26
giugno 1991 –
Si accende la “Guerra dei dieci giorni”. La Jna decide d’intervenire in
Slovenia per preservare l’unità nazionale, di cui è depositaria. Alle 7,20, con
un telegramma del generale sloveno Kolšek, lo Stato maggiore jugoslavo lancia
l’Operazione Baluardo per restaurare l’ordine e riprendere il controllo
dei posti di frontiera con Austria e Italia. L’Armata popolare o Armata
federale rappresenta una specie di settima repubblica, il 96% degli ufficiali
aderisce alla Lega dei comunisti, status necessario per ambire al grado
superiore a quello di tenente. Alcune unità lasciano le caserme di Fiume per
dirigersi verso il confine sloveno-italiano. I vertici dell’Armata mobilitano
truppe e carri armati anche da Karlovac e da altre zone della Croazia, nella
convinzione che una guerra-lampo possa risolvere la questione. Molti ufficiali
sloveni si rifiutano di eseguire gli ordini impartiti da Belgrado e sono
destituiti. I movimenti di mezzi provocano una forte reazione degli sloveni,
che organizzano barricate e dimostrazioni contro le azioni della Jna. Non ci
sono combattimenti, sembra che entrambe le parti adottino la politica di non
essere i primi ad aprire il fuoco.
Il governo federale da Belgrado
denuncia l’azione illegale delle repubbliche secessioniste e che non avrà
nessun seguito perché la Jna assicurerà le frontiere interne ed esterne del
Paese. Il governo sloveno mette in atto il piano per assumere il controllo
delle dogane e prendere l’aeroporto internazionale di Brnik.
Il personale ai posti di confine è già composto nella maggior parte dei casi da
sloveni e l’occupazione è molto semplice, risolvendosi in un cambio di uniformi
e di cartelli.
Mentre tutta l’attenzione
è puntata sulla Slovenia, četnici serbi attaccano la stazione di polizia
di Glina, nella Banjia croata, a sud di Zagabria. Prima che i croati possano
abbozzare un contrattacco si muovono da Petrinja i carri armati federali e
creano un cuscinetto attorno a Glina col pretesto di prevenire nuovi scontri.
Una bandiera bianco-rossa croata continua a sventolare sul commissariato,
quella bandiera per i serbi è un simbolo ustaša. L’odio dei serbi in
quella zona è forte, a Glina, durante la seconda guerra mondiale vi è stato il
massacro di centinaia di serbi prima convertiti a forza, poi sgozzati sul
sagrato della chiesa dagli ustaša: la carneficina deve essere vendicata,
anche se sono passati cinquant’anni.
27
giugno 1991 – Una colonna di blindati federali esce
dalla caserma di Vrhnica, 15 chilometri da Lubiana, dirigendosi verso
l’aeroporto di Brnik. Unità della Jna lasciano Maribor dirette verso il vicino
posto di confine di Šentilj e la città di Dravograd. Il comando della V Regione
militare è in contatto telefonico con il presidente sloveno Kučan, informandolo
che la missione delle truppe è limitata a occupare i posti di dogana e
l’aeroporto. In una riunione di emergenza della presidenza slovena, Kučan e il
resto dei membri optano per la resistenza armata. Iniziano gli scontri tra
l’Armata popolare e la Difesa territoriale slovena, la Teritorialna obramba (To),
erede dell’esercito parallelo voluto da Tito dopo l’invasione sovietica di
Praga. A Lubiana entra in vigore il coprifuoco. È battaglia all’aeroporto di
Brnik, nei pressi di Lubiana, dove si registra l’abbattimento di due elicotteri
federali. Uno dei piloti morti è sloveno.
Nella cittadina di Trzin,
non lontano dalla neo-capitale, si scatena una battaglia, nel corso della quale
quattro soldati della Jna e uno della To rimangono uccisi; l’unità federale è
costretta ad arrendersi.
Seguendo l’ordine di
mantenere l’integrità dello Stato jugoslavo, soldati federali occupano i
valichi di confine. A Maribor, i carri armati federali intervengono per
rimuovere gli improvvisati blocchi stradali nel centro della città.
L’aviazione jugoslava
effettua un lancio di volantini con messaggi interlocutori: “Vi invitiamo
alla pace e alla cooperazione – Ogni resistenza sarà schiacciata”. La Teritorialna
obramba slovena pone sotto assedio varie alle caserme della Jna.
Attacchi contro carri
armati federali vicino Maribor, a Ormož e nei pressi di Ilirska Bistrica.
Nonostante la confusione e i combattimenti, la Jna riesce a completare la
propria missione: verso mezzanotte assume il controllo di quasi tutte le
dogane. Si avvicina un altro Vivodan, un giorno sempre importante nella
storia dei popoli slavi.
28
giugno 1991 –
Nella notte è ordinato alle truppe della To slovena d’intraprendere
un’offensiva contro la Jna. Il ministro della Difesa sloveno ordina: “In
tutti i posti in cui le forze armate della Repubblica di Slovenia hanno il
vantaggio tattico, verranno intraprese azioni offensive contro le unità e le
strutture nemiche. Al nemico verrà chiesta la resa, verrà data la scadenza più
breve possibile per la resa e intrapresa l’azione offensiva con tutto
l’arsenale disponibile. Durante le azioni sarà organizzata l’evacuazione e la
protezione dei civili”.
Le colonne jugoslave sono bloccate
da improvvisate barricate di camion a Strihovec, vicino al confine con
l’Austria, e colpite dai membri della Teritorialna e della polizia
slovena.
L’aviazione federale attua due
incursioni in aiuto delle forze bloccate a Strihovec, uccidendo quattro
camionisti. A Medvedjek, Slovenia centrale, una colonna jugoslava si ritrova
sotto attacco e i raid dell’aviazione federale uccidono sei camionisti.
Sparatorie ai valichi italo-jugoslavi. A Fernetti si spara, come al valico
della Casa Rossa-Rožna Dolina di Gorizia, teatro di una brillante operazione
della To che attacca i soldati federali, distruggendo due carri T–55. Il
bilancio per la Jna è pesante: quattro militari caduti, 16 feriti e 98
prigionieri; tra gli attaccanti nessuna perdita. Gli sloveni s’impadroniscono
di tre carri armati, vari automezzi e molte armi. Due MiG sorvolano
Trieste e mitragliano il valico di Skofije. L’aviazione federale attacca
l’aeroporto di Brnik, quattro aerei di linea della Adria Airways, la
neonata compagnia di bandiera slovena, sono gravemente danneggiati. Attacchi
aerei al quartier generale sloveno, ai trasmettitori radio-televisivi per
impedire le trasmissioni del governo sloveno al valico con l’Austria di
Ljubelj, dove sono uccisi ignari autisti di tir in attesa. Il posto di
confine di Holmec è catturato dalle forze slovene, con due morti sloveni e uno
della Jna, 91 soldati jugoslavi catturati. Un deposito di armi federale cade in
mani slovene, aumentando significativamente la disponibilità di armi delle
forze slovene.
Primi morti tra gli inviati. Due
fotografi austriaci, Norbert Werner e Nikola Vogel, riescono a introdursi con
la loro jeep nel recinto dello scalo di Brnik, l’aeroporto di Lubiana,
occupato dagli uomini dell’aeronautica jugoslava, ma accerchiato dai militari
della Difesa territoriale. Trovano la morte spazzati via da un missile, non si
saprà mai se sparato dagli sloveni o dai federali.
Sono i primi caduti
dell’informazione in una guerra che vedrà morire molti altri giornalisti.
Alla fine della giornata la Jna
tiene molte delle proprie posizioni, ma sta perdendo rapidamente terreno. La
flessibilità e il pragmatismo degli sloveni la mettono in seria difficoltà,
psicologicamente impreparata, priva di artiglieria e per l’eccesso di fiducia
dei suoi vertici, che non hanno previsto un servizio logistico, consegnando ai
soldati razioni solo per un giorno. Molti soldati federali sono impreparati a
una guerra quasi di guerriglia, senza appoggio da parte della popolazione.
Aumentano i casi di diserzione, centinaia di membri sloveni della Jna
abbandonano le proprie unità o cambiano fronte. I generali della Jna
sottovalutano la presenza a Lubiana di oltre 300 giornalisti stranieri e di
molte troupe televisive, che documentano quanto accade.
Intanto a Bosansko Grahovo, in
Bosnia, non lontano da Knin, si riuniscono i rappresentanti serbi delle
comunità di Bosnia e Croazia per decidere l’unificazione delle varie entità.
29
giugno 1991 –
Significativo attacco delle forze slovene a Vrtojba-Sant’Andrea, importante
valico alla periferia di Gorizia, dove il distaccamento della Jna è forte di
138 soldati e nove carri T–55. Trattative preventive per evitare perdite
portano alla resa dei federali senza che sia sparato un solo colpo. Oltre ai
carri, la To acquisisce forti quantitativi di munizioni e di armamenti. Altri
morti a Rabuiese, il valico confinario da Trieste verso l’Istria, dove un
blindato della Jna tenta di forzare il blocco attorno al posto di confine, gli
sloveni reagiscono e restano uccisi un tenente e due soldati jugoslavi.
In Slavonia, con un tentativo dei četnici
di occupare Osijek e Vinkovci, iniziano le ostilità. Respinti i serbi dai
difensori croati, le truppe federali aprono il fuoco sulla città dalle caserme
di Osijek.
A Belgrado è rinviata la riunione
della presidenza collegiale che, secondo gli accordi con la Cee, deve eleggere
il croato Mesić, rimasto solo apparentemente un convinto jugoslavista. In
serata, all’insaputa del governo federale, arriva l’ultimatum alla Slovenia da
parte del generale Negovanović dello Stato maggiore dell’esercito: “Se
l’ultimatum verrà ignorato, le forze armate metteranno in stato d’allerta tutte
le loro unità”. L’esercito federale intima alla Slovenia di porre fine a
ogni azione ostile contro le truppe di Belgrado, altrimenti scatterà contro la
repubblica ribelle un’azione militare decisiva. L’ultimatum, pronunciato alla
tv jugoslava, è l’ultimo avvertimento.
Congedato il comandante
dell’aviazione federale Anton Tus, sostituito da un altro croato, Jurjević.
La troika della Cee, i
ministri degli Esteri di Lussemburgo, Paesi Bassi e Italia, si reca in
Jugoslavia, tentando di convincere i popoli della Federazione a costruire
insieme la democrazia nel rispetto dei diritti civili. È la notte dei tentativi
di pace, ma nessuno vuole cedere. La necessità di restare uniti è sostenuta
specialmente dal ministro italiano De Michelis nel corso dei numerosi viaggi a
Lubiana e Zagabria.
30
giugno 1991–
In tv riaffiorano gli schemi della seconda guerra mondiale: i serbi accusano
gli sloveni di fascismo, gli sloveni replicano, accusando la Jna d’essere un
occupante come lo erano i nazisti. Le forze slovene occupano il tunnel
strategico di Karawanken, al confine con l’Austria. L’intera guarnigione della
Jna di stanza a Dravograd, nella Slovenia settentrionale, 16 ufficiali e 400
uomini, si arrende, come le guarnigioni di Tolmino e Plezzo. Le armi catturate
sono subito redistribuite alle forze slovene. Il ministro della Difesa
federale, generale Kadijević, mette il vertice della Narodna armija davanti al bivio: o ritiro dalla
Slovenia oppure occupazione dura. Allarme aereo a Lubiana, i MiG sorvolano
tutta la Croazia e la Slovenia, ma non accade nulla di
rilevante. Il premier Marković va a Lubiana, forse si apre uno spiraglio
di pace.
1°
luglio –
Un carico di munizioni della Jna a Črni Vrh–Montenero d’Idria è distrutto da
un’esplosione, danneggiando parte del paese. Una colonna della Jna si ritira
dalla posizione troppo esposta di Medvedjek e si dirige vicino al confine
croato. Incappa in un blocco vicino a Krško ed è circondata, ma rifiuta di
arrendersi, probabilmente sperando nell’aiuto di una colonna di soccorso.
Il ministro della Difesa Kadijević
informa il governo federale che il piano della Jna, un’operazione limitata a
controllare i punti di confine della Slovenia, è fallito. È il momento di mettere
in atto il “piano B”: un’invasione su ampia scala, la proclamazione della legge
marziale e l’arresto di tutti i dirigenti sloveni. Jović pone il veto al “piano
B”, affermando: “Mi è chiaro che la Slovenia se ne va ed è inutile
scatenare una guerra. Ci resta una sola cosa da fare, difendere i territori
abitati dai serbi di Croazia, che vogliono restare in Jugoslavia”.
Il capo di Stato maggiore della Jna,
generale Adžić, è furioso e dichiara: “Gli organi federali ci ostacolano di
continuo, richiedendo dei negoziati mentre gli sloveni ci stanno attaccando con
tutti i mezzi”. L’esercito registra defezioni a migliaia, ognuno rientra
nelle rispettive repubbliche, la Narodna armija sembra allo sbando,
sconfitta sul suo campo fondante: la multietnicità.
Grazie alla mediazione della trojka
Cee, il croato Mesić diventa presidente della Federazione jugoslava. La Jna
dovrebbe rientrare nelle caserme, i prigionieri rilasciati, le frontiere
riaperte, ma nessuno si fida dell’altro.
Appello del Gruppo di donne di Belgrado contro la guerra in
Slovenia: chiedono che l’esercito federale si ritiri immediatamente e i soldati
tornino a casa. Genitori, per la maggior parte madri, dei soldati di leva
dell’Armata federale invadono il parlamento a Belgrado per protesta contro la
mobilitazione dei figli, contro una guerra fratricida e per il ritorno dei
loro figli che prestano servizio in Slovenia.
2 luglio – Un giorno disastroso per la Jna. La colonna di carri armati,
inviata per liberare il reparto bloccato vicino a Krško, si ritrova sotto
attacco di unità slovene, che la costringono alla resa. La Teritorialna slovena
attacca con successo le varie dogane, facendo prigionieri un buon numero di
soldati federali. Duri combattimenti a Fernetti, il più importante valico tra
Italia e Slovenia: non ci sono vittime. Negli scontri tra To slovena e Jna sono
coinvolti camionisti stranieri di passaggio.
Un MiG supera il muro del suono sulla verticale di Lubiana,
la contraerea spara. In realtà non vi è nessun attacco, ma i giornali di tutto
il mondo titolano Allarme aereo a Lubiana: esempio di simulazione di
guerra a fini mediatici. Altri carri armati entrano in Slovenia, provenendo
dalla Croazia. Prove di forza dei carri federali all’uscita dalle caserme
croate.
Alle 21,00, il presidente sloveno annuncia un cessate-il-fuoco
unilaterale, respinto dal comando della Jna, che giura di “riprendere il
controllo” e di “abbattere la resistenza” slovena. La Jna non
accetta la sconfitta sul campo. Il generale Adžić, serbo, un “falco”, tenta un
colpo di coda e, scavalcando il Presidium, dichiara: “L’Armata federale si
ritiene in stato di guerra”, accusando di alto tradimento i dirigenti
sloveni, meritevoli di una punizione: “Staneremo dai loro nascondigli quelli
che spingono la Slovenia contro la Jugoslavia”. Lo sloveno Kolšek è
destituito per “incapacità”. I soldati federali in partenza per la
Slovenia sono salutati con giubilo dalla popolazione serba, le donne offrono
acqua, le ragazze mandano baci. Solo l’arrivo di osservatori internazionali
potrebbe garantire una tregua.
3 luglio – Un grosso convoglio della Jna si mette in marcia da Belgrado,
apparentemente verso la Slovenia. Non vi arrivò mai, secondo fonti ufficiali a
causa di problemi meccanici. I combattimenti continuano in Slovenia, mentre una
forza di soccorso della Jna, diretta al punto di confine con l’Austria di
Gornja Radgona, è bloccata vicino a Radenci. In serata la Jna si accorda per
un vero cessate-il-fuoco e il ritiro verso le proprie caserme. Il generale
Adžić in un proclama televisivo tuona contro i nemici della Jugoslavia, contro
i traditori che sono nelle stesse “nostre fila”, contro chi “non
capisce che siamo in guerra con gente che odia la Jugoslavia, mentre noi la
amiamo” e ribadisce che intende dare un colpo decisivo alla Milizia
territoriale slovena.
Respinta dall’Armata federale la mediazione di Mesić, che è anche
capo delle forze armate. È in corso un vero e proprio braccio di ferro col
capo di Stato maggiore Adžić, che fa affluire verso la Slovenia nuove truppe e
altri tank: in tutto sono mobilitati 500 carri armati sui circa 2.000 in
possesso della Jna, ma la maggior parte rimane in Croazia e Bosnia. Una colonna
di carri, uscendo dalla caserma Tito di Zagabria, travolge manifestanti
croati, provocando alcuni morti. A Osijek, in Slavonia, i tank schiacciano
decine di auto nelle vie del centro, dimostrando una brutalità gratuita che
suscita forti proteste.
L’incertezza regna sovrana con notizie confuse e contraddittorie.
Il generale Adžić rincara le minacce, accusando gli sloveni di essere “ipocriti
e senza scrupoli” e di avvalersi della complicità dell’Austria per il
controllo delle frontiere, ma ormai è più patetico che minaccioso, tanto che
l’Armata federale in serata fa rientrare parte dei cingolati. La tregua regge a
partire dalle 21,00.
I rappresentanti vaticani presso la Csce dichiarano, a proposito
dell’unità della Jugoslavia, che tale unità dipende dall’adesione a valori
comuni, mentre va esclusa un’unità che non fosse altro che il risultato
dell’azione delle forze armate: “Non è possibile e non si devono pertanto
soffocare i diritti e le legittime aspirazioni dei popoli”.
4 luglio – Con il cessate-il-fuoco in atto, i due fronti si disimpegnano. Le
forze slovene prendono il controllo di tutti i posti di dogana ed è permesso
alle unità della Jna di ritirarsi nelle proprie caserme o ripassare il confine
con la Croazia. La presidenza federale ordina il ritorno alla normalità con la
liberazione dei prigionieri, la smobilitazione delle milizie armate, la normalizzazione
delle comunicazioni, secondo la mediazione della troika della Cee.
Disposizioni difficilmente applicabili in tempi brevi.
Missione delle “madri coraggio” da Belgrado a Lubiana per soccorrere
le reclute assediate nelle caserme in territorio sloveno. In realtà si tratta
di una manovra diversiva della Jna per uscire dall’isolamento, per mascherare
le umiliazioni, ma giova anche alla Slovenia per raffreddare la situazione. Il
vice-presidente del parlamento serbo Obrodović, che accompagna i genitori,
davanti al divieto imposto dagli ufficiali all’incontro con le reclute,
afferma: “Le madri non sono qui per fare politica, ma per vedere i figli”,
sbloccando la situazione.
Un giornalista francese parla dell’esistenza di un “piano Bedem
‘91” strettamente confidenziale mirato contro i “nemici interni” delle
repubbliche secessioniste, ma anche contro un eventuale intervento Nato a
sostegno di Slovenia e Croazia, legato a vecchi piani segreti dell’epoca di
Tito.
5
luglio –
I ministri degli Esteri dei dodici Paesi della Comunità europea si riuniscono a
L’Aja, dove emergono le prime divergenze. Germania, Belgio e Danimarca
propongono il riconoscimento di Croazia e Slovenia; gli altri, in particolare
la Francia, sono contrari. La decisione comune prevede il congelamento del
sostanzioso aiuto finanziario che la Cee aveva promesso alla Jugoslavia e
l’imposizione di un embargo sull’importazione di armi, letto da più parti come
un tentativo di favorire l’Armata federale. Alla tv di Belgrado appare un
delirante Šešelj: “Sgozzare i croati non con il coltello, ma col cucchiaio
arrugginito…”. Reazioni sdegnate degli intellettuali serbi riuniti nel
Circolo di Belgrado. Gli sloveni consegnano alla Croce rossa 2.400 prigionieri,
ma montano “cavalli di frisia” anticarro lungo le vie di accesso alle caserme
della Jna.
6
luglio –
Fine delle operazioni militari in Slovenia. Sono stati “dieci giorni di
guerra”.
19 luglio –
Ufficializzato il ritiro dell’Armata federale dal territorio sloveno. Secondo
dati diffusi dal governo di Lubiana, la “Guerra dei dieci giorni” ha provocato la morte di 74 soldati e di 280
feriti. Dei 25.000 soldati federali di stanza in Slovenia, quasi 8.000
disertarono. Nonostante il buco di bilancio provocato dai danni, il governo di
Lubiana si preoccupa di rifocillare i soldati federali rimasti isolati,
fornirli di biglietto ferroviario e rispedirli a casa. A Zagabria arrivano 45
osservatori della Cee.