mercoledì 29 giugno 2016

Slovenia, "non so se questa sia la guerra", di Franco Juri

Nel ripercorrere i giorni della guerra in Slovenia offriamo ai nostri lettori il ricordo tracciato da Franco Juri in “Ritorno a Las Hurdes. Guerre, amori, cicogne nere e istriani lontani”, in cui si chiede se questa sia davvero la guerra.

Non so se questa sia la guerra. Un aereo dell’Armata ha appena sorvolato la città, ma più che un’azione di guerra o di semplice ricognizione, mi ha ricordato i sorvoli pubblicitari a bassa quota che entusiasmavano noi bambini del “giardinetto”, pronti alla sfida di raccogliere il maggior numero di volantini colorati lanciati dal pilota.

GRANDE TOMBOLA! Partecipate e vincete una Zastava 750 e tanti altri ricchi premi. Domenica alle ore 16,00 presso il cinema estivo. Suoneranno i Kamaleoni e i Pickups. Non mancate!

La differenza questa volta stava nel testo:

Cittadini, il Consiglio esecutivo della Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia, ha ordinato all’Armata Popolare e alla polizia federale di assumere e mantenere, fino a nuovo ordine, il controllo dei valichi di frontiera internazionali per salvaguardare l’unità del Paese e la costituzionalità. Ci rivolgiamo a tutti voi affinché le autorità legali e legittime possano espletare i propri compiti senza alcun ostacolo. Rimanete tranquilli nelle vostre case o ai posti di lavoro. Ogni tentativo d’impedire quanto stabilito dalle autorità dello Stato verrà neutralizzato e severamente punito.


C’è molta quiete in giro, malgrado i volantini, la gente non affolla le vie del centro e nemmeno i negozi sono stati presi d’assalto come si immagina avvenga all’annuncio di un’imminente catastrofe o di un conflitto bellico. Il silenzio è surreale, ma i pochi conoscenti, che incontro per strada e alla Loggia, sembrano tranquilli. Lo sembrano. È la quiete prima della tempesta? I giornalisti e gli operatori tv hanno un bel da fare: corrono su e giù, da un valico all’altro a
documentare la fluida situazione che si va creando con l’arrivo dei soldati, dei blindati e dei poliziotti federali trasportati da alcuni elicotteri. Passano le ore, si negozia nervosamente, si gesticola, cadono pesanti minacce. Al valico di Scoffie c’è un sottotenente zelante e minaccioso con l’elmo in testa, dall’alto del suo storico ruolo e della torretta del suo blindato: sta caricando una mitragliatrice mentre spiega a giornalisti e poliziotti sloveni che alla minima reazione i suoi
lanceranno i razzi puntati dalle alture circostanti sul porto e sui suoi serbatoi pieni di petrolio e altre pericolose “chemicaglie”. È normale? Sarebbe una catastrofe ecologica. Bluffa? Non si sa.
I civili del paese si radunano attorno alle autoblindo e gridano ai soldati di andarsene. «Questa è Slovenia, è casa nostra! Siete occupatori, andatevene a casa vostra!».

Lauro è tra i negoziatori. Nella sua funzione di primo cittadino cerca di abbassare i toni e di evitare un bagno di sangue, un vortice di violenza che spazzi via la sua città. Si susseguono le telefonate: Lubiana, Capodistria, Fiume, Ilirska Bistrica, Pola, il comando di polizia, quello della difesa territoriale.
Gli ordini sono frammentari e confusi: trattare, non cedere, negoziare, non arrendersi, reagire, circondare, assediare, mantenere il valico, ritirarsi… Ma chi comanda lassù? Passa la seconda notte d’incertezza. Qualcuno sparge la notizia che alcuni incrociatori della marina militare partiti da Pola puntano su Capodistria. Un attacco dal mare? L’ammiraglio Pogačnik, al comando della flotta ancorata a Pola, smentisce. Lui – sloveno – la flotta la mantiene ancorata.
I generali Kolšek e Čad, sloveni anche loro, non vogliono tradire l’esercito cui hanno giurato fedeltà, ma – nonostante la pressione del generale Hadžić – prendono tempo, eseguono male, dilazionano i tempi, impartiscono ordini svogliatamente, trattano con il nemico, temporeggiano, tergiversano, prendono le strade più lunghe e fanno di tutto per evitare il peggio. La televisione e la radio informano di primi scontri gravi nel nord-est del Paese e anche non lontano da Lubiana. Alcune colonne di cingolati sono state fermate da barricate erette dalla popolazione e si è sparato. Ci sono stati i primi morti. Aerei militari sorvolano il territorio. Il ministro dell’Informazione sloveno – che i giornalisti di tutto il mondo arrivati a Lubiana per seguire la prima guerra di secessione jugoslava in diretta chiamano con palese ironia “ministro della Verità” – va in giro con la pistola nel fodero bene in vista e parla chiaro, con voce maschia e oggi nei combattimenti ci sono stati oltre cento morti». La notizia – falsa o comunque esagerata – piomba sulle prime pagine del mondo. La carneficina balcanica ha avuto inizio. L’Europa, divisa e ambigua, ha le mani bagnate di freddo sudore, l’America, che fino al giorno prima aveva appoggiato l’unità del Paese, garantita solo in teoria dal riformista e federalista Ante Marković – lo stesso che ha maldestramente ordinato all’esercito di assumere il controllo dei confini con l’Italia, l’Austria e l’Ungheria – ammutolisce e attende l’evolversi della situazione.
I cento morti per fortuna non ci sono, ma a Lubiana un elicottero pieno di pane è stato abbattuto – sembra “per errore” – dalla contraerea slovena, e gli aerei jugoslavi hanno mitragliato dei Tir che bloccavano la strada falciando alcuni camionisti turchi e bulgari. Un reporter austriaco è stato ucciso all’aeroporto di Brnik. Le atroci immagini di rottami in fiamme e corpi dilaniati e carbonizzati sull’asfalto fanno in pochi secondi il giro del mondo. Sono inconfondibili immagini di una guerra. Carmen, a Valencia, piange. Le foto che arrivano da
Lubiana mostrano anche due ministri – della Difesa e dell’Interno – armati e in uniforme da combattimento. Guardateli, come sono affascinanti, belli e spavaldi, persino erotici in quelle vesti da eroi! Sembrano attori di un film. Commandos. Si spostano velocemente, con passo felino, da un bunker all’altro. (…)
L’esercito jugoslavo in Slovenia non è preparato a una guerra di resistenza popolare, è un mastodonte vulnerabile, molto vulnerabile nelle sue caserme-trappola e nella pessima organizzazione dei giovani militari di leva di diverse etnie: albanesi, bosniaci, serbi, croati, sloveni. Ed è demoralizzato. Dalle truppe che vagano, come masse di sbandati, agli ordini di ufficiali esasperati, che ancora sperano di incutere rispetto e timore e di salvare “l’unità costituzionale” del Paese.

«Ma chi ce lo fa fare? Contro chi dovremmo mai combattere? Non è una
guerra nostra, questa! Ci hanno detto che andavamo a difendere il nostro Paese
da un attacco italo-austriaco, ma non abbiamo visto un solo italiano, né un
solo austriaco. Invece c’erano dappertutto tanti, tantissimi sloveni arrabbiati,
uomini e donne, giovani e anziani, offesi, indignati, ostili che ci chiudevano le
strade e in alcuni casi ci sparavano addosso».
(…)
«Cosa succede, Cesco? Le notizie sono confuse: ora allarmanti, ora tranquillizzanti.
Cacciabombardieri Mig che decollano da Varaždin, ma poi rientrano senza sganciare i propri carichi di morte, scontri per il controllo dei valichi. Si è sparato forte anche a Nova Gorica, a Rožna Dolina. Hai visto in tv quel carro armato in fiamme? Quei soldati insanguinati a terra e quei civili che sparavano? Che follia! Quanti saranno ormai i morti? Si parla di centinaia di vittime, ma nessuno sa con esattezza quali siano le reali conseguenze di questa pazzia collettiva. Perché tanto odio? E poi, hai sentito quel generale di Belgrado? Una figura inquietante, il generale Hadžić. Ha minacciato di bombardare Lubiana se gli attacchi della territoriale alle caserme dell’Armata fossero continuati. Pensi, Cesco, che ci possano veramente bombardare?»
«No, Tanja, non ti preoccupare, non lo faranno. Hadžić sta giocando duro e d’azzardo, ma le sue carte non gli offrono forti garanzie. Ha pochi assi e pochi jolly ormai. Bombardare Lubiana sarebbe quasi dichiarare guerra alla Nato che ha lasciato intendere a Belgrado più di quanto possiamo immaginare. E poi tra i piloti e gli alti ufficiali ci sono molti sloveni e croati che gli ordini li intendono e li eseguono dilatando i tempi o persino impedendo ogni azione offensiva
seria. E ho la sensazione che Milošević, il vero detentore del potere in Jugoslavia, sia…come dire…distratto e mostri poco interesse per la Slovenia. L’hanno capito anche i generali serbi, per fortuna, e l’esercito federale qui è ormai allo sbando. Un esercito senza testa. Comunque oggi cercherò di raggiungerti. La polizia è venuta ad avvisarmi che questa notte ci sarà una seduta straordinaria della Skupščina, l’Assemblea repubblicana. Il luogo della riunione è segreto e dovrebbero accompagnarci loro, i poliziotti, o i teritorialci , in modo da ovviare a ogni ostacolo. Non vedo l’ora di riabbracciarti!»
«Mi raccomando, Cesco, fa’ attenzione! Qui circolano voci terribili su bande di cetnici che sarebbero arrivate dalla Serbia per dare man forte ai soldati e su cecchini appostati chissà dove che sparano alle automobili e alla gente. Sembra ci sia stata questa mattina una sparatoria anche in città. Il ministro ha parlato di uno sniper abbattuto dalla difesa territoriale».
«Sta’ tranquilla, Tanja, è solo propaganda, guerra psicologica. E poi ci tengono a che un deputato arrivi sano e salvo all’Assemblea. Vedrai: mi sapranno proteggere».
Alle dieci di sera, presso la capitaneria di porto, il maggiore della riserva Žnidaršič, un omaccione che in civile sarebbe risultato persino simpatico e gioviale, salutò Cesco cordialmente ma con fare spedito e risoluto e senza troppi convenevoli gli offrì un elmo, un giubbotto anti-proiettile e un kalašnikov con due caricatori.
«Ha fatto il militare? Prenda, non si sa mai quali incontri si possano fare durante il tragitto!»
«No, grazie, preferisco non dare nell’occhio. Vi seguirò a debita distanza».
«Già, già, capisco…La nostra pattuglia la accompagnerà fino a Postumia, dove siamo diretti su ordine del comando, poi però dovrà continuare da solo. Penso non ci dovrebbero essere grossi problemi. A Lubiana si rivolga alla prima pattuglia di polizia che incontra. La accompagneranno nel luogo segreto della seduta».
Giunti al primo posto di blocco con tanto di barricata anti-carro nei pressi di Črni Kal, da dove non si poteva più proseguire per strada, i territoriali di sentinella avvisarono la pattuglia, seguita dalla Fiat Uno, che nei pressi di Kozina erano stati avvistati due camion non identificati che procedevano senza luci e che avrebbe potuto trattarsi di una pericolosa banda di irregolari. Forse i famosi cetnici venuti a dare man forte all’esercito federale. Il maggiore mi fece allora cenno di seguire il loro fuoristrada lungo un sentiero accidentato ma comunque percorribile, una scorciatoia segreta, che ci avrebbe portati praticamente fino oltre Kozina. Il sentiero sopra il ciglione s’infilava nella boscaglia dell’altipiano carsico.
Percorremmo circa due chilometri, deviammo per alcuni sentieri secondari.
Prima a destra, poi a sinistra e poi ancora a destra. Un cinghiale ci tagliò la strada e andò a sbattere sul fuoristrada, poi fuggì grugnendo per lo spavento. Ci fermammo, quindi ritornammo indietro per circa 400 metri lungo la pista già percorsa. Imboccammo una stradina cieca che finiva in una specie di letamaio o di discarica abusiva. Poi in retromarcia recuperammo il punto di partenza sul sentiero precedente che però mi sembrò diverso da quello che avevamo già percorso. Naturalmente attribuivo quelle strane manovre a zig-zag in mezzo al bosco sull’altopiano a una qualche ben congegnata tattica di depistaggio. I cetnici, provenienti dalla Serbia o dalla Krajina, non potevano certo conoscere quel terreno; la nostra pattuglia, invece, sì, come le proprie tasche. A un certo punto il fuoristrada dei territoriali si fermò nuovamente e sentii imprecare il maggiore, che nella foga stava facendo uso di succulente maledizioni in serbo.
Mi sembrava di sentire nuovamente il capitano Ostojić e un po’ anche il cinghiale infortunato in fuga. La manovra di depistaggio era riuscita: ci eravamo auto-depistati, cioè persi.
Il maggiore scese dal fuoristrada e, visibilmente imbarazzato, mi chiese se per caso avessi in macchina una specialka, una mappa dettagliata dei luoghi, visto che loro, evidentemente, l’avevano dimenticata a Capodistria. Per fortuna disponevo di una cartina con scala 1:50, abbastanza dettagliata per capire che direzione imboccare per raggiungere la strada bianca che ci avrebbe portati a destinazione. In qualche modo ci orientammo, incontrammo di nuovo il cinghiale evidentemente stordito e ormai indifferente e dopo circa un’ora e mezza riuscimmo persino a raggiungere l’asfalto presso Kozina.

La notte era sprofondata in un silenzio surreale. Percorremmo il tratto tra Kozina e l’inizio dell’autostrada lentamente e a fari spenti. Il casello dell’autostrada a Senožeče era completamente vuoto, abbandonato e con le luci spente. Le sbarre erano alzate. C’infilammo nelle quattro corsie d’asfalto con l’unica magra soddisfazione di essere i soli a percorrerle, in quella notte, e di farlo senza dover pagare alcun pedaggio. Un’autostrada senza luci e senza traffico. La luna, in cambio, era piena. Una strana sensazione di quiete e persino di piacere si stava impossessando di me mentre mi appropriavo di quel paesaggio surreale che la luna colorava di tenui indizi e d’ombre indecise. Una sensazione che crebbe quando il fuoristrada dei territoriali mi salutò per deviare verso Postumia. Ero solo: io nell’auto ascoltando l’Avvelenata di Francesco Guccini e riflettendo su quel particolare momento, quella pace notturna che forse avrei desiderato non finisse più.