“Siete
oggetto di un blocco amministrativo”, dice la signorina assonnata e svogliata
dall’altra parte della cornetta. Blocco amministrativo!? Indaghiamo. Significa
che ci hanno staccato la linea perché non abbiamo pagato. Eppure, ribattiamo
piuttosto stizziti, abbiamo attivato oltre due anni fa la domiciliazione del
pagamento delle fatture Telecom presso il nostro conto bancario e tutte le
fatture arrivateci in redazione contengono la scritta, bella grossa, che tutto
è ok, che non abbiamo debiti con l’azienda telefonica in questione, che siamo
bravi e proni pagatori. Sinonimo di “cittadino” in Italia. La signorina cerca
meglio. Scopre che noi non c’entriamo nulla ma che è Telecom ad aver fatto
pasticci nel passaggio al sistema Sepa ed, esattamente, in questa imposizione
unilaterale di cui ogni utente è stato oggetto (o vittima) non ha correttamente
agganciato i clienti con le rispettive banche, facendo risultare così morose
centinaia di utenze. Centinaia di utenze!
Ma
siamo tutti impazziti?
Quindi
ti trovi, a tua insaputa, a essere moroso nei confronti del gigante delle
telecomunicazioni, che ti impone un cambio unilaterale del contratto e poi, senza
alcun preavviso, ti lascia senza internet e senza linea telefonica in uscita
solo perché un amministrativo non ha “agganciato” dei numeri al tuo numero. E
perché qualche dirigente zelante e piuttosto idiota ha stabilito una procedura
da seguire, questa, che ha un taglio un po’ nazista e un po’ sovietico. Un
grande esempio di trasversalità italica. Nessun avviso nelle settimane o giorni
precedenti, ovviamente, a beneficio dell’utente prono e pagatore. E l’ultima
fattura riporta la dicitura seguente: “Le precedenti fatture risultano pagate”.
Sono una signorina, all’ennesima telefonata, butta là un goffo: “Ma la nostra
procedura prevede l’invio di lettere di sollecito con tariffa normale”. Che,
guarda un po’, non solo non sono mai arrivate, sennò ci saremmo affrettati a
pagare e a “rimetterci in regola”, ma non hanno neppure alcun valore in
tribunale.
Comunque,
te ne fai una ragione, in tutta fretta verifichi il pasticcio, sai che non è
colpa tua, molli il lavoro, ti fiondi all’ufficio postale e saldi l’arretrato. Perché
sei un’azienda che fa della comunicazione il suo cuore e non puoi non
comunicare. E infatti paghi un sacco di soldi per questo.
Ma non
è abbastanza, perché il cittadino italiano deve essere sempre messo a dura
prova. Inizia infatti l’odissea del comunicare l’avvenuto pagamento a Telecom.
Bisogna inviare copia del pagamento tramite fax – “oppure tramite mail, ancora
meglio”, ti dice un’idiota dall’altra parte della cornetta, senza pensare
evidentemente che tu stai protestando e sei in ansia proprio perché internet te
l’hanno staccato illegittimamente. Quindi, torni al medioevo e mandi un fax.
Bella storia: dove lo mandi? E da dove lo mandi, visto che nel frattempo,
nonostante ti avessero assicurato del contrario, oltre che internet ti hanno
tagliato anche le telefonate in uscita? I numeri a cui spedire un fax possono
anche essere più di uno e nessuno ti dice quale sia quello giusto. Così, nel
dubbio ri-esci e, a pagamento, mandi un
fax a tutti i numeri che ti hanno dato. Poi ti riattacchi al telefono e chiedi
informazioni e rassicurazioni sul fatto che la domiciliazione, mai disattivata
dall’utente, sia di nuovo attiva e, soprattutto, poni la domanda principale: “Quando
mi riattivate la linea?”. Entro ventiquattro ore”, ti dice l’ennesima operatrice.
Ti cadono le braccia, perché ti aspetti che l’operazione abbia la stessa
immediatezza di quella che ha portato a subire il distacco ingiusto. Ma,
ovviamente, non finisce qui. Perché non pensi a chiedere: “Ma ventiquattro ore
da quando?”.
Perché
i signori di Telecom impiegano il loro tempo a “lavorare i fax”, anche loro
sono rimasti nel medioevo. E la risposta giusta, come scopri allorché le
ventiquattro ore sono passate, è che la decorrenza scatta dal momento in cui il
fax è stato protocollato. Il che avviene con la “giusta” calma. Tanto a rimetterci
i soldi e a non poter lavorare siamo noi, non certo i burocrati di Telecom.
Parte
allora una nostra massiccia protesta via Twitter, usando le connessioni
telefoniche che, per fortuna, paghiamo a un altro gestore di telefonia (e meno
male, perché sennò il pantano parmense ci avrebbe privato anche di questo
strumento). Qui scatta una altrettanto massiccia presa in giro da parte di
qualche buontempone, forse dell’ufficio stampa, di Telecom, che ci palleggia
per ore con un operatore del 187, pur
sapendo che siamo un’azienda, il quale alle 19,00 o poco prima, evidentemente
orario strategico per loro, ci comunica che la competenza è del 191. Continua
allora la nostra protesta su Twitter e il simpatico operatore del 191, che
avrebbe dovuto chiamarci per raccogliere la nostra protesta e darci risposte,
mai si palesa. Abbandonati.
Con
una speranza: e cioè che, alle nove del mattino di oggi, venerdì 17, avremmo dovuto
riavere la linea. Certezza che riusciamo ad avere solo dopo altre telefonate
fiume con l’inconcludente call center Telecom.
Alle
nove di questa mattina avviamo il tutto e… e naturalmente non funziona nulla.
Ci riattacchiamo allora al telefono e forse troviamo la persona giusta. La
quale raccoglie di nuovo la nostra protesta, controlla sul terminale e ci dice:
“Beh, ma qui risulta tutto a posto. Non capisco perché non vi abbiano
riattivato la linea, ma ora ci penso io”. Un clik e tutto riparte magicamente.
Un clik che avrebbero potuto fare anche un giorno prima, senza arrecarci per
mero gusto sadico un danno ulteriore.
L’azienda
Telecom non prevede scuse. L’azienda Telecom non prevede risarcimento del danno
subito dall’utente. L’azienda Telecom, in sostanza, può fare quel che vuole
della nostra vita e della nostra attività.
Ora,
la privatizzazione della Telecom, come sapete, è stata decisa dal governo Prodi
e attuata il 20 ottobre 1997 quando a guidare l’azienda era Guido Rossi. Lo
avessi davanti a me, chiederei al signor Prodi e agli altri campioni del
centro-sinistra italiano se sono fieri di aver privatizzato coi piedi tutte le
aziende strategiche del Paese per ridurle in queste condizioni, per ridurre i
cittadini e le piccole e medie imprese italiane in queste condizioni. Siccome
le risposte sarebbero biascicate e a metà, quel che resta è il rimpianto per il
disastro che una classe politica inaccettabile, impreparata e incompetente ha
compiuto, seguita poi da altre classi politiche se possibile persino peggiori
che hanno dato fondo all’impossibile riducendo il Paese quella porcheria che
oggettivamente è e mettendolo nelle mani di mezze maniche mezze cartucce che
vengono incredibilmente definite “manager”.
Rimane,
in tutto questo, solo un grande senso di amarezza e, se possibile, la consapevolezza
che chi se ne va all’estero a lavorare e a produrre fa assolutamente bene.
Questo Paese non merita le persone e le aziende oneste che pure, in grandissima
parte, ha. Merita solo, evidentemente, d’essere oggetto di ratto da parte di
una mediocre oligarchia politico-economica che ricorda un po’ gli oligarchi
russi e le connivenze clamorose del Cremlino. È un’Italia in svendita, perennemente,
quella che le privatizzazioni selvagge degli anni Novanta ci hanno lasciato. Un’Italia
che ci pesa addosso come un macigno e che ci sta schiacciando tutti.
Impossibile
spiegare queste cose ai nostri politici. Ma sarebbe bene far scoppiare le loro
buche delle lettere e i loro server di posta con lettere come questa. Per far
vedere che non siamo tutti pecore e che qualcuno, anche se è un lottare contro
i mulini a vento, ancora s’incazza. E lo fa perché siamo definitivamente soli,
semplici mucche da mungere finché le mammelle non danno latte. E a quel punto
ci convinceranno a fare colazione inzuppando quel che ci resta nella dispensa
anche con quello.