e verso i parenti delle sue vittime. Spero solo che non si arrivi al 2010 con la chiusura del Tpi e lo spostamento del processo in Bosnia, magari della Repubblica serba di Bosnia, dove gli ultranazionalisti già avranno preparato i fuochi d’artificio per la festa di santificazione del boia di Srebrenica, magari programmando qualche sacrificio umano di musulmani, tanto per non perdere l’abitudine.

Karadzic è un appassionato di calcio e sa che può fare goal solo in contropiede. Sinceramente, credo che la pratica-Karadzic potrebbe essere chiusa in sei mesi, senza fare del Tpi la mediocre e molle platea teatrale su cui far esibire questo mediocre attore, emulo del suo amico e alleato Milosevic, e al contempo far cadere ulteriore ridicolo su una giustizia internazionale inconsistente e passiva. Karadzic merita non uno ma 8.000 ergastoli, quanti sono stati gli innocenti che ha fatto ammazzare a Srebrenica dal suo compare Ratko Mladic e dal grande capo Milosevic, il grande orchestratore del genocidio balcanico. Speriamo che invece che con un sacrosanto ergastolo il processo non finisca con una scrittura a Broadway per qualche spettacolo da tutto esaurito… “Signore e signori, questa sera a grande richiesta Radovan Karadzic in How I did it. Come feci a massacrare un popolo, distruggere un Paese e a farla franca grazie a russi e americani…”.

Ancor più ridicola, se vogliamo, la questione del salvacondotto riconosciuto 13 anni fa dagli statunitensi a Karadzic, forse dal “grande” negoziatore Richard Hoolbrook in persona, purché il capo banda ultranazionalista si ritirasse dalla politica bosniaca. Probabile che l’accordo segreto esista. Mai mettere un fine al peggio. D’altronde, a differenza che per Mladic – onorato e stipendiato forse ancora oggi dall’esercito serbo – in Bosnia si è sempre parlato di un patto del genere a favore del furbo psichiatra-poeta Radovan, e non sempre la voce del popolo racconta leggende metropolitane. Katardic non è un coccodrillo bianco che gira nelle fogne di Pale, nonostante la somiglianza… Il punto però, se permettete, è un altro.

Il furbo Radovan può far leva quanto vuole su questo presunto accordo. Ma, sinceramente, lungi dal considerare valida e ineluttabile qualsiasi cosa firmino, dicano o facciano gli statunitensi (è ora che tutti la facciano finita di fare carta straccia del diritto, dell’etica e del buon senso), più che lasciare che Karadzic continui a invocare la validità di questo presunto salvacondotto, forse tutti dovremmo chiedere a gran voce che i responsabili politici di una simile (eventuale) porcheria vengano processati a fianco di Karadzic, e condannati per oltraggio a centinaia di migliaia di persone che hanno sofferto le pene d’inferno a causa del signor karadzic e degli imbecilli par suo, serbi, musulmani o cattolici che fossero. Perché gli imbecilli non hanno mai una sola nazionalità, o una sola religione, come bene la guerra di Bosnia ci ha insegnato… (o almeno ha fatto a chi ha voluto stare a guardare, ascoltare, imparare…).

lunedì 25 agosto 2008

Intervista sull'Iran

Luca Leone intervista Antonello Sacchetti, autore de I ragazzi di Teheran

(l'articolo è stato pubblicato sul numero di luglio del mensile "Popoli e missione")

“In Iran nulla è come appare”, ha detto qualche tempo fa una giornalista. Un concetto interessante, se vogliamo decisivo per comprendere un popolo, in un momento storico in cui quello con capitale Teheran viene considerato dal gendarme globale statunitense uno degli “Stati canaglia” e in cui l’immagine del Paese sui media occidentali è come minimo claustrofobica. “Popoli e missione” ne ha parlato con lo scrittore Antonello Sacchetti, eccellente conoscitore dell’Iran. Società e giovani ma anche libertà di culto e pluralismo religioso sono gli argomenti che abbiamo toccato, con esiti sorprendenti.

Sacchetti è sbarcato a Roma proveniente da Teheran da tre giorni quando nega risolutamente che quella trasmessa dai giornali italiani sia la vera immagine dell’Iran. “Claustrofobica? – fa perplesso – Sinceramente, tutto direi tranne questo della società iraniana. C’è, senza dubbio, grande insofferenza ai controlli e alle limitazioni imposte dal governo alla libertà personale. Ma la società iraniana è tradizionalmente votata all’apertura, alla curiosità verso le altre culture. Dai primi Anni ‘90 la tv satellitare e Internet hanno aperto finestre preziose e irrinunciabili sul resto del mondo. I blog iraniani sono tra i più interessanti di tutto il Web”.

Ciò nonostante – viene da pensare leggendo quanto i grandi media occidentali scrivono sull’Iran – la censura esiste e colpisce chiunque non sia allineato con le direttive del Capo dello Stato (che non è il presidente Mahmud Ahmadinejad ma la Guida della rivoluzione o faqih – dal 4 giugno 1989 Ali Hoseini Khamenei – designata dall’Assemblea degli esperti, gli ayatollah, eletta a suffragio universale diretto ogni 8 anni) e dal Consiglio dei guardiani della Costituzione, l’onnipotente organo composto da 12 membri che controlla la conformità delle leggi con l’Islam, ne verifica la costituzionalità e ammette i candidati alle elezioni. Secondo Sacchetti, però, è così solo in parte: “Non dobbiamo pensare all’Iran come a un Paese avvolto nelle tenebre – spiega – La censura funziona in modo intermittente e a volte non centra il bersaglio. Basta farsi un giro nelle librerie di Teheran per rendersi conto della vastità di titoli che il pubblico iraniano ha a disposizione. Capita che la censura arrivi a ordinare il blocco di un film che è nelle sale ormai da mesi o di un libro già venduto in migliaia di copie. La repressione politica è schizofrenica: in alcuni momenti il dibattito politico è accesissimo e si arriva persino a mettere in discussione il principio di base della Repubblica islamica, il velayat e-faqih, “governo del giureconsulto”, la teoria elaborata da Khomeini. Ricordiamo tutti le immagini degli studenti che contestano a viso aperto Ahmadinejad all’università di Teheran. Poi magari la repressione arriva in modo subdolo quando i riflettori si sono spenti, a distanza di mesi o di anni, con arresti, minacce, violenze. Nonostante questo, l’Iran e i suoi giovani continuano a stupire per il loro desiderio di vivere, di non arrendersi alla situazione vigente”. Un esempio – molto comune, purtroppo, a livello mondiale – di un popolo che soffre la distanza culturale di chi lo governa e l’incapacità, da parte di coloro che detengono le redini del potere, d’intercettare e soddisfare le esigenze più comuni, a cominciare dalla libertà.

Come vivono questa condizione coloro che, per definizione e per pulsioni proprie dell’età, più anelano all’emancipazione, ovvero i giovani (che costituiscono il 70% dei 69 milioni di iraniani!) e, in una società che le discrimina, le donne? “In Iran, per necessità ma anche per tradizione, esiste una netta distinzione tra vita pubblica e vita privata – spiega il nostro intervistato – Nelle case dei ceti medio-alti, comportamenti e abitudini sono assai simili a quelli dei giovani europei. Nel bene e nel male. Esiste una naturale ricerca del divertimento ma è oggi diffusissimo il ricorso alle droghe. È una vera piaga: su una popolazione di 70 milioni di abitanti, ci sono almeno 200.000 eroinomani. E il peggio sta accadendo ora con l’arrivo del crack. È una situazione spaventosa, i genitori dei ragazzi adolescenti sono terrorizzati. La condizione delle donne, nonostante un sistema giuridico che le discrimina, è assai complessa. Oggi sono donne il 65% degli studenti universitari e le ragazze sono la maggioranza anche tra i laureati. Certo, la carriera è comunque più difficile. Ma ci sono donne in quasi tutti gli ambiti lavorativi. Nelle campagne la situazione cambia. Il tessuto sociale è nettamente più arretrato e la condizione della donna è più difficile. Va precisato che l’accesso all’istruzione è una delle innegabili conquiste della Repubblica islamica. Soltanto dopo il 1979 in Iran è avvenuta la scolarizzazione di massa di uomini e donne. Il dato comune a tutti è la grande difficoltà a trovare lavoro, a costruire un futuro. Da anni si registra una disoccupazione intellettuale di massa. E l’inflazione è cresciuta a livelli incredibili. Una situazione molto brutta, insomma, resa peggiore dalle continue tensioni con la comunità internazionale. Chi può, va all’estero. L’emigrazione iraniana è un’emigrazione intellettuale e di alto livello. Partono i laureati, chi può contare su un’iniziale base economica e su contatti all’estero. Negli Stati Uniti, la comunità iraniana è la più colta, quella col grado medio di istruzione più elevato”.

Difficile pensare che, in un Paese definito semplicisticamente musulmano – in alcuni casi persino, erroneamente, “arabo” – dal un stampa occidentale poco informata, possa essere riconosciuta la libertà di culto. Invece talvolta si scopre che l’“altro” non è poi così chiuso e duro – o addirittura malvagio – come certi poteri forti vorrebbero far credere. “La libertà di culto è garantita dalla Costituzione, che riconosce come minoranze religiose gli zoroastriani, gli ebrei e i cristiani, i quali costituiscono circa il 2% della popolazione iraniana – chiarisce Sacchetti – Queste comunità hanno anche un loro rappresentante nel Majles, il Parlamento iraniano. Per assurdo, la comunità non riconosciuta è quella musulmana sunnita. È severamente proibito il proselitismo, ma la libertà di culto è reale. L’unica minoranza non tollerata è quella dei baha’i. La costituzione iraniana li considera un gruppo politico, non religioso, e per questo la repressione è stata anche molto dura”. Difficile definire i baha’i, presenti tra l’altro con una comunità anche in Italia. La cosiddetta “fede Baha’i” è – a detta dei suoi aderenti – una religione monoteista, in verità piuttosto giovane poiché nata a metà del XIX secolo. I baha’i, come sono chiamati gli aderenti alla fede in questione (circa 7 milioni nel mondo), si rifanno ai precetti del sedicente mistico persiano Baha’u’llah (1817-1892) e hanno come simbolo una stella a nove punte.

Un altro dato è interessante: “In Iran l’89% della popolazione è musulmano sciita; i sunniti sono il 9%, i cristiani sono circa 200.000, gli ebrei 30.000 e i zoroastriani 50.000. Una cosa va sottolineata, a dispetto delle tensioni con Israele: in Iran vive la più grande comunità ebraica del Medio Oriente (dopo Israele, ovviamente) e la seconda in Paesi musulmani, dopo l’Uzbekistan. È una presenza antichissima, che risale ai tempi di Ciro il grande. La grandezza della cultura iraniana è data proprio da questo insieme di religioni e di storie diverse. In Iran la religione (non solo l’Islam) è un elemento centrale e la Persia è una terra centrale nella storia delle religioni. Basti pensare al contributo della predicazione di Zarathustra nello sviluppo delle tre grandi religioni monoteiste”.

Tra i cristiani, esiste anche una piccola ma convinta minoranza cattolica. “Si tratta di poco più di 13.000 persone – precisa lo scrittore, che sta lavorando a un nuovo libro il cui cuore parlerà proprio delle religioni iraniane e la cui uscita è prevista per il prossimo autunno – Nella sola Teheran ci sono almeno 4 chiese con rito cattolico. La maggior parte dei cristiani iraniani, tuttavia, sono di rito armeno ortodosso. Ho incontrato nella capitale sacerdoti locali, ma anche e soprattutto italiani. Ci sono diversi progetti culturali religiosi in corso tra Italia, Vaticano e Iran. A Esfahan, ad esempio, grazie alla collaborazione tra il Vaticano, l’associazione culturale Anastasis e il ministero dei Beni culturali iraniano, si sta realizzando il restauro di una splendida chiesa armena”.

Una società così intrisa di elementi religiosi, tuttavia, sta vivendo in questi ultimi anni una grave crisi di rigetto. È, questa, secondo Sacchetti, una delle conseguenze dell’islamizzazione della società. “Questo però non vuol dire che i non praticanti non siano credenti. Piuttosto, cercano una religiosità più intima. È forte il richiamo del sufismo e del misticismo. In generale, direi che esiste un legame storico tra sciismo iraniano e cattolicesimo romano. Un legame fatto anche di riti molto simili. La passione di Cristo e quella di Hossein, la nostra via Crucis e la loro Ashura. In genere, direi che esistono una grande attenzione e un forte rispetto per il cristianesimo e per il cattolicesimo in particolare”.

L’Iran è, dunque, a parte i suoi governanti e il loro pericoloso e dannoso radicalismo politico, un Paese di grande cultura e profondità, un luogo che non merita la nomea negativa e le tetre immagini con cui è normalmente descritto. “L’Iran è un paese sorprendente per chi è disposto a vederlo senza pregiudizi. Il sistema politico e l’attuale governo sono “radicali”, ma la società non lo è affatto. Per gli iraniani la rivoluzione – che, per quanto paradossale possa sembrare, ha avuto una sua funzione nella crescita e nella modernizzazione del Paese – è finita. L’errore gravissimo dei media occidentali è giudicare il Paese in base ai suoi governanti e al suo attuale presidente. Ma l’Iran è una realtà molto più complessa e infinitamente più bella. Se lo visiterete, tornerete liberi da molti pregiudizi”.