giovedì 20 marzo 2008

Kosovo, una “sfumatura” diversa


di Luca Leone

Tutti stiamo seguendo, con preoccupazione crescente, gli avvenimenti del Kosovo, precipitati dopo la proclamazione unilaterale d’indipendenza di Pristina di domenica 17 febbraio 2008. Le cronache degli ultimi giorni hanno messo in evidenza le violenze organizzate di cui si sono macchiati gruppi da stadio in Serbia, ultras della Stella Rossa e del Partizan di Belgrado. Guarda caso, anche nel 1992-1995 la soldataglia paramilitare dela “Tigre” Arkan, armata dal regime di Slobodan Milosevic e mandata a fare il “lavoro sporco” (stupri etnici, torture, assassini di massa, etc…) sia in Croazia sia, soprattutto, in Bosnia, proveniva dalle curve delle tifoserie belgradesi. I giornali e le agenzie di stampa stanno tuttavia “coprendo” la vicenda ed è inutile, in questo momento, tornarvi.

Il Kosovo, come tutti abbiamo intuito, può rappresentare un pericoloso precedente. Inutile pensare a Spagna, Belgio, Ossezia… Fermiamoci ai Balcani, alla vicina Bosnia Erzegovina.

Nonostante le notizie da Belgrado abbondino, nessuno, tuttavia, è stato a Banja Luka, nella Repubblica Serba di Bosnia (Rs), l’Entità del traballante Stato bosniaco in cui più spesso vengono rinvenute – tra aprile e novembre di ogni anno – fosse comuni, ancora 13 anni dopo la fine della guerra. Anche qui si sono susseguite proteste nazionaliste, con l’obiettivo di ottenere, prima o poi, dapprima l’indipendenza della Rs, poi l’agognata unificazione alla “madrepatria” Serbia.

Chiunque conosca la Bosnia sa che il pericolo è reale e che i politici di ogni schieramento – abilissimi nel trasformismo, nel cambiare casacca e nel cavalcare l’ondata nazionalista di ogni colore a loro fine – sono del tutto indifferenti alle sorti dei loro concittadini ed esclusivamente attenti alla divisione delle poltrone. Come dire: tutto il mondo è Paese…

Ironia della “sorte”, esattamente un anno fa, nel marzo 2007, la realpolitik dell’Unone europea (Ue) e la politica della “coperta corta”, hanno indotto il Comitato politico e di sicurezza della Ue (Cops) a ridurre la Forza militare dell’Unione europea in Bosnia (Eufor) da 6.500 a 2.500 soldati. La Bosnia, secondo il Cops, ormai è un Paese pacificato. In realtà, tutti sanno che non è così, e che rischi, soprattutto nel nord-est, ancora sussistono. Lo sanno in particolare le banche, che non concedono quasi più prestiti ai bosniaci per aprire attività o pagare i debiti; lo sanno persino le poste italiane che, non più di quattro o cinque mesi fa, per spedire un pacchetto di dieci libri a Sarajevo mi hanno chiesto 70 euro, “perché la Bosnia è considerata un Paese a rischio”. Ma allora: è a rischio o no?

Mantenere 4.000 uomini in Bosnia – Paese pure continuamente accusato (spesso in modo strumentale e dispregiativo) di essere diventato una sorta di centro d’addestramento del terrorismo islamico in Europa – in tempi di grave impegno bellico in Afghanistan e Iraq, e con il Kosovo che minaccia nuove scintille, evidentemente non è considerato utile dagli Stati europei, che pure dovrebbero ricordare quanti gravi e irreparabili errori abbiano commesso negli Anni ’90, proprio in Bosnia. I soldi sono finiti, dunque: lasciamo la Bosnia “pacificata” e spostiamo i soldati altrove. Un anno dopo, febbraio 2008, ecco il Kosovo. E ancora una volta la Ue – priva di unità interna, di coscienza e di una politica estera comune – si accoda agli interesse statunitensi nei Balcani e si toglie il cappello per riempirlo delle briciole lasciate da Washington: agli Usa il controllo strategico e militare dei Balcani, alla Ue quello economico, con Slovenia, Germania e Austria in primissima fila.

Non tutti sanno, però, che in Bosnia Erzegovina, e in particolare nel nord del Paese, dunque al confine tra la Federazione di Bosnia Erzegovina (a maggioranza cattolica e musulmana) e la Rs (a maggioranza ortodossa), e poi nella stessa Rs, e soprattutto nella zona di Srebrenica, vivono centinaia e centinaia di bambini “italiani”. Ma anche “austriaci”, “francesi”, “tedeschi”… A Bruxelles hanno pensato alla loro sicurezza, nel caso in cui la crisi kosovara, come è più che possibile, si espanda alla Bosnia?

Pensate che solo tra Tuzla e Srebrenica, nel nord-est della Bosnia Erzegovina, circa 1.000 bambini sono stati dati in affido a distanza a “genitori” italiani. Questa vera e propria missione umanitaria è svolta dall’associazione locale Tuzlanska Amica in collaborazione con i volontari italiani di Macondo Tre (La Spezia) e Adottando (Bologna). Ma è solo uno dei tanti esempi che si potrebbero fare. Questi “genitori” sono persone che non si limitano a mandare soldi in Bosnia ogni mese ma che, nella maggioranza dei casi, hanno stretto un rapporto di vero affetto genitori-figlio con i bambini e, appena possono, mollano tutto e vanno il Bosnia dai “loro” bimbi. Il politico che volesse controllare, non farebbe fatica a notare che in occasione di ogni ponte e festività comandata centinaia di automobili partono da diverse città italiane per raggiungere la Bosnia e portare aiuto e conforto ai nostri “figli” lì. Inclusa la mia bambina in affido a distanza, che vive in un villaggio sul confine con la Serbia già abbondantemente bombardato durante la guerra del 1992-1995.

In tutta la Bosnia sono migliaia i bambini in affido a distanza a famiglie di Paesi della Ue. Perché i politici e i politicanti europei non hanno pensato a questi bambini e ai loro “genitori” prima di mettere così goffamente mano – come sempre, quando si tratta di Balcani – alla questione Kosovara? Perché nessuno ha pensato che quei 4.000 uomini della Eufor in meno, in questo momento, possono fare la differenza tra una guerra e una pace traballante? Da cittadino spero solo che i politici italiani, quelli europei, quelli statunitensi – che tengono in mano i fili della crisi kosovara e balcanica – sappiano che cosa stanno facendo. Le esperienze balcaniche degli ultimi 18 anni ci hanno parlato di stupri etnici, di bambini nelle fosse comuni, di 1.200.000 bosniaci che oggi formano la diaspora in circa 140 Paesi del mondo, strappati dalle loro radici. Indipendentemente da ciò che ognuno di noi pensi del Kosovo e della sua indipendenza, perché i nostri politici continuano a giocare con le vite e i sentimenti di così tante persone, del tutto allo scuro di ciò che accade nella vita reale, al di fuori dei loro palazzi del potere?

Se devo fidarmi della classe politica europea, mi viene da pensare che già sia stato predisposto un piano d’azione per salvare i civili kosovari e bosniaci, inclusi i “nostri” bambini, in caso di guerra. Ma c’è enorme distanza, non solo in Italia, tra classe politica e società civile e, pensando al passato recente, la fiducia si dissolve e rimane il fantasma di almeno 100.000 morti e di tre anni e mezzo di guerra in Bosnia Erzegovina. E restano i nostri politici, costantemente succubi di qualcosa più grande di loro (l’arroganza? L’ignoranza? Il potere? L’ambizione?) e ignari di cosa accade nel mondo reale. Ignari di Vilmo Ferri che per quasi 200 volte dal 1992 a oggi ha fatto il viaggio da Bologna a Tuzla per portare aiuti alle persone che ancora vivono (alcune migliaia) nei campi profughi. Ignari della lezione filosofica e umani di Alex langer. Ignari degli sforzi di Adottando, Macondo Tre, della Fondazione Langer e di tutte quelle realtà che sinceramente lavorano per un futuro migliore in Bosnia. Ignari dei sentimenti più intimi e profondi di tutti quegli italiani che, appena possono, mollano tutto e raggiungono i “loro” adorati bambini nella Bosnia che ancora soffre, dilaniata da un dopo guerra che non finisce più e che forse nessun potente vuole che finisca. Politici europei, rispondete per favore solo a questa domanda: chi penserà ai “nostri” bimbi in Bosnia e a tutti gli altri, in caso di guerra?

Luca Leone

Giornalista professionista, saggista, co-fondatore e direttore editoriale della casa editrice Infinito edizioni.