Il rosso infuocato del tramonto ricordava all’orologio impazzito
della mia pancia che era ora di cominciare a brontolare. Nuvole giganti,
grondanti densa luce sanguigna, si sovrapponevano al disco del sole in
picchiata dietro il mare. Ne nasceva, negli anfratti più reconditi dell’anima,
schiaffeggiata dalle turbolenze degli esami di coscienza indotti dal lungo
viaggio aereo, un effetto quasi tangibile di smaterializzazione.
Improvvisamente, come la mano piena d’amore sul capo del bimbo scosso dal
disagio di sogni incomprensibili, un mantello di pace sembrò scivolare
dolcemente sull’animo sovrastato dall’eccezionalità di quella manifestazione
altissima della natura. Elemento estraneo agli istinti di un europeo, quel
cielo grondante forza rubava, dopo attimi di smarrimento, ogni vigore
all’ansia, facendo calare istanti infiniti di pace nel corpo, quasi disciolto
in quella luce portentosa. Poi, al ritorno nella mia materialità, ecco lo
spettacolo del cielo, del mare, degli occhi, dell’anima, persino del cemento
austero e squadrato del resort nel quale riposava la tela ormai lurida
delle valige: la certezza esteriore che tutto era inondato di una luce
inspiegabile, emozionante, unica, dopo il bagno catartico di stupore interiore.
E il cuore palpitava, al pensiero del domani, del viaggio verso quell’ignoto
che l’uomo borioso al comando del nostro gruppo non voleva disvelare.
Oggi mi chiedo, con pacata ma quasi
disattenta curiosità, se quell’uomo intuisse almeno a che cosa stessimo andando
incontro. Eppure, non c’è più posto per l’astio, ora, in me. È la sorpresa la
sensazione che, alternandosi con la paura, maggiormente pervade le mie viscere,
rivoltando tutti gli organi interni ogni volta per una nuova impensabile
manifestazione. Ma non devo perdere tempo in dettagli inutili. Non devo
lasciare che sia l’anima a guidare la mano. È il cervello che deve comandare.
Il cervello. Ecco, mi darò dei tempi. Nelle prossime pagine racconterò del
nostro arrivo fin qui. Poi passerò al resto. E, se tutto dovesse andare per il
meglio, potrò finalmente tenere un vero diario delle nostre incredibili
esperienze in questo luogo, che nonostante tutto, io e Paolo abbiamo battezzato
Eden.
Era un’alba livida di pioggia tropicale
quella che ci vide fare colazione al piano terra del lussuoso resort che
ci aveva ospitati durante le due notti che avevamo trascorso a Kota Kinabalu,
città in cui eravamo giunti in aereo dopo aver lasciato Kuala Lumpur.
All’uscita dalla stanza – una reggia faraonica di quaranta metri quadrati con
un bagno hollywoodiano – i 30 gradi umidi del mattino mi avevano colpito come
un pugno alla gola, facendomi rimpiangere la notte passata sotto le coperte
cullato dalla frescura diffusa dalla macchina infernale che dall’alto irrorava
allegria artificiale e sinusiti. Già ben prima delle sette del mattino del 20
marzo, come aveva previsto Molinari, i bagagli erano stati caricati sul minibus
che ci avrebbe portati, unici passeggeri, attraverso Ranau e Telupid, in un
punto imprecisato del monte Trus Madi, con i suoi 2.640 metri la vetta più alta
dalle parti del Crocker Range National Park.
Il viaggio che ci dovemmo sobbarcare durò
molte ore, alcune delle quali passate dormendo scomodamente rannicchiati sui
sedili di ruvida tela blu. Se avessimo toccato terra sulla pista più orientale
di Sandakan, anziché a Kota Kinabalu, forse avremmo potuto risparmiare del
tempo e, soprattutto, gli strapazzi di un lungo viaggio in autobus cominciato
con la sveglia puntata su ore decisamente antelucane per gente che doveva
fingere d’essere in vacanza. Ma, asseriva il professore, in un aeroporto
periferico come quello di Sandakan avremmo rischiato di dare troppo
nell’occhio: non sembravamo, realmente, una comitiva di turisti. Almeno non ai
suoi occhi. Certamente, non lui. Meglio Kota Kinabalu, allora, per quanto fosse
quasi paragonabile, per traffico e grandezza, non più che all’aeroporto di una
media città italiana.
Giunti nei pressi di Tumbunan, un’orrenda
città commerciale in irrefrenabile espansione che nulla ha a che vedere con
l’idea che uno ha dell’Asia, lasciammo la statale e prendemmo una strada
secondaria, che costrinse l’autobus a cominciare la salita verso il Trus Madi,
la seconda montagna più alta del Sabah dopo l’affascinante monte Kota Kinabalu.
Già dalla statale era possibile scorgere – e in alcuni casi vi transitammo
praticamente in mezzo – gli effetti del passaggio dei denti rozzi delle
scavatrici sulla carne preistorica della foresta pluviale. Là dove fino a poco
tempo prima le gigantesche dipterocarpacee formavano un inestricabile groviglio
di spessi rami nervosi, sorretti da fusti impressionanti per circonferenza,
quello che era stato il palcoscenico fantastico per i gorgheggi dei buceri,
delle putta e dei beccolargo e per le capriole dei piccoli degli orangutan e
delle nasica, ora appariva ridotto a una desolata landa macchiata dal rosso
impregnato d’acqua dell’inconfondibile terra malese. Le ruspe avevano già da
tempo messo in fuga il leopardo nebuloso, gli scoiattoli, il pagolino, le
civette zibetto. Ora, laddove non erano i piedi sporchi di desolazione dei
palazzi, dei capannoni industriali e dei centri commerciali a insozzare il
ricordo delle meraviglie scomparse, sorgevano estese piantagioni di frutta
tropicale, come quelle che si possono scorgere dalla strada arrampicandosi
verso il monte Kota Kinabalu.
Finalmente, dopo chilometri di terra dilavata
e stremata dalle ricorrenti piogge, tornammo a immergerci nella fitta foresta
che conduce fino al Trus Madi.
Nei pressi di un tozzo edificio in stile regime,
a un numero imprecisato di chilometri dalla base della montagna, il nostro
minibus s’infilò agilmente tra le due alte siepi che nascondevano i pochi metri
quadrati di grigio asfalto di una piccola area di sosta. Quello capimmo essere
il nostro punto d’arrivo. Seguendo la punta del pizzo bianco di Molinari,
compresi che il suo sguardo aveva già catturato le figure che si aspettava di
trovare. Scese dal mezzo quasi correndo, lasciando la moglie ancora assopita su
un sedile. Due uomini allungarono il passo e gli si fecero incontro nell’aria
che, finalmente, era diventata fresca e accogliente, grazie ai metri in
altitudine guadagnati nel corso della nostra marcia a tappe forzate. Molinari
strinse le mani, poi lungamente abbracciò i due uomini. Uno pareva un
anglosassone sulla sessantina, vestito alla foggia di John Huston al safari.
L’altro era un asiatico sui 55 anni, ingessato in un abito blu da
amministratore delegato. Ripensando a quanto avevo sentito circa due settimane
prima nello studio di Bentivoglio, capii facilmente che si trattasse dei
colleghi australiano e malese di cui il professore aveva parlato, accennandoci
alle sue fonti.
«Un bel pezzo di impero
del male… – bisbigliò Borelli con una smorfia del viso stanco, prima di
profondersi in uno sbadiglio colossale – Immagino che daresti un braccio per
sentire quello che quei tre ceffi stanno dicendosi» aggiunse una volta
ricompostosi.
«Un braccio non lo darei per nulla al mondo.
E poi, che vuoi che si stiano dicendo in mezzo alla strada?».
«Che so? Cose tipo: sapessi che bel teschio
ho scavato ieri…! Ah no, allora non hai visto quello che ho trovato io…».
Risi. «Stai tranquillo che quei tre non
tarderanno ad appartarsi per scambiarsi impressioni, piani e informazioni.
Piuttosto, non mi spiego la presenza di quegli altri due brutti personaggi
laggiù», feci indicando due asiatici vestiti di scuro, appoggiati con la
schiena al muro grigio della tozza costruzione.
«Sono quasi pronto a scommettere che sotto
quelle giacche nascondono due belle pistole», fece Paolo, guardandomi.
«Mi sa che vinceresti la scommessa…».
«Questa storia puzza
sempre più di marcio, mio caro giornalista d’assalto…».
«Io non ci vedo niente di strano. O sono
poliziotti, oppure sono due gorilla. Nel primo caso, comincia a immaginarti con
indosso una divisa a strisce orizzontali bianche e nere. Nel secondo, mi pare
evidente che ci trascineremo dietro quei due angeli custodi – ammesso che siano
solo due – per tutto il viaggio».
Quel che restava del piovoso pomeriggio non
bastò per smaltire la stanchezza. Borelli continuava ad avvertire fastidi alle
gambe, nonostante si fossero ormai del tutto sgonfiate. Io mi sentivo come
spezzato in due, con la zona lombare e i due nervi sciatici impegnati senza
sosta nel protestare le loro ragioni al resto della mia provata carcassa di
cittadino post-industriale. Passammo le ultime due ore di luce di una giornata
plumbea a passeggiare nella natura rigogliosa che circondava quella specie di
casamatta nella quale avremmo trascorso l’ultima notte nella cosiddetta
civiltà, prima di avventurarci alla ricerca di ossa fossili nel bel mezzo della
foresta pluviale. Sulle nostre teste la sinfonia formidabile dei becchi di
incredibili creature policrome ci rendeva partecipi di segreti alati che non
avremmo mai saputo ripetere a nessuno. Che linguaggio incredibile, e quale
meraviglia per le orecchie! Di tanto in tanto, la caduta improvvisa di semi di
frutti selvatici c’invitava ad alzare gli occhi verso il tetto di fronde che ci
sovrastava, permettendoci di avvistare qualche coda di scoiattolo sgusciare via
sui tronchi bagnati e viscidi. A un certo punto ci ritrovammo quasi faccia a
faccia con un tapiro lungo non meno di un metro e mezzo: ci guardò, con quel
suo muso buffo metà ippopotamo e mezzo cinghiale, e si voltò poi allontanandosi
con studiata lentezza, ben lungi dal pensare di sprecare tempo e fatiche nel
caricarci. Poi, con nostra massima sorpresa, mentre assistevamo alle evoluzioni
di uno scoiattolo meno timido degli altri, impegnato nel percorrere in un senso
e nell’altro un lungo ramo quasi orizzontale, a non più di cinque metri
d’altezza da terra, ecco d’un tratto una figura rapida e inizialmente
indistinguibile guizzare da un albero vicino e avviluppare l’animaletto con uno
scatto fulmineo. Così, scoprimmo, attaccano i serpenti volanti. Era un rettile
lungo almeno un paio di metri, di colore verde maculato di nero, che prima
schiantò con le sue spire il corpo dello scoiattolo, poi ne divorò il cadavere
con un sol boccone. Mai più, mi dissi, nella vita avrei assistito a un simile
spettacolo. Sbagliavo. Aspettammo che il serpente scivolasse via, prima di
rimetterci in marcia. Ci rendemmo conto, un po’ alla volta, che i nostri passi
si facevano più rapidi. Ora ricordavamo che nella foresta malese vivono vipere
e cobra e circa altre cento specie di serpenti, molti dei quali velenosi. Avevo
letto su una guida, ad esempio, che il pitone reticolato, rettile non velenoso
ma dalla forza e dalla furbizia incommensurabili, raggiunge finanche i dieci
metri di lunghezza. Pensavo a una porta da calcio e mi meravigliavo, scoprendo
che sarebbe avanzato ancora un buon terzo di quell’animale gigantesco. Eppure…
che cosa sono, in fondo, dieci metri di fronte a quello che i miei occhi oggi
stanno vedendo?