Un anno è già passato dalla
scomparsa di Angelo Lallo, l'amico scrittore dal grande cuore la cui ultima
fatica è stato lo splendido "Mala dies", che la famiglia presenterà
quest'oggi a Palazzolo della Stella, in provincia di Udine, per fare sì che il
lavoro di Angelo e la sua lotta per la chiusura degli ospedali psichiatrici
giudiziari (Opg) non vengano dimenticati. L'incontro si terrà presso il Centro Artistico Culturale ArtPort, in via
del traghetto 3, alle 18,30. Partecipano Lorenzo Toresini, Giovanna Del
Giudice e Marco Bertoli.Modera Viviana Zamarian, letture a cura di Rossana
Valier. Segue la proiezione del film "Lo stato della follia", la cui
regia è di un altro amico comune, l'ottimo regista Francesco Cordio.
Angelo ha dedicato la sua vita alla famiglia, al
lavoro duro, prima in fabbrica poi sui libri e a scuola, per i suoi ragazzi. Ha
scoperto già grande la sua passione per la ricerca storica e ha firmato alcuni
libri che sono e saranno pietre miliari della ricerca storica applicata alla
psichiatria. Ha firmato molti titoli, e per Infinito edizioni ha pubblicato due
capolavori che s'intitolano "Il sentiero dei tulipani" e "Mala dies".
Il
2015 è l’anno del ventennale del genocidio di Srebrenica e della fine della
guerra in Bosnia Erzegovina. Angelo, che ha dedicato buona parte della sua vita
di ricercatore a questo Paese balcanico che amava profondamente, avrebbe passato
quest’anno in giro per l’Italia a raccontare la guerra e la pace in Bosnia.
Ci
fa piacere ricordarlo, in questa giornata di sole ma di vuoto per la sua
assenza, regalando il primo capitolo de “Il sentiero dei tulipani”, il libro
che lo ha visto coniare un neologismo, psiconazionalismo, di cui si parlerà
molto in futuro.
Cattivi
e pessimi
Il delirio di K, fulminante e senza equivoci. Il suo
sogno – o la sua ossessione – era di riconvertire Sarajevo in un’immensa
istituzione totale. La terra della convivenza etnica e della tolleranza
religiosa doveva essere umiliata. Il suo folle progetto era disegnato in modo
da disperdere la secolare diversità che si respirava nella celebre porta
carovaniera dei Balcani, l’antico borgo di Saraj-ovasi. Il segnale che suonava
come punizione verso la città, in realtà diventava un monito indirizzato alle
terre balcaniche e K da tempo minacciava i bosniaci a non intraprendere la
stessa strada della Slovenia e della Croazia perché il prezzo da pagare era
l’annientamento, la sparizione dei musulmani di Bosnia.
Incurante dei moniti di K – un megalomane che da tempo
esternava folli dichiarazioni separatiste – il Parlamento bosniaco votò a
maggioranza in una drammatica seduta del 15 ottobre 1991 una dichiarazione
d’intenti che definiva “
Il massimo del pronunciamento democratico
del nascente Stato bosniaco aveva colpito il cuore gonfio di rancore di K. Nel
pomeriggio dello stesso giorno, a poche ore dalla votazione, migliaia di
miliziani dotati di artiglieria ad alta precisione si appostarono tra le
montagne che circondano Sarajevo con le armi rivolte verso “l’altra”
popolazione. Non c’era più scampo per gli abitanti della città. Sarajevo,
tenuta da quel momento in poi in ostaggio per 1.350 giorni nel più lungo
assedio della storia contemporanea, fu accuratamente gestita con le armi dai
miliziani cetnici con le regole ferree di un’istituzione totale.
La città era sotto il controllo dei
cecchini che sparavano sulla gente inerme, premiati con un pugno di marchi per
ogni sagoma vivente colpita. La regola d’ingaggio consisteva nello sparare alle
persone che correvano sullo Sniper Alley, l’arteria stradale principale di
Sarajevo. Non era un gioco da baraccone, ma una precisa strategia di terrore,
di punizione permanente, di vendetta. La selezione dei cecchini si basava su
dei parametri semplici: odiare visceralmente i musulmani e saper colpire un
barattolo con un fucile da almeno cento metri di distanza. In cambio del loro
odio i cecchini a fine giornata si sarebbero portati a casa un bel gruzzolo.
Alla selezione si presentarono in tanti e, con grande soddisfazione dei
selezionatori, si proposero anche donne stranamente più incattivite dei maschi.
L’ignobile reality show aveva lo
scopo di tenere sotto pressione la gente di Sarajevo, farla convivere con la
paura, devastare e sconvolgere la sua quotidianità. Nulla doveva essere come
prima. Portare a scuola i bambini, andare a fare la spesa, passeggiare, erano
fasi della vita da cancellare: strategia perfetta per incutere terrore, perché
non era semplice nascondersi dietro i tank
per andare a prendere l’acqua o calcolare sempre – metro per metro – le
angolazioni di sparo. Le regole d’ingaggio dei cecchini prevedevano di colpire
i luoghi pubblici, quelli più affollati. I tram e gli autobus diventarono
trappole mortali, e il terrore che si respirava su quei mezzi raggiungeva
momenti d’isteria pazzesca quando i proiettili arrivavano a segno: sangue
dappertutto, indistinto, la morte che colpiva così, a caso. E quando si voleva
centrare il bersaglio con ancora più precisione, senza possibilità di errore,
si spararono colpi di mortaio sulla gente che affollava le bancarelle, come al
mercato di via Vase Miškina.
Terribile e perverso disegno tracciato con la matita di architetti psicopatici
che hanno costruito con grande mestiere un muro di paura e di terrore.
K conosceva le regole della psicologia di
massa perché era uno psichiatra, medico in servizio attivo nella clinica
psichiatrica dell’ospedale Koševo di Sarajevo. Nelle riunioni settimanali
partecipava come tutti alle discussioni senza dare segnali di inquietudine, mai
un problema con qualche collega o con il primario. Non era particolarmente
brillante nella prassi quotidiana, era uno dei tanti mestieranti fortunati che
si era trovato al punto giusto, nel momento giusto. Forse era il suo doppio
quando prendeva parte alle feste di compleanno con tutti gli altri,
improvvisando, cantando, recitando. Ma nel suo cuore covava il rancore verso la
cricca culturale di Sarajevo che non lo accettava come “grande poeta
contemporaneo”, secondo la sua stessa definizione. Molti lo accusavano di
essere un doppiogiochista, al soldo dei servizi segreti, arricchito in poco
tempo forse – si diceva – con i soldi del contrabbando e della delazione. K non
lo poteva sopportare, non poteva accettare che quattro intellettuali con la
puzza sotto il naso stroncassero le sue poesie, addirittura eliminando il suo
nome dalle rose dei premi letterari di Sarajevo. Girava con ossessione tutti i
luoghi di aggregazione giovanile e quando scopriva qualche postaccio, non
convinceva neanche una persona ad ascoltare i suoi versi. Solo poche volte in
privato gli era sfuggito il suo vero pensiero, perché era convinto che dietro
all’accantonamento sociale ci fosse odio etnico, in qualche modo legato alla
sua provenienza montenegrina.
K decise di chiudere con il passato, e in
un giornata autunnale di inizio Anni ‘90 non si presentò al lavoro, nessuna
telefonata di rito, nessun avviso al primario o ai suoi colleghi, gli effetti
abbandonati in un armadietto della clinica psichiatrica. K era introvabile;
veniva segnalato in Serbia, in Montenegro o in Macedonia, invece era a Pale,
pieno di soldi accumulati con il contrabbando di benzina e alcol, a pochissima
distanza da Sarajevo, circondato dai miliziani, in attesa di dare una lezione a
chi non aveva creduto alle sue parole e al suo talento. La polizia internazionale
poteva arrestarlo come e quando voleva, ma il temporaggiamento – chissà, forse
contrattato – ha deciso i destini della comunità bosniaca. Quando K, ormai
presidente del Partito democratico serbo (Srpska
Demokratska Stranka – Sds) nelle
elezioni del dicembre 1990 ottenne 72 seggi, i suoi colleghi psichiatri
rimasero sbigottiti perché l’uomo non sapeva gestire neanche un reparto
ospedaliero, figurarsi manovrare un partito nazionalista. Grave
sottovalutazione, perché K aveva la copertura di Belgrado, che rimestava nel
sottobosco dei tecnici della mente, criminali comuni, faccendieri legati alla
mafia internazionale, disposti a tutto pur di arricchirsi.
K ricomparve sulla scena con il nome
esteso, Radovan Karadžić, firmando la prima granata sparata su Sarajevo dalle
colline verso la zona dove era ubicata la sede del suo lavoro, incurante di
amici e pazienti, svelando la vera natura di uomo fragile, rancoroso e
manipolato. La clinica psichiatrica, diventato il luogo di ricovero più
affollato della città, fu bombardata per più di trenta volte; stranamente
l’ospedale in quel periodo non aveva pazienti con manie di suicidio perché a
Sarajevo, singolarmente, la sindrome da suicidio era sparita.
Questo è il breve incipit dell’assedio di
Sarajevo, ultima tragedia del Novecento, ma i fatti di Bosnia sono avvenimenti
che molti tendono a definire come-se-fossero-veri
o semplicemente falsi. Il tentativo
di falsificare la realtà incontrovertibile utilizzando il mito, la storia
popolare, i mass media, pur di dimostrare che in Bosnia c’è stato un evento
indecifrabile o semplicemente uno scontro tribale tra popolazioni condannate
dal loro inconscio collettivo, è stata un’operazione multipla di depistaggio
nella ricerca delle responsabilità del conflitto. Di quella semplificazione
storica sono rimaste le macerie; la divisione artificiosa delle popolazioni
balcaniche tra “cattivi e pessimi” ha
creato un colpevole ritardo di definizione, difficilmente colmabile in un Paese
ferito e diviso. A tre lustri dalla fine del conflitto in Bosnia Erzegovina e
dai nefasti accordi di Dayton, il tempo si è fermato e il popolo bosniaco
attende ancora risposte che tardano a venire. Perché Sarajevo è stata
assediata? Per quale motivo l’Onu non è intervenuta a Srebrenica, lasciando
Ratko Mladić libero di giustiziare 10.701 musulmani bosniaci con un’operazione
in stile nazista, con le ruspe che scavavano le fosse comuni sotto gli occhi di
ragazzi e vecchi inermi, senza possibilità di difendersi? Perché a Dayton si è
calato il sipario allestendo uno Stato frammentato, ratificando in questo modo
la pulizia etnica e il sogno dei nazionalisti serbi, croati e islamici? Pur di
chiudere in fretta quella che per loro era un’inutile perdita di tempo e di
soldi, Usa e Paesi europei hanno accettato l’imposizione della divisione del
territorio concedendo poco più della metà alla Federacija Bosnia Erzegovina
croato-musulmana, svelando il poco interesse per i “miserabili” dei Balcani, e
hanno permesso la fondazione della Republika Srpska – nata sul genocidio – mettendo
sullo stesso piano aggrediti e aggressori. La differenza è nei numeri, in una
misera differenza territoriale del 2 per cento elargita a chi ha subito, tra
tante altre tragedie, il genocidio di Srebrenica e l’assedio di Sarajevo.
Cattivi
e pessimi
è un concetto frutto non solo di un’invenzione giornalistica, ma il motivo di
fondo delle agenzie politiche internazionali che hanno immesso in circuito
l’idea capziosa che in quelle terre tutti
sono colpevoli nella stessa maniera, non ci sono stati aggressori e vittime,
assalitori e assaliti, anzi non c’è stata neanche l’aggressione. Ma è un
paradigma fragile, in linea con la preparazione autoassolutoria del non
intervento da collegare ai pregiudizi riservati alle popolazioni balcaniche
fondati sull’odio atavico, l’abitudine secolare dell’homo balcanicus a uccidere, il fanatismo etnico, l’intolleranza
religiosa, l’ignoranza e la
miseria. Qui invece si discute della storia di un popolo che
ha fatto della pacifica convivenza un dato distintivo e che per tutta risposta
è stato fatto a pezzi scientificamente dagli interessi della politica
nazionalista di Slobodan Milošević, di Franjo Tuđman e di Alija Izetbegović.
I modelli di
discussione invece devono essere dissonanti in quanto si è catapultati in una
dimensione diversa da qualsiasi altro territorio europeo. Gli avvenimenti vanno
analizzati con attenzione partendo dal dato di non avere una condivisione
storica degli eventi. Se i documenti e le fonti storiche non sono dei fenomeni
oggettivi e sono dipendenti da chi li produce, in Bosnia Erzegovina sono ancora
meno oggettivi per la semplice ragione che serbi, croati e bosniaci hanno
verità storiche contrapposte e inconciliabili.
I vincitori hanno
sempre scritto la Storia ,
ma in Bosnia Erzegovina questo è impossibile perché qui non ci sono stati
vincitori. Un esempio è il difficile dibattito storico sull’operazione Oluja:
l’intervento militare croato denominato Tempesta
– appoggiato nel 1995 dal Pentagono – che produsse, nella Krajina in zona
croata, l’assassinio di centinaia di civili serbi e l’allontanamento in
pochissime ore di duecentomila serbi dagli ospedali, dalle scuole, dalle loro
case saccheggiate e bruciate. Una moltitudine di persone inermi che in poche
ore ha disfatto ogni storia individuale, lasciando il proprio mondo per il sol
fatto di avere cognomi serbi e abitare in territori rivendicati dalla Croazia.
Ancora oggi queste popolazioni vivono disperse, senza status internazionale,
non accettate dalla Serbia perché corpi separati, semplicemente dimenticati.
Zagabria esalta la liberazione della Krajina dagli “altri”, invece Belgrado
qualifica Oluja come crimine di
guerra e pulizia etnica. In questo caso non c’è alcuna possibilità di
interpretazione anche per i più incalliti negazionisti: la popolazione serba
delle Krajine è stata oggetto di pulizia etnica da parte dei croati e questo è
un fatto storico, incontrovertibile, giudicato come crimine di guerra dal
Tribunale penale internazionale dell’Aja per la ex Jugoslavia (Tpi). L’opinione
pubblica deve porre domande, ascoltare, decifrare le testimonianze, leggere con
attenzione i dati e difendere l’assioma che una realtà storica non si comprende
mai in modo migliore che tramite la ricerca delle sue cause. Tuttavia non
possiamo nascondere che nello scenario della guerra in Bosnia è difficile
seguire il percorso che racconta il conflitto come terminale, quasi scontato,
di controversie religiose, economiche ed etniche. Non possiamo seguire tesi
precostituite perché è ragionevole escludere come principale causa del
conflitto controversie religiose. In definitiva, proprio la
particolarità dell’esistenza delle chiese ebraiche, cattoliche, ortodosse e
musulmane, raramente riscontrabile in altri Paesi, ha salvato la Bosnia dalla completa
distruzione. Basta fare un giro per Sarajevo per convincersi di queste tesi: in
poche centinaia di metri ci si imbatte nella chiesta ortodossa e in quella
cattolica, nella sinagoga o nella medresa,
nella splendente moschea di Gazi Husrev-beg e, appena poco distante dal centro,
nel convento francescano.
Tuttavia non
possiamo nascondere che alcuni settori estremisti ortodossi e cattolici delle
chiese serbe e croate hanno foraggiato i criminali di guerra con corpose
sovvenzioni, con la giustificazione di fermare la “cospirazione islamica”.
Pretesti. Secondo stime ufficiali dei primi Anni ’90, i musulmani praticanti in
Bosnia Erzegovina superavano di poco il 17 per cento, in realtà la percentuale
era ancora più bassa perché i calcoli consideravano anche coloro che
osservavano solo le tradizioni culturali e con questi numeri non si poteva
sovvertire neanche un quartiere di Sarajevo. È una tesi poi clamorosamente
smentita dal genocidio di Srebrenica, poiché dopo quel massacro non c’è stato
alcun attentato di matrice musulmana, né in Bosnia né in altri Paesi, smentendo
lo spettro sempre evocato del “pericolo islamico”.
La Bosnia è sempre
stata sull’agenda delle grandi potenze perché da un punto di vista geopolitico
è un Paese strategico nel cuore dell’Europa orientale; il suo territorio è stato
depredato di quasi tutte le risorse naturali (zinco, carbone, minerali di
ferro, manganese) compreso l’argento del sottosuolo di Srebrenica (Argentaria
per i latini), ormai quasi esaurito. La Bosnia Erzegovina
ha poi un’enorme ricchezza nel sottosuolo (acqua e petrolio) assolutamente
ancora vergine, pronta per il grande sfruttamento. Tra le motivazioni dello
smembramento del Paese possono essere annoverate anche cause economiche e così
molti passaggi politici oscuri delle grandi potenze potrebbero avere un senso.
I giochi pericolosi
di Dayton si sono dispiegati nella spartizione del territorio bosniaco quando
si è fatto attenzione ad assegnare alla Republika Srpska la parte di territorio
ricca di foreste, legname, acqua e del petrolio eventualmente da estrarre.
Evidentemente si stava ragionando a lungo termine, per quando le condizioni
internazionali avrebbero permesso alla Republika Srpska di staccarsi dalla
Bosnia con un minimo di autosufficienza economica formalizzando, con un
plebiscito di voti, la secessione già scritta nelle pieghe degli accordi di
Dayton.
Rileggendo
vecchi articoli di giornali, la maggior parte dei giornalisti che si occupavano
di Bosnia hanno accreditato nei loro reportage
la storiella della guerra etnica nascondendo a loro stessi che il popolo
bosniaco ha vissuto per secoli in un clima di convivenza con incroci etnici del
45 per cento della popolazione, con il risultato che quasi una famiglia su due
era mista. Quando la Bosnia
era su tutti i video del mondo, alcuni analisti davano informazioni su una guerra con contenuti affaristici, sociali e
culturali; con lo scontro tra città e campagna nell’era della
globalizzazione; per un profondo odio di classe delle campagne verso i ceti
cittadini che vivevano nel benessere.
Un’altra
tesi accreditata era un conflitto
proclamato in nome dell’identità etnica e da fattori internazionali di
geopolitica. Il riferimento in quest’ultimo caso era al disegno di
smembramento della Jugoslavia con l’avallo di Paesi europei. Le prime due
targhe diplomatiche della Croazia sono state della Germania e del Vaticano, i
primi Stati a riconoscerne l’indipendenza; se per il Vaticano era quasi
scontato riconoscere la
Croazia perché abitata da un popolo di religione cattolica,
per la Germania
il riconoscimento fu un passo decisivo per rientrare da protagonista nello
scacchiere balcanico. Tuttavia sono teorie che in realtà nascondono un’analisi
storica debole, omologata sempre di più all’opinione pubblica occidentale –
indistinta e inquadrata – che non è interessata a eventi che non provengano dai
Paesi europei e americani. Sostiene Pedrag Matvejević che la memoria storica costituì una delle
fonti fatali della guerra e della fine della Jugoslavia. Se questa è la guerra della vendetta e dell’odio, merita un
approfondimento perché il logico finale è che si potrà raggiungere una reale
pacificazione solo quando i libri scolastici avranno rielaborato le vicende del
conflitto scrivendo una storia condivisa, a patto di slegare la memoria
collettiva dalla memoria nazionalista, quella avvolta dall’identità etnica che
produce l’ideologia nazionale. Ma attenzione che queste condizioni, sebbene
pericolose, non producono crimini di guerra; l’idea spinoziana che sono i leader politici e militari a spingere
una parte della popolazione a commettere crimini di guerra rimane ancora la più
valida ed è una teoria che ha trovato realistica conferma nelle terre
balcaniche.
Tuttavia in queste
terre i leader politici avevano
bisogno di teoria e prassi: nell’organigramma dei colpevoli che hanno distrutto
la Bosnia , una
parte rilevante spetta a quegli psichiatri e psicologi nazionalisti deviati,
per professione abituati a governare le dinamiche della mente; biologi studiosi
della purezza genetica; intellettuali che rovistavano nei cesti della storia
per recuperare introvabili giustificazioni storiche e filosofiche alla pulizia etnica.
Figure che affidarono il lavoro sporco non solo a Karadžić, Arkan, Mladić, il
colonnello croato Ante Gotovina, ma anche a politici come Biljana Plavšic, biologa
ed ex presidente della Republica Srpska.
La Plavšic si è
consegnata spontaneamente nel 2001 al Tpi ammettendo le sue colpe politiche,
negando tuttavia le accuse di genocidio e di crimini contro l’umanità. Nel 2003
è stata condannata singolarmente a soli undici anni di reclusione, da scontare
in un confortevole carcere svedese dotato di sauna, pur in presenza di una
sentenza che faceva riferimento al suo ruolo di cinghia di trasmissione tra i
teorici del piano di pulizia etnica e gli esecutori materiali. La sentenza fa
espresso riferimento “alla depravazione degli atti commessi, alla responsabilità
di migliaia di morti e all’espulsione di migliaia di persone in condizioni di
estrema brutalità”. Il 27 ottobre 2009 è stata liberata dopo soli sei anni di
detenzione perché la legge svedese consente la scarcerazione dopo aver scontato
i due terzi della pena. In realtà Biljana Plavšic non si è mai pentita e non ha
mai abiurato le sue idee razziste nei confronti dei musulmani, considerati
“inferiori e biologicamente di un valore minore rispetto al popolo serbo”.
Si
tratta di criminali da considerare attori responsabili dei 1.350 giorni di
assedio della città di Sarajevo; del massacro di 10.701 maschi musulmani a
Srebrenica; di un totale di circa 258.000 morti (di cui 16.000 bambini), 20.000
disabili, 50.000 donne stuprate, 45.000 orfani di almeno un genitore; di
1.170.000 profughi di guerra e 1.250.000 rifugiati politici; di almeno un
milione di mine e di ordigni bellici inesplosi ancora disseminati per tutta la Bosnia. Ecco , di
tutto questo gli accordi di Dayton non fanno menzione, e i patti internazionali,
ratificando la pulizia etnica, hanno cancellato con un atto amministrativo le
responsabilità politiche e militari di Milošević, Tuđman e Izetbegović sulla
guerra in generale, ma hanno lasciato sul terreno situazioni irrisolte che
determinano l’instabilità permanente della Bosnia Erzegovina.
L’Occidente è intervenuto sui sintomi del
conflitto tralasciando le cause, considerando la guerra un problema militare e
non politico. L’idea di fondo “se tutti usano le armi-tutti sono colpevoli,
deposte le armi i problemi si risolveranno d’incanto”, era solo un alibi. Ma
decretando l’embargo delle armi si dispose la morte della Bosnia Erzegovina, che
non si è potuta difendere. Sono temi oggi rimossi, tuttavia l’Occidente dovrà
dare risposte sul perché non abbia saputo difendere non solo l’idea della
convivenza multinazionale, ma il concetto della salvaguardia della persona e
della dignità dell’uomo. Non ci sarà giustizia fino a quando non verranno date
risposte alle madri di Srebrenica. Non ci sarà giustizia fino a quando non si
porterà davanti al Tpi dell’Aja il generale Mladić, ma fino a quel momento
siamo ancora autorizzati a considerare l’Onu in bancarotta morale. Per usare le
parole dell’ex procuratrice capo, Carla Del Ponte, il muro di gomma è quasi
impossibile da penetrare, ma pensare di costruire un Paese normale senza
giustizia assicura futuri conflitti nell’instabile Stato bosniaco.
Questo libro è la prosecuzione del Il tunnel di Sarajevo, con
l’aggiornamento di notizie che sono state “sottratte” con difficoltà alle
istituzioni della Bosnia Erzegovina. In due anni di richieste non ci sono state
riscontri ufficiali, e neanche gli intellettuali più aperti di Sarajevo hanno
dato risposte, nonostante l’assicurazione del più totale anonimato. Nessuna
notizia, nemmeno una. Storici, medici, analisti hanno replicato con un assordante
silenzio, rafforzando l’idea che c’è più paura adesso che nell’immediato
dopoguerra bosniaco. Se chiedevi di avere dati su Jovan Rašković la risposta
con e-mail cortesi era che “è un personaggio minore, non vale la pena di
argomentare su di lui, bastano i dati che si trovano su Wikipedia”.
Per fortuna documenti importanti sono
arrivati tramite persone che per vie traverse hanno fornito notizie riservate,
che permettono di approfondire tematiche ritenute pericolose dalle istituzioni
bosniache. Si tratta di dati riguardanti problematiche sociali e psichiatriche
che attestano la deriva di un Paese depresso; strategie di bonifica di un Paese
pericolosamente insidiato ancora da un milione di mine; documenti non pubblici
sulla condizione delle donne violentate. I racconti sono testimonianze di gente
comune che ha vissuto direttamente gli eventi narrati. Il testo è completato
con indispensabili notizie tratte da altri studi già pubblicati. Le fonti sono
private, acquisite direttamente nel luogo di emanazioni dei documenti, citati
in forma anonima per tutelare le persone che lavorano nelle cliniche
psichiatriche, negli orfanotrofi, nelle strutture mediche, nei centri di
ricerca sociale e storica, all’Istituto di statistica, all’Istituto federale di
sanità.