Ne I bastardi di Sarajevo, Luca Leone riassume le lacerazioni, i
drammi e le miserie che ancora oggi gravano sulla popolazione della Bosnia
Erzegovina, a causa di una pessima politica che ha dato al Paese prima una
guerra e poi un dopoguerra cui non sembra voler porre fine.
Attraverso un’abile regia, in un
alternarsi di quadri, Leone snoda storie che concorrono a rappresentare la
Bosnia come una sorta di laboratorio politico dell’orrore; come il delirante
risultato del trionfo di nazionalismi che hanno diviso sul piano religioso
comunità che in precedenza non avevano la tendenza a litigare su Dio; come inquietante
prospettiva di ciò che potrebbe diventare l’Italia, ormai da un ventennio
vittima di artificiose divisioni tra il “noi”,
che il politico trionfante di turno ogni volta esibisce orgogliosamente, e quel
“loro” con cui contestualmente indica
in maniera demagogica e denigratoria tutti gli altri.
La Sarajevo ritratta da Leone non
vive attraverso le sue strade, i suoi edifici e i suoi monumenti. Sembra
piuttosto un’anima che vive e palpita attraverso i drammi e le delusioni di chi
la popola e che sopporta come un corpo estraneo quella pessima politica che
l’ha ridotta a un cumulo di macerie morali e materiali.
È una città che mostra i segni e la
sofferenza di tante vite scandite da un prima, un durante e un dopo la guerra,
di tante vite segnate irreversibilmente dalla violenza, dal fanatismo e
dall’odio di cui si è alimentata una guerra voluta da nazionalismi in cerca di
una nazione e da fanatici identitari in cerca di un’identità.
Con un linguaggio duro che sembra
voler assecondare la realtà delle cose, attraverso lo snodarsi di diverse
vicende, Leone disegna una tragedia corale che fa iniziare nel 1991, con un
professore idealista e un giovane studente di famiglia altolocata che
condividono il sogno di assistere alla nascita di una Bosnia finalmente libera.
Si tratta di una tragedia che sembra destinata ad avere un epilogo cupo per la
Bosnia, con un professore ormai segnato dall’età e soprattutto da una profonda
rassegnazione civile, che dopo un quarto di secolo rimprovera al proprio ex
studente di aver tradito le sue speranze, di essere diventato uno dei politici
bastardi di Sarajevo e di aver distrutto forse irreversibilmente il proprio Paese:
“Qui non c’è e non ci sarà mai una
nazione… ci sarete sempre e soltanto voi, instillatori d’odio e di differenze
artificiose”. E con l’ex studente, politico bastardo, che sembra non potersi
più permettere una coscienza, perché ormai preso da un ruolo cui non può e non
vuole sottrarsi, nonostante sia consapevole che le proprie personali fortune si
fondano sulla moltiplicazione delle disgrazie di un popolo derelitto : “Noi, sì, professore… noi bastardi di
Sarajevo”.
Sullo sfondo delle diverse storie,
che si snodano tra il colloquio iniziale e quello finale tra il professore e il
suo studente, si staglia una guerra segnata dall’odio, dal fanatismo e dal
delirio nazionalista dei Mladić, dei Karadžić e dei Milošević, da una violenza
inaudita che ha reso parte della quotidianità gli stupri etnici, l’uccisione di
ignari e innocui musulmani per mano di cecchini, il sequestro di giovani donne costrette
a prostituirsi e a subire abusi da parte di serbo-bosniaci e di avventurieri e di
fanatici estremisti provenienti da altre nazioni, compresa l’Italia.
In un dopoguerra apparentemente senza
fine, in cui sono maturate delusioni e rimpianti, nel quadro di una povertà
estrema, resa ancora più incomprensibile dagli alti costi e dalla corruzione della
politica, Leone delinea una società dove imperano i bastardi, che fanno fortuna
sulle emergenze e sulle divisioni che alimentano tra la popolazione.
I bastardi sono i politici,
praticamente di ogni livello, gli avventurieri, come il mercenario fascista Snajper, carico d’odio per noia, che va
alla ricerca di altri annoiati danarosi in Italia che vogliano provare
l’ebrezza di andare a caccia di orsi in Croazia e, magari, anche quella di
sparare con un fucile di precisione a un ignaro musulmano bosniaco. Bastardi
sono i sicari che si mettono a disposizione dei politici, che compiono crimini
su commissione, vanamente speranzosi che certi servigi, indispensabili per una
politica fatta di sotterfugi, inganni e colpi bassi, possano evitargli di diventare
potenziali vittime.
Di fronte a quelle dei bastardi,
Leone disegna le storie delle loro vittime, in un sovrapporsi di vicende che
stende un velo cupo sulla Bosnia dei nostri giorni. La storia di Azra e Fatima,
due sorelle orfane e vittime di violenze sessuali durante la guerra, si
sviluppa alternandosi con quella di due giovani oppositori, il filosofo Nermin
e il suo amico ingegnere Zlatan, con quella del giornalista di Zenica, che pagherà
caro l’aver voluto rispondere solo alla sua coscienza, con quella di Stanko e
Anja, una coppia lacerata dalla nascita di una figlia che Anja ha avuto a
seguito di uno stupro etnico.
Oltre ai bastardi e alle vittime,
Leone presenta poi gli ignavi, coloro che cercano con ostinazione di non farsi
coinvolgere. Fa parte di questa categoria il medico che cura Azra. Il medico
non ha tempo per ascoltare le difficoltà delle due giovani sorelle, per sapere
che non potranno permettersi le medicine necessarie. Durante la guerra era
all’estero, a studiare. Non può sentirsi colpevole. Non vuole sentirsi
coinvolto. Non ha tempo. Altri malati attendono le sue cure. Ma il suo si
riduce a un confronto con i corpi, come se non avessero un’anima, o come se,
dinanzi a lui, dovessero fare finta di non avere un’anima.
Fa parte di questa categoria
Tomasso, l’industrialotto italiano in cerca di avventura, che per noia e per un
egoistico piacere assolda il mercenario e connazionale Snajper per andare a caccia di orsi in Croazia, e che non ha la
forza per fare nulla, se non mostrare il proprio sconvolgimento, quando per
fanatismo e per un superomistico delirio di onnipotenza Snajper uccide a
distanza, con un fucile di precisione, due adolescenti di un piccolo villaggio musulmano.
In una Bosnia apparentemente senza
speranza, Leone sottolinea come le uniche espressioni di umanità e di
solidarietà è possibile sopravvivano, neanche molto paradossalmente, solo tra
chi già è schiacciato dalla propria sofferenza: tra i vicini di casa di Fatima,
che la soccorrono e l’aiutano amorevolmente; tra i giovani oppositori Nermin e
Zlatan e tra quest’ultimo e il padre di Nermin, quando questi viene colpito
quasi selettivamente, ed emblematicamente nel racconto di Leone, perché non si
è limitato a contestare, ma, da filosofo, ha cercato di stabilire un dialogo
che una politica bastarda non può ammettere: quello tra un oppositore e un
poliziotto.
Tra gli ignavi si inserisce anche il
giornalista italiano Andrea, di ritorno a Sarajevo dopo il fallimento del
proprio matrimonio e una profonda delusione per il proprio Paese. Anni prima
Andrea avrebbe potuto essere più determinato nel descrivere la tragedia che
stava travolgendo la Bosnia, ma non lo ha fatto. Così come avrebbe potuto
decidere di vivere per sempre con Emina, la donna che cerca di nuovo tornando a
Sarajevo.
Attorno a queste due figure si
costruisce metaforicamente il rapporto tra l’Italia e la Bosnia Erzegovina, un
rapporto che Leone richiama spesso nel suo libro. Emina non è più la giovane
donna che Andrea ha amato anni prima. È ormai una donna determinata, incapace
di illudersi di nuovo e spaventata da questa prospettiva. È una donna matura
che ha dentro di sé i segni di una vita vissuta attraverso molte sofferenze e
che comincia a sfiorire, mostrando un fascino che viene da lontano, da una
bellezza legata agli anni della speranza e dalle tante delusioni provate. Emina
è l’incarnazione di Sarajevo. Porta i segni di un passato fatto di una bellezza
che non potrà più tornare e mostra un fascino che viene da una vita
profondamente, intensamente, drammaticamente vissuta. Emina ama ancora Andrea,
ma non vuole altre sofferenze e al tempo stesso ha bisogno di speranza. Andrea diviene
metafora dell’Italia, il Paese di una bellezza assai simile a quella della Sarajevo
di prima della guerra, un Paese capace ancora di illusioni e di momenti di
spensieratezza, ma sull’orlo di un baratro, come lo era Sarajevo nel 1991. Per
Emina/Sarajevo, Andrea è la speranza che qualcosa possa ricominciare, che a
dispetto di tutte le tragedie ci possa essere un punto da cui riprendere un bel
cammino interrotto. Ma Andrea è metafora di un’Italia incapace di decidersi e
di trovare la propria strada attraverso scelte risolutive. Andrea è l’Italia e
a un tempo è la Sarajevo e la Bosnia alla vigilia della guerra. Per questo
Emina non gli si concede, non vuole rivivere l’orrore di un fallimento che ha
già conosciuto. Per Andrea, Emina è la bellezza che accenna a sfiorire con gli
anni. Emina/Sarajevo, con il suo vissuto e con la dignità con cui ha fatto
fronte alle proprie tragedie, è per lui la possibilità di ritrovare una
profondità dell’esistenza e dei sentimenti che nella sua Italia sente di avere
perduto, forse per sempre. Emina/Sarajevo è la speranza di ritrovare un corpo
che sappia essere caldo, avvolgente, comprensivo, come può esserlo chi ha
trovato il senso della propria esistenza passando di tragedia in tragedia senza
mai smarrire se stesso e il proprio amore per la vita. Quel corpo però non si
concede. Andrea non ha ancora la forza di prendere per mano il proprio destino.
Il suo ritorno in Italia apre però un secondo scenario rispetto a quello senza
speranza emerso dal colloquio tra il professore e il politico bastardo che
aveva accompagnato alla laurea un quarto di secolo prima.
Da quel dialogo emergeva una Bosnia
senza futuro.
Andrea sul volo che lo riporterà in
Italia conosce Tommaso, l’industrialotto distrutto dall’esperienza che Snajper gli ha fatto provare, annientato
da una crudeltà e da una spietatezza che non avrebbe forse mai immaginato e che
non ha saputo impedire. Andrea e Tommaso si raccontano ciò che hanno vissuto.
Ne hanno bisogno. Si tratta di esperienze che porteranno dentro per il resto
della vita. Anche se in diversa maniera, sono stati in qualche modo bosniacizzati.
Questo per loro potrebbe essere un vantaggio e una speranza e metaforicamente potrebbe
esserlo per la loro Italia. Hanno visto il baratro in cui chiunque e qualunque Paese
può precipitare quando la politica bastarda decide di costruire la propria fortuna
alimentando l’odio e l’insofferenza e inventando o accentuando divisioni
politiche, sociali, etniche, religiose o generazionali.
Ugo Mancini