Mi permetto di regalare ai coraggiosi lettori del mio blog e dei miei social il testo, sperando di fare cosa gradita e di stimolare alla lettura e alla comprensione di un libro che parla di un periodo complesso e poco noto della storia contemporanea italiana.
Sono
nato nel 1970 e per molti anni ho vissuto nella stessa casa, alle porte di
Roma. Un luogo che un tempo era campagna – bellissima – mentre oggi è hinterland inquinato e cementificato.
Dal momento in cui, in fasce, entrai in quella casa di campagna, divenni a mia
insaputa dirimpettaio di una famiglia che, per almeno tre decenni, avrebbe
lasciato molte tracce dentro di me. Crescendo, il confine tra le due proprietà,
rappresentato da una rete metallica piantata su pali grigi di cemento, si
rarefece sempre di più, in nome della cordialità, del buon vicinato e, qualche
volta, della convivialità.
Chiedevo
a mia madre perché quei due signori – Giovanni, detto Nino, e Luciana –
parlassero “quella lingua strana”. Una
lingua curiosa, a tratti così dolce, ora così aspra. Che a volte capivo, altre
no. Il che strideva, alle mie orecchie di bambino, ancora di più, di fronte ai
tre figli della coppia, che invece s’esprimevano con evidente accento romano.
Con
gli anni, potei apprendere la storia di quell’uomo e di quella donna.
Inizialmente oscura, poi sempre più chiara, passando di grado in grado a
scuola. Scoprii, così, di aver condiviso tutta la mia vita di “confinante”,
fino ad allora, con una coppia di coniugi ormai maturi provenienti dalla Zona B. Ricordo racconti che talvolta,
accendendo la mia fantasia, sconfinavano in esodi sullo stile di quelli narrati
dai colossal biblici hollywoodiani,
così di moda nella tv serale degli anni Settanta. Non avevo ancora capito che
quell’esodo – dall’Istria, dalla Dalmazia e dalla Zona B – fu davvero biblico. E rappresentò una catastrofe umana e
materiale per decine di migliaia di famiglie di italiani, improvvisamente resi
stranieri sia nella Patria da cui scappavano sia in quella in cui cercavano
aiuto e conforto. L’Italia è sempre stata matrigna con i suoi figli che
rientravano dall’estero: è stato così con gli istriani e i dalmati, ma non è
stato diversi per coloro che, sempre negli anni Cinquanta, dovettero
abbandonare – dopo tre o quattro generazioni – l’Egitto o la Libia. L’Italia sa
essere crudele. E, quando ne ha l’interesse, sa dimenticare e seppellire molto
in fretta i ricordi scomodi.
Nino
e Luciana, mi raccontarono loro stessi, avevano deciso di lasciarla, Trieste.
Tentarono la fortuna nella Capitale. Ma nei primi tempi Roma non fu tenera con
loro, come con altri. Loro, però, il colpo di fortuna lo ebbero per davvero.
Nino una sera giocò la schedina del Totocalcio
e, alla domenica, si ritrovò tra le mani un bel “13”. Pare incredibile, ma andò
così. Con quei soldi, comprò il pezzo di terra su cui edificò la casa in cui da
allora hanno sempre vissuto. Quella stessa casa separata da una sottile rete
metallica dalla proprietà in cui a quel tempo vivevo.
L’ultimo
ricordo nitido che ho di Nino fu un appuntamento nella mia camera da letto, un
giorno di primavera credo del 1993, o forse del 1994. Aveva saputo che avevo da
poco superato l’esame di Diritto privato. Suonò al citofono e si presentò in
camera mia, dove preparavo gli esami universitari, con il cappello in mano. Mi
chiedeva consulenza per capire se fosse nelle sue possibilità recuperare la
vecchia casa di famiglia e i beni confiscati dalla Jugoslavia socialista, ora
finiti in quella Slovenia che era stata solo in piccolissima parte sfiorata
dalle guerre jugoslave degli anni Novanta. Andò via con tanti dubbi, sempre con
il cappello in mano e la schiena un po’ china. Non credo sia riuscito a
recuperare granché. Probabilmente nulla.
Questo
importante lavoro di Laila Wadia ha risvegliato in me tanti ricordi. Mi ha dato
tante risposte. Mi ha spinto a farmi tante altre domande.
Sono
stato spettatore in differita, inconsapevole prima, distratto poi, di una delle
tante, troppe tragedie umane del Novecento italiano. Questo libro mi ha donato
l’odore, le sensazioni, i confini reali di quella tragedia umana che fu l’esodo
istriano-dalmata. Il tempo non è galantuomo, se usato alla stregua di terriccio
da gettare a palate su una vicenda data per finita, per morta. Il lavoro di
Laila Wadia scopre, con un soffio delicato, lo strato di polvere che l’incuria
per la nostra storia e le nostre radici ha lasciato che si posasse e riporta
all’attualità una vicenda che ogni nostro concittadino dovrebbe conoscere. È
una parte di noi che riemerge dalla voragine mai piena dell’oblio. Da cui
dovremmo – dobbiamo – trarre insegnamenti per il futuro. Leggendo finalmente la
storia nel modo corretto e restituendo, sotto forma di rispetto e di memoria,
ciò gli italiani dello stivale hanno negato agli italiani dell’esodo
istriano-dalmata: rispetto.