Una
voce dell’esodo che risveglia una pietas
senza tempo né luogo
10 febbraio, Giorno del ricordo, per
conservare e rinnovare
la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe,
dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo
dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale
“Chi
se la sente di andare giù? – chiese il maresciallo Hazarich – Ho bisogno di
qualcuno che faccia un rapido calcolo di quanti corpi ci sono per preparare i
sacchi”.
“Noi
non siamo qui per tirar fuori i morti! Ci hanno detto solo di venire a fare un
sopralluogo”, ha protestato uno dei miei colleghi del 41° corpo dei vigili di
fuoco di Pola. Quella mattina eravamo stati mandati prima alla foiba di Cregli,
ma non avevamo potuto effettuare un sopralluogo perché la corda era troppo
corta per raggiungere il fondo.
Era
chiaro che nessuno voleva fare quel lavoro e nessuno dei presenti – Procuratore
di Pola, medico, giudice e cancelliere del tribunale di Pola, i venticinque
della scorta armata che ci veniva fornita per scongiurare eventuali attacchi da
parte dei partigiani, il fotografo Sivilotti – aveva il coraggio di ordinarci
di farlo. Mi sono offerto: dissi che mi sarei calato per primo. Sceso in quella
voragine carsica, non trovavo la voce per rispondere ai colleghi che si
preoccupavano per la mia sorte. Non riuscivo nemmeno a trovare il coraggio di
tenere accesa la torcia per illuminare quel quadro infernale. Preoccupati dal
mio silenzio e temendo il peggio, mi tirarono su in tutta fretta.
“Allora?”,
chiese il Maresciallo con voce turbata.
“Non
lo so”, sussurrai. Quella terra rossa della mia Istria, rossa per la vergogna,
rossa per il sangue, rossa per l’imbarazzo d’aver assistito all’apocalisse, mi
rivestiva le mani, mi insudiciava tutto. Ho dapprima bestemmiato, poi mi sono
messo a ululare come un cane nero. “Non si possono mica contare! Sono buttati
lì uno sopra l’altro come se fossero sacchi d’immondizie”, ho ringhiato.
“Ho
bisogno di sapere un circa”, ha insistito il maresciallo.
“Sono una montagna!
– ho urlato – Sono una infinità! Settanta, ottanta, forse addirittura…”. Non
c’è l’ho fatta a finire la frase. Mi è esplosa dal petto una diga di lacrime e
un suono di dolore primordiale. Poi sono svenuto.
Con queste parole
Mario de Laura, Il
testimone di Pirano, di Laila Wadia appena uscito in
libreria, ricorda il suo terribile incontro con le foibe.
“Il racconto di
Mario, il testimone di Pirano, è una delle voci dell’esodo. Una voce che, come
le altre, ogni volta suona come nuova, ritrovato tassello di un più ampio
mosaico del dolore. Perché il ricordo dell’infanzia povera, delle ingiustizie
subite, della casa abbandonata, degli alloggi provvisori, della fame e del
freddo risvegliano nel lettore una pietas
senza tempo né luogo. Più ancora, ricordare la discesa nelle foibe per
recuperare i corpi delle vittime – scendere nel buio su quel mucchio di corpi
decomposti – assume il senso di una prova assoluta, tragica allegoria di un
intero secolo di guerre e di massacri”. (dalla prefazione di Pietro Spirito)