Le
rimesse sono tecnicamente invii di denaro che i migranti fanno a beneficio
delle famiglie rimaste in patria. Gli immigrati, in virtù del loro lavoro all’estero,
percepiscono un pagamento in valuta “pregiata” (nel caso dell’Italia, in euro),
e parte dei proventi di questo lavoro vengono inviati, sempre in euro, nel
Paese d’origine, dove i famigliari possono convertire le somme in valuta locale
e usare il denaro per vivere fino al successivo invio di soldi.
Ebbene,
secondo Eurostat nel 2013 le persone immigrate in Italia hanno inviato rimesse
nel loro Paese d’origine per 6,7 miliardi di euro, il che ci rende il secondo
Stato europeo in materia dopo la Francia, da cui sono uscite rimesse per 8,9
miliardi.
L’Italia
però, sempre più Paese di emigrazione, beneficia a sua volta di rimesse per
circa due miliardi di euro inviate da nostri concittadini che per lavorare
hanno dovuto o voluto andare all’estero. In questa classifica l’Italia è quinta
dopo Portogallo (5 miliardi), Polonia (2,8), Gran Bretagna (2,3) e Romania
(2,1).
Il
saldo negativo italiano nel gioco delle rimesse è dunque di 4,7 miliardi,
secondo solo a quello francese, di 8,4 miliardi, visto che le rimesse di
francesi che lavorano all’estero ammontano a circa mezzo miliardi di euro.
Tutto
questo ce lo raccontano statistiche ufficiali raccolte attraverso il sistema
bancario. Poi ci sarebbe da affrontare un altro discorso, ovvero quello
relativo al genere di lavori svolti dai migranti in Italia, alle condizioni
lavorative, alle protezioni sociali e ai contributi versati al fisco da chi ha
la fortuna di avere un lavoro in regola.
Secondo
i dati del Dossier statistico del 2013, nel 2012 gli stranieri in regola in
Italia erano cinque milioni e il saldo attivo netto nel loro rapporto con il
fisco nazionale era di 1,4 miliardi di euro.
Si
potrebbe quindi concludere che gli immigrati svolgono i lavori che noi non
vogliamo più fare o che faremmo se pagati meglio, rimpolpano le casse statali
da decenni mal gestite e svolgono quel lavoro di cooperazione allo sviluppo che
l’Italia si è costantemente astenuta dal fare o, se vogliamo, dal fare
decentemente.