Il
28 giugno, giorno in cui si festeggia San Vito o Vivovdan, è una data simbolica nella storia della Jugoslavia e dei Balcani.
Ripercorriamo questa giornata negli ultimi settant’anni di storia insieme a
Bruno Maran e al suo preziosissimo libro dal titolo Dalla
Jugoslavia alle Repubbliche indipendenti che ripercorre gli ultimi decenni della storia
jugoslava, anno
per anno, giorno per giorno.
Il 28 giugno del
1948 si segnala per la rottura tra Jugoslavia e Urss, decisa e voluta da Stalin. Il Cominform
o Bureau d’Information dichiara che il Partito jugoslavo sta
perseguendo una politica ostile verso l’Unione Sovietica. Il Cominform denuncia
l’atteggiamento anti-sovietico dei capi del Partito comunista jugoslavo come
incompatibile col marxismo-leninismo. Il Bureau pensa che nel Partito
non esiste democrazia interna né eleggibilità degli organi interni, né
autocritica. Il Partito jugoslavo ha preso la strada di scindersi dal Fronte
unito socialista contro l’imperialismo, assumendo una posizione nazionalista. I
capi jugoslavi respingono i consigli dei partiti comunisti fratelli di
discutere la situazione all’interno del Cominform.
Arriviamo agli anni
’80, più precisamente tra il 26 e il 29 giugno del 1982. A Belgrado si tiene il
XII Congresso della
Lega dei comunisti, detto “dell’unità e della continuità”. Oltre alle
retoriche lodi a Tito e a Kardelj, si odono parole dure e conflittuali tra le
correnti. A quella centralista, rappresentata da Serbia e Montenegro; a quella
autonomista dei difensori della Costituzione si aggiungono quella dei
conservatori e dei liberali. Il rapporto di forze quasi bilanciato permette un
compromesso in direzione del “centralismo democratico”.
Le divergenze
rimangono aperte. Il Congresso riporta il dato degli iscritti che, sull’onda
emotiva della morte di Tito, ora sono 2.111.731, il 9% della popolazione e il
25% dei lavoratori. Segue un Comitato centrale in cui Ante Marković, il
politico serbo più rappresentativo – che, secondo le regole della rotazione,
avrebbe dovuto essere eletto membro della presidenza del partito – non ottiene
i due terzi dei voti come previsto. È uno smacco senza precedenti che, oltre
a provocare violente reazioni da parte serba, segna un altro passo verso il
definitivo tramonto dell’era Tito. Interviene Petar Stambolić, uomo di punta
della Serbia, in qualità di presidente federale, definendo la sconfitta di
Marković “un gioco sporco”. Invece si tratta di un voto ad personam contro
Marković per le sue concezioni politiche. Il Comitato centrale, eleggendo
Marković in una seconda riparatoria votazione, infligge un colpo morale al
proprio prestigio.
Il
28 giugno del 1989 rappresenta un punto di non ritorno nella storia contemporanea.
Ripercorriamo quel giorno con le parole di Bruno Maran.
Sulla piccola collina di Gazimestan, in Kosovo, dove è eretto
un monumento a ricordo della battaglia del 1389, la disfatta serba del Campo
dei Merli, Kosovo Polje, davanti a un milione di serbi Milošević esalta i temi
del nazionalismo serbo nel 600° anniversario della battaglia, divenuta il mito
fondante del nuovo Stato serbo. Sei secoli dopo il popolo serbo continua a
celebrare questo anniversario, commemorando l’antica sconfitta, che segnò la
fine di un’epoca d’indipendenza e l’inizio di un lungo e sofferto asservimento
al nemico musulmano.
Milošević parla di “Velika Srbija” (Grande Serbia),
di unità di tutti i serbi e di confini: “Dove vive un serbo, ivi è Serbia.
In Serbia non hanno mai vissuto solamente i serbi. Oggi, più che nel
passato, pure componenti di altri popoli e nazionalità ci vivono. Questo non è
uno svantaggio per la Serbia. Io sono assolutamente convinto che questo è un
vantaggio. La Jugoslavia è una comunità multinazionale e può sopravvivere solo
alle condizioni dell’eguaglianza piena per tutte le nazioni che ci vivono. La
crisi che ha colpito la Jugoslavia ha portato con sé divisioni.
Tra queste divisioni, quelle nazionalistiche hanno dimostrato
d’essere le più drammatiche. Risolverle renderà più semplice rimuovere altre
divisioni e mitigare le conseguenze che esse hanno creato.
Sei secoli dopo, noi veniamo nuovamente impegnati in battaglie
e dobbiamo affrontare battaglie. Non sono battaglie armate, benché queste non
si possano mai escludere. Oggi come oggi è difficile dire quale sia la verità
storica sulla battaglia del Kosovo e cosa sia solo leggenda. Oggi come oggi
questo non ha più importanza.
Perciò è difficile dire oggi se la battaglia del Kosovo fu
una sconfitta o una vittoria per la gente serba, se grazie a essa piombò nella
schiavitù o se ne sottrasse. Sei secoli fa, la Serbia si è eroicamente difesa
sul campo del Kosovo, ma ha anche difeso l’Europa. A quel tempo la Serbia era
il bastione a difesa della cultura, della religione e della società europea in
generale. Perciò oggi ci sembra non solo ingiusto, ma persino antistorico e del
tutto assurdo parlare dell’appartenenza della Serbia all’Europa. Che la memoria
dell’eroismo del Kosovo viva in eterno! Viva la Serbia! Viva la Jugoslavia!
Viva la pace e la fratellanza tra i popoli!”.
I serbi rispondono, cantando: “Slobo ti amiamo come la
terra arida invoca la pioggia”.
Non è solo il 600° anno di Kosovo Polje, è anche il 75°
anniversario dell’omicidio di Francesco Ferdinando a Sarajevo, quando un altro
serbo dette il via a una guerra... Gli albanesi vivono la celebrazione come
un’invasione. In quell’estate sono riesumate le spoglie di re Lažar, eroico
capo delle milizie serbe nel 1389 e il giro del sarcofago aperto è il grande
spettacolo con cui Milošević annuncia la rinascita della “Grande Serbia”,
stregando i serbi in una sorta di allucinante delirio di massa, una forma di
paranoia accompagnata dalla continua ricerca di un capro espiatorio. Le Milizie
territoriali delle varie repubbliche devono rinunciare alle armi su ordine
dell’Armata federale; solo la Slovenia riesce a mantenere una parte degli
armamenti, nascondendoli.
Quattro anni dopo, siamo nel 1992, il presidente
francese Mitterrand si reca – a sorpresa – in visita a Sarajevo per avvalorare
la gestione franco-inglese del conflitto.
I
caschi blu francesi organizzano l’atterraggio del loro presidente. Le truppe
serbo-bosniache si sono ritirate, consegnando l’aeroporto all’Unprofor.
Mitterand,
timoroso del pericolo del fondamentalismo islamico, sostiene che la faccenda è
interna alla Bosnia e che la comunità internazionale non può andare oltre
l’intervento umanitario, sottintendendo la tradizionale amicizia franco-serba,
che data alla prima guerra mondiale. Dimostrando che l’aeroporto è praticabile,
Mitterand impedisce che i serbo-bosniaci siano definiti come gli unici
responsabili delle sofferenze della città. La sua visita a Sarajevo, per di più
nel giorno di San Vito, altamente simbolico per i serbi, può essere letta anche
come un regalo, poiché può aver impedito un intervento militare, che da più
parti si stava progettando. Zlatko Dizdarević, giornalista di Oslobodjenje,
a proposito scrive: “Da quel momento pochi nel mondo si chiederanno perché
mai a Sarajevo, una città che ha sempre avuto una sua economia, generi
alimentari, medicinali e tutto quanto le serviva, sia necessario portare
rifornimenti con aerei e convogli, invece di fare quello che serve per
sbloccare la città e permetterle di funzionare normalmente”.
A Pale, le autorità
politiche serbo-bosniache esultano. Sul terreno, le operazioni militari
serbo-bosniache continuano con l’annessione di nuovi territori, cui seguono
massicce ondate di profughi. Nel giorno di Vivovdan, a Belgrado, 200.000
persone manifestano per chiedere le dimissioni di Milošević e dei suoi
portavoce televisivi: ottengono solo una tavola rotonda tra Milošević e il
cartello delle opposizioni Depos.
Nel
1999 si
ricorda Vivovdan, per la richiesta di dimissioni di Milošević da parte
del del patriarca Pavle.
L’ex segretario di
Stato Usa Kissinger dichiara al Daily Telegraph: “Il testo di
Rambouillet, che chiedeva alla Serbia di ammettere truppe Nato in tutta la
Jugoslavia, era una provocazione, una scusa per iniziare il bombardamento.
Rambouillet non è un documento che un serbo angelico avrebbe potuto accettare.
Era un pessimo documento diplomatico che non avrebbe dovuto essere presentato
in quella forma”.
Infine il 28 giugno del 2000 è la data in cui Milošević
è consegnato al Tpiy dell’Aja con accuse di crimini contro l’umanità per le
operazioni in Croazia, Bosnia Erzegovina e Kosovo nonostante la contrarietà di
Koštunica e di parte dell’opinione pubblica serba.