Mi
è tremendamente difficile mettere insieme qualche pensiero su Srebrenica.
“Come
è potuto succedere” è la domanda, martellante, che mi pongo quotidianamente da
quando ho iniziato a interessarmi di Bosnia Erzegovina e, soprattutto, a
conoscerla meglio grazie all'incontro con le persone, ai loro volti, ai loro
occhi. Alle letture, intense, profonde che mi hanno aiutato a farmi un mio
pensiero, a formarmi una coscienza di quanto successo.
“Strebrenica,
i giorni della vergogna” e “Srebrenica la giustizia negata” sono testi che
farei leggere nelle scuole per svegliare un bel po' di coscienze tra alunni e
insegnanti. Quando li ho letti confesso di essere stata male, un male fisico,
come se una mano improvvisamente fosse uscita dal libro e avesse iniziato a
colpirmi, forte, nello stomaco.
Un
genocidio nel cuore della democraticissima Europa. Un popolo lasciato alla
mercé dei propri assassini accecati dall'odio più barbaro verso il prossimo.
Una pulizia etnica testimoniata, accertata, sotto gli occhi di tutti tranne di
chi non vuole vedere.
“Come
è potuto succedere”.
A
vent’anni dal fatto, sembra che la storia abbia insegnato poco. Oltre il danno
anche la beffa, per semplificare un po'. Non solo le morti di civili inermi,
abbandonati da quella comunità internazionale che aveva il dovere e l'obbligo
di difenderli, ma anche una giustizia che non sta facendo il suo corso. Penso
alle madri, alle donne di Srebrenica costrette a vedere i carnefici dei loro
cari liberi e impuniti. L'incontro con loro è pressoché quotidiano. Come è
possibile elaborare un lutto, uscire da un dolore lancinante se quando vai a
fare la spesa incontri chi ha ucciso tuo marito? O quando, recandoti in un
ufficio pubblico, a rilasciarti il certificato di cui avevi bisogno, è il
criminale che ha fatto fuori tuo figlio? Perché nessuno ne parla? Perché la
giustizia non sta andando avanti? Non hanno già sofferto abbastanza queste
donne? Quale tassello manca al grande puzzle di Srebrenica perché i criminali
vengano finalmente assicurati alla giustizia?
E
allora parliamo di Srebrenica. Non solo ogni maledetto 11 luglio di ogni anno.
Ricordiamola ogni 27 gennaio quando siamo tutti bravi a scrivere nelle nostre
coloratissime e sorridenti bacheche di Facebook “Per non dimenticare”, “Mai più
“, ad accendere 'ceri' virtuali, o a mettere fiocchi al posto dell'immagine del
profilo. Ricordiamola ogni giorno, di ogni anno, e per sempre. Ricordare quello
che è accaduto non è importante a fini solidaristici o di autocompiacimento ma
significa fare della memoria un qualcosa di più possibile attivo e partecipato.
Dobbiamo essere cittadini consapevoli e sapere perché scriviamo “Per non
dimenticare”. Il pericolo che non succeda più non è né scontato né tanto meno
così lontano dall'avverarsi. Io credo in un futuro di speranza per la Bosnia
Erzegovina. Ci devo credere, per forza. Questo ho letto negli occhi delle tante
persone di buona volontà che ho conosciuto in Bosnia, persone che
quotidianamente si impegnano per abbattere quei muri che l'odio
ultranazionalista ha innalzato proprio nel Paese dei ponti.