Šešelj è giunto ieri a Belgrado
accolto da una folla festante di estremisti e da un nugolo di giornalisti. Il
capo dell’ala più estrema della politica serba ha subito inscenato – a dispetto
delle sue presunte cattive condizioni di salute – un acceso, per non dire
violento, comizio contro gli attuali governanti serbi.
L’uomo – per oltre dieci anni
deputato dell’Assemblea nazionale serba di quella federale della Repubblica
jugoslava, vice primo ministro serbo dal 1998 al 2000 e sindaco di Zemun dal
1996 al 1998 – era stato estradato all’Aja con le accuse di cui sopra il 24
febbraio 2003 e attualmente è in attesa della sentenza del Tpi. Una sentenza
che tarda stranamente ad arrivare, visto che le arringhe finali di accusa e
difesa sono state pronunciate addirittura nel marzo del 2012.
La liberazione del criminale di
guerra è stata accolta con grande amarezza e delusione dalle associazioni che
si battono per i diritti umani e civili nei Balcani e dalle donne e madri di
Srebrenica. “Nessuno si occupa delle vittime, tutti si preoccupano per i
carnefici” ha detto, tra l’altro, la signora Munira Subašic, presidente di una
delle tre associazioni bosniache delle donne di Srebrenica.
Quello dato dal Tpi con la
liberazione di Šešelj è l’ennesimo, inquietante segnale di impunità a favore
dei persecutori e dei criminali che negli anni Novanta hanno insanguinato senza
sosta i Balcani. Probabile che la liberazione di Šešelj sia stata anche
motivata dalla volontà di non ripetere un nuovo caso Milošević – l’ex
presidente serbo morto all’Aja l’11 marzo 2006 – ma è probabile che la
liberazione temporanea dell’ultranazionalista potesse essere gestita in modo
diverso, magari costringendolo a rimanere sul territorio olandese in stato di
semi-reclusione.