mercoledì 10 febbraio 2016

Quel testimone dalle foibe

Una voce dell’esodo che risveglia una pietas senza tempo né luogo
10 febbraio, Giorno del ricordo, per conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale

“Chi se la sente di andare giù? – chiese il maresciallo Hazarich – Ho bisogno di qualcuno che faccia un rapido calcolo di quanti corpi ci sono per preparare i sacchi”.
“Noi non siamo qui per tirar fuori i morti! Ci hanno detto solo di venire a fare un sopralluogo”, ha protestato uno dei miei colleghi del 41° corpo dei vigili di fuoco di Pola. Quella mattina eravamo stati mandati prima alla foiba di Cregli, ma non avevamo potuto effettuare un sopral­luogo perché la corda era troppo corta per raggiungere il fondo.
Era chiaro che nessuno voleva fare quel lavoro e nessuno dei presenti – Procuratore di Pola, medico, giudice e cancelliere del tribunale di Pola, i venticinque della scorta armata che ci veniva fornita per scongiurare eventuali attacchi da parte dei partigiani, il fotografo Sivilotti – aveva il coraggio di ordinarci di farlo. Mi sono offerto: dissi che mi sarei calato per primo. Sceso in quella voragine carsica, non trovavo la voce per ri­spondere ai colleghi che si preoccupavano per la mia sorte. Non riuscivo nemmeno a trovare il coraggio di tenere accesa la torcia per illuminare quel quadro infernale. Preoccupati dal mio silenzio e temendo il peggio, mi tirarono su in tutta fretta.
“Allora?”, chiese il Maresciallo con voce turbata.
“Non lo so”, sussurrai. Quella terra rossa della mia Istria, rossa per la vergogna, rossa per il sangue, rossa per l’imbarazzo d’aver assistito all’a­pocalisse, mi rivestiva le mani, mi insudiciava tutto. Ho dapprima be­stemmiato, poi mi sono messo a ululare come un cane nero. “Non si possono mica contare! Sono buttati lì uno sopra l’altro come se fossero sacchi d’immondizie”, ho ringhiato.
“Ho bisogno di sapere un circa”, ha insistito il maresciallo.
“Sono una montagna! – ho urlato – Sono una infinità! Settanta, ottanta, forse addirittura…”. Non c’è l’ho fatta a finire la frase. Mi è esplosa dal pet­to una diga di lacrime e un suono di dolore primordiale. Poi sono svenuto.
Con queste parole Mario de Laura, Il testimone di Pirano, di Laila Wadia appena uscito in libreria, ricorda il suo terribile incontro con le foibe.
“Il racconto di Mario, il testimone di Pirano, è una delle voci dell’esodo. Una voce che, come le altre, ogni volta suona come nuova, ritrovato tassello di un più ampio mosaico del dolore. Perché il ricordo dell’infanzia povera, delle ingiustizie subite, della casa abbandonata, degli alloggi provvisori, della fame e del freddo risvegliano nel lettore una pietas senza tempo né luogo. Più ancora, ricordare la discesa nelle foibe per recuperare i corpi delle vittime – scendere nel buio su quel mucchio di corpi decomposti – assume il senso di una prova assoluta, tragica allegoria di un intero secolo di guerre e di massacri”. (dalla prefazione di Pietro Spirito)