Il suo fondatore, l’avvocato Peter Benenson, non si rese
immediatamente conto di aver creato ciò che oggi è definito un social network
ma ebbe da subito la convinzione che, se l’indignazione isolata avrebbe
provocato solo frustrazione, quella mobilitata e organizzata in campagne e
appelli di massa avrebbe potuto produrre un cambiamento nella vita delle
persone.
Proprio il cambiamento, in meglio, nella vita delle persone,
nel loro accesso ai diritti fondamentali e nella rivendicazione di questi
ultimi, è stato l’obiettivo di Amnesty International in questi 55 anni e lo
sarà fino a quando ce ne sarà bisogno.
Come sempre, ogni vigilia di anniversario è segnata da
avvenimenti di segno opposto: due giorni fa, la liberazione in Azerbaigian di
una delle più note prigioniere di coscienza, la giornalista indipendente
Khadija Ismayilova; ieri, la scoperta che decine di persone stanno lentamente
morendo di fame, sete e mancanza d’aria in container da trasporto marittimo in
un centro di detenzione del Sud Sudan. In mezzo, naufragi in serie di migranti
e richiedenti asilo, torture ed esecuzioni.
Descritto in questi termini, il bilancio dell’impegno in
favore dei diritti umani pare in passivo. In effetti, il fatto stesso che
Amnesty International ancora esista è un fatto negativo così come ancora più sconfortante
è la constatazione che il continente dove l’organizzazione è nata e dove i
diritti umani sono diventati un valore, stia tradendo la sua cultura e la sua
storia e stia voltando le spalle a chi fugge dalla guerra e dalla persecuzione.
Ma dall’altra parte, dobbiamo dare grande valore ai 1000
prigionieri di coscienza che Amnesty International contribuisce a liberare ogni
anno, alle centinaia di persone che - un attimo dopo la loro scarcerazione - cercano
un telefono o un pc per informarci che sono state scarcerate e ringraziare.
Dobbiamo salutare con soddisfazione il traguardo, raggiunto
e superato negli ultimi mesi, dei 100 paesi completamente liberi dalla pena di
morte.
Dobbiamo apprezzare le tante indagini che vengono aperte nel
mondo su crimini di guerra (l’ultima delle quali a Londra sull’uso, denunciato
pochi giorni fa, di vietatissime bombe a grappolo made in Uk da parte
dell’Arabia Saudita nel conflitto in Yemen) o le leggi a favore dei diritti
umani di cui l’impegno di Amnesty International favorisce l’adozione (come
quella recente del Burkina Faso per mettere fuorilegge i matrimoni precoci e
forzati).
A 55 anni dalla sua fondazione, Amnesty International
continua a non essere solo un logo da apprezzare o, oggi, da cliccare. È un movimento
di attivisti per i diritti umani che investono ore, giorni, mesi, anni e
decenni della loro vita a cercare quel cambiamento di cui scrivevo all’inizio.
Essere attivisti per i diritti umani significa provare
curiosità, interesse e solidarietà per le vite degli altri, informarsi,
studiare e ricercare per comprendere fino in fondo culture ed esperienze
diverse. Vuol dire, in fondo, lottare contro la brutalità dei governi, dei
gruppi armati, delle multinazionali attraverso la bellezza delle persone che
s’incontrano e dei loro ideali.
Ecco perché, per me, Giulio Regeni era un attivista per i
diritti umani.(Riccardo Noury, portavoce della sezione italiana di Amnesty International)