Ogni anno, tra fine giugno e fine luglio, mia madre giocava la sua
dura partita con l’albero di ciliegie. Dopo essersi tolta le scarpe, senza
neanche l’aiuto di una scala si arrampicava lungo il tronco e, una volta
arrivata alla base dei rami, scelto quello giusto cominciava la scalata alla
conquista dei grappoli più maturi. Nulla poteva farla retrocedere dalla sua
lotta personale per i preziosi frutti, neppure le formiche o il solleone.
Un giorno, l’ultimo che la vidi arrampicarsi sull’albero, mise un
piede in fallo e rischiò di farsi molto male. In attesa che i “volontari” la
traessero d’impaccio, rimase per una lunga manciata di secondi appesa per le
sole mani a un alto ramo, con le foglie immobili nella densa calura del primo
pomeriggio estivo. Una volta scesa, non fece una piega. Ci distribuì in premio
le ciliegie che aveva raccolto e riposto nelle capienti tasche del grembiule e
si disinfettò le abrasioni, togliendosi di dosso una a una le poche formiche
che l’avevano eletta a loro personale universo. L’anno dopo comprò una lunga
scala e cambiò le sue abitudini.
Alla fine di quell’estate l’albero morì,
improvvisamente. Le radici marcirono, le foglie caddero, il tronco parve
piegarsi di lato, come fosse scosso da un dolore a noi incomprensibile. Forse –
mi accarezzò per un istante l’idea – a uccidere quell’essere solitario fu
l’assenza improvvisa del peso del corpo di mia madre, la scomparsa del
solletico fatto dai piedi sulla corteccia, la mancanza delle gocce di sudore
che, scivolandole dalla fronte lungo le gote e il naso verso il mento, il caso
stillava imprevedibilmente, facendole picchiettare con sorda sinfonia sulla
grigia corteccia liscia e dura del ciliegio.(Incipit del terzo capitolo di EDEN. IL PARADISO PUO' UCCIDERE)