mercoledì 19 gennaio 2011

Un calendario per Rebibbia, una sfida educativa, una speranza per i bambini che nascono in carcere: intervista a Maria Falcone


Maria Falcone, insegnante coraggiosa e preparata, è l’artefice prima se non assoluta del calendario edito per il 2011 da Infinito edizioni con il titolo SCHEGGE DI VITA A REBIBBIA RECLUSIONE. Maria ha voluto con forza e determinazione questo prezioso progetto educativo e pedagogico, sfidando la burocrazia e i pregiudizi e ottenendo risultati preziosi. Di questo calendario – le cui foto ho avuto l’onore di poter scattare in una caldissima giornata d’agosto e i cui proventi, tolte le spese di realizzazione, sono devoluti all’associazione “A Roma insieme”, che si occupa dei bambini del nido Rebibbia-Femminile – e del suo significato parliamo con Maria in una breve intervista che riportiamo qui di seguito.

Da che cosa nasce l’idea di realizzare un calendario dei detenuti di Rebibbia?
L’idea nasce da un sistematico impegno nei confronti di tutte quelle iniziative che possano creare nuovi spazi di espressione finalizzati alla riabilitazione del detenuto. Le persone che vivono la detenzione devono essere messe nella condizione di attivare risorse e di sviluppare nuove competenze, poiché là dove si supera la soglia del limite tollerabile non c’è apprendimento. Il calendario si inserisce in una dialettica costruttiva perché nello scorrere delle pagine si impone con forza il potere della parola, dei volti, degli sguardi, dei simboli, dei corpi e del contesto, ma soprattutto emerge un interesse verso chi, in modo diverso, vive la stessa condizione di detenzione: i bambini, fino a tre anni, insieme alle loro madri colpevoli di reato.

Puoi descriverci la tipologia di detenuti che hanno accettato di prestarsi alla realizzazione del calendario? Parliamo di detenuti condannati a lunghe pene carcerarie?
Gli scatti fotografici riprendono i detenuti della Sezione “comune” e comprendono reati che vanno dalle rapine, allo spaccio ai furti fino agli omicidi. Gli scatti includono anche gli ergastolani, i fine pena mai.
Ora, il detenuto reo per aver commesso un crimine si trova in prigione per espiare una pena che, nell’ordinamento penitenziario del 1975, assume un carattere punitivo da una parte – la reclusione, ovvero un allontanamento dalla società per coloro che “provocano disordine” – dall’altra parte la pena assume un carattere ri-educativo/preventivo, nel senso di predisporre un investimento adeguato sulla prevenzione del crimine attraverso progetti finalizzati a strutturare nuove coscienze, quindi un maggiore avvicinamento alla legalità come forma di benessere individuale e collettivo.

Qual è il significato di questo progetto e quali le finalità pedagogiche?
Il calendario con le fotografie dei detenuti supera un vincolo fondamentale: trasforma la chiusura in apertura, trasforma l’assenza in presenza. Una presenza espressa attraverso il proprio modo di essere e di rappresentarsi al mondo. Un siffatto progetto potrebbe essere la dimostrazione di come la formazione permanente (in età adulta) e in situazioni particolari, si può riattivare con risultati talora inaspettati. Per questo motivo gli scatti fotografici ritraggono percorsi educativi essenziali come la scuola, le attività creative, il lavoro: presupposti indispensabili non solo per la riabilitazione ma anche per la tutela dei diritti nei confronti di tutti.
I diritti non possono prescindere da un dovere fondamentale che si esplica attraverso un impegno personale finalizzato all’elaborazione del reato – ovvero alla rottura di schemi preesistenti che hanno “provocato disordine” – e alla relativa produzione di nuovi percorsi.
In questo passaggio risultano fondamentali: la consapevolezza delle proprie azioni, la riflessione sul proprio vissuto, il riconoscimento del sé, la vicinanza agli altri, la capacità di prevenzione, tutte finalità educative pregnanti per lo scopo riabilitativo del reo.

Il “mondo esterno”, quello che spesso ignora la realtà del carcere, come ha accolto il calendario?
Il mondo esterno ha avuto reazioni diametralmente opposte: da una parte ha apprezzato il lavoro poiché dà molti spunti di riflessione su un mondo “sommerso” e promuove un dibattito sulla situazione attuale dei detenuti, che attualmente in Italia sono poco meno di 70.000, a fronte di una capienza regolamentare di circa 43.000 posti; dall’altra parte, la società “civile” ha opposto un netto rifiuto, nel senso di non volerne nemmeno sentir parlare.

Puoi raccontare il lavoro degli operatori in carcere, quali le difficoltà, quali le sfide?
Il lavoro in carcere è molto complesso; per definirlo, e capirlo in parte, bisogna viverlo.
Si ha a che fare con detenuti che sono peculiari nella loro specificità, proprio perché hanno oltrepassato un limite. Al loro interno sono ulteriormente suddivisi in coloro che soffrono di disadattamento sociale o/e di dipendenze varie. La complessità quotidiana sta proprio nel fatto di riuscire a creare una rete tra i vari operatori penitenziari e i detenuti.
Per questo è indispensabile un esercizio costante sul lavoro di rete che porta a risultati migliori, anziché singoli percorsi operativi: là dove si crea collaborazione c’è evoluzione.

Qual è la sfida educativa da vincere assoloutamente?
Quello che maggiormente mi colpisce è l’eccessivo numero dei detenuti che affollano le carceri. Come cittadina dello Stato italiano mi chiedo: perché?
Una delle risposte che riesco a darmi è che l’uomo si sta sempre di più “snaturando”, ovvero si sta alienando dalla sua vera natura che è l’amore verso se stesso, quindi la conservazione di se stesso. Quotidianamente i telegiornali ci informano su tragedie familiari; le famiglie vivono serie difficoltà ad affrontare le relazioni tra partner, con i figli e con la società. La droga, l’alcol, il malessere, le chat sono, in molti casi, la risposta al disagio.
Interrogarsi sul perché accadono i crimini è prioritario, istituire forme di prevenzione è necessario, senza la pretesa di voler avere la bacchetta magica che risolva i mali del mondo, ma con la “pretesa” di voler dare un contributo serio alla società. Questa dovrebbe essere la sfida educativa dei nostri tempi.

Futuri progetti?
In linea con le finalità educative/preventive previste dall’ordinamento penitenziario, in collaborazione con la Casa di Reclusione Rebibbia e i detenuti e con la disponibilità di Infinito edizioni, realizzeremo un testo: il fotoracconto. I detenuti si racconteranno attraverso le immagini (disegni e foto). Il tutto verrà poi “analizzato” nel gruppo pedagogico che segue una metodologia specifica, finalizzata alla comprensione delle dinamiche educative che nella vita hanno segnato dei punti di svolta. Inoltre, con una collega che lavora con i ragazzi/e nel reparto di neuropsichiatria del Policlinico Umberto I e con la collaborazione della scuola di via Tiburtina Antica, 25 e della Direzione della Casa di Reclusione Rebibbia, realizzeremo il primo concorso di poesie tra detenuti e ragazzi/e ospedalizzati. E poi vedremo che cosa ci riserverà il futuro.