Il
conflitto tra Croazia e Serbia costò la vita a ventimila persone, oltre ad aver
ingenerato violenze e disumanità d’ogni sorta.
La
sentenza del 2 febbraio della Corte dell’Aja è la fotocopia, ma moltiplicata
per due, di quella emessa il 26
febbraio 2007 ancora dai quindici giudici della Corte di giustizia
internazionale dell’Aja, a quel tempo presieduti dal giudice britannico Rosalyn
Higgins (tra l’altro, membro della Corte dal 12 luglio 1995, il giorno in cui
si consumò la pagina peggiore del genocidio di Srebrenica). Quel giorno la
signora Higgins spiegò freddamente al mondo e ai parenti delle vittime di
Srebrenica che, con tredici voti favorevoli e due contrari, la Corte aveva
stabilito che la Serbia non aveva responsabilità per il genocidio di
Srebrenica. Certo, la Corte riconosceva che nell’enclave era stato perpetrato un genocidio, ma sosteneva poi non
esservi le prove che lo Stato serbo o parti di esso avessero la deliberata
intenzione di «distruggere in tutto o in parte» la popolazione bosniaca musulmana.
Al contempo, precisava la Corte, se la Serbia di Milošević aveva una
responsabilità, è stata quella di non aver fatto tutto il possibile per
prevenire il genocidio.
Otto anni dopo, ancora febbraio. A
presiedere i quindici giudici internazionali all’Aja stavolta, febbraio 2015, è
il magistrato e diplomatico slovacco Peter Tomka. Altra Corte, altro
presidente, altri ricorrenti, ma identica sentenza: né la Serbia né la Croazia
si resero tra il 1991 e il 1995 direttamente
colpevoli di genocidio. La loro responsabilità è circoscritta, per la Corte, al
solo fatto di «non
averlo impedito».
Un verdetto vincolante e inappellabile, che chiude una controversia lunga tre
lustri senza soddisfare nessuno e senza dare quelle certezze a cui pure i
cittadini dei due Paesi – e in particolare i parenti delle tante vittime – avrebbero
diritto. Un verdetto, inoltre, che rende piuttosto incerto il futuro delle
relazioni tra due Paesi che, vent’anni dopo la fine del conflitto, ancora si
guardano in cagnesco e neppure hanno riallacciato le relazioni diplomatiche.
Quel che è ancora più incredibile è che i responsabili politici e morali della
mattanza di oltre ventimila persone, nel conflitto serbo-croato, rimangono
sconosciuti. Non riconoscere la colpevolezza dei governanti croati e serbi di
allora – non della Croazia e della Serbia di oggi – equivale quasi a negare che
quei ventimila morti vi siano stati. Il tutto perché, secondo la sentenza letta
da Tomka, le rispettive forze commisero sicuramente atrocità nei territori da
esse occupati, ma «solo
in alcuni degli episodi esaminati sono stati riscontrati gli estremi del
genocidio, non in tutti».
Inoltre, secondo la Corte, per poter formalizzare un’accusa di genocidio «è necessario il proposito
deliberato di eliminare un determinato gruppo etnico, sul piano fisico ovvero
psicologico».
Tutti sanno, nei Balcani, che questi propositi c’erano, tanto da una parte
quanto dall’altra, ma secondo la Corte internazionale, e secondo la sua
sentenza scritta impeccabilmente in punta di diritto, nessuna delle due parti è
stata in grado di fornire «prove sufficienti» per dimostrarlo.
La giustizia umana è davvero
fallibile e fallace, purtroppo. Resta quella divina, ma non ne leggeremo mai i
resoconti nelle pagine degli esteri dei giornali…