Leggo
il mittente e mi viene un sussulto: Ufficio del turismo della Malesia.
Subito
torna in cattedra il mio atavico pessimismo. Mi viene in mente che sarà una
lettera formale con la quale mi dicono che hanno tanto gradito la mia
disponibilità, ma sarà per un’altra volta. Mi era da poco successo con l’Enea nel
tentativo di coronare il mio sogno di andare a fare un reportage nella base italiana in Antartide, in fin dei conti…
Apro
la busta e… dentro trovo istruzioni, contatti, ringraziamenti, complimenti,
ogni altro ben di dio e… i biglietti di andata e di ritorno.
Non
ci credo. Non è aprile, ma in un giornale non si sa mai. Telefono. Mi
confermano tutto. E mi ringraziano pure.
Parto
prima di Pasqua e torno esattamente quella domenica.
Biglietto
Roma-Singapore-Kuala Lumpur e ritorno. Per la permanenza, oltre alla capitale e
ai dintorni, “ho vinto” un altro scalo aereo a Kota Kinabalu, nel Sabah malese.
Mi accorgo di non sapere neanche di che cosa stiamo parlando, mi documento e
poi comunico a direttore, capo redattore e capo servizio: “Mi hanno invitato in
Malesia, tutto spesato. Se prendo le ferie, col cavolo che scrivo per il
giornale. Se non me le fate prendere, sono a disposizione”. È un coro di “fai
come ti pare”, “chi se ne frega”, “boh, ci penserò” e solo il capo servizio
commenta con un “che culo!”, ma ho sempre pensato che si riferisse a una
collaboratrice della redazione sportiva, lì di fronte, e rimarrò per sempre col
dubbio, che senz’altro non mi rode.
Così
partii, per un viaggio di ripicca nei confronti dell’azienda che non mi pagava,
al termine del quale mi ritrovai con un’esperienza umana e professionale
notevole, con l’Ufficio del turismo arrabbiato perché non avevo scritto
“marchette” sul giornale ma, in parecchi articoli, pubblicati tra Italia e
Svizzera, la verità di quel che vedevo (non avevano messo in preventivo che un
giornalista non embedded, come nel mio caso, non ha problemi a scavalcare il
muro di cinta di un resort, a passare in mezzo a un campo da golf con una
partita in corso e ad andarsi a infilare in un villaggio di palafitte in cui
vivono i reietti della società, ricavandone immagini e sensazioni terribili,
che poi vanno per forza raccontate, se si vuole rimanere liberi e indipendenti)
e con un’idea che ancora non nasceva, ma macerava e forse cominciava a voler
spuntare fuori. Comunque, in questo post pubblico qualche foto fatta nel
villaggio su palafitte in cui vivevano i reietti del Sabah, in larga parte
migranti che fornivano lavoro a basso costo all’occorrenza. Ma che vivevano in
condizioni igieniche spaventose, scaricando nell’acqua salmastra sotto i loro
piedi ciò che avrebbero riutilizzato per sciacquare le verdure che avrebbero
mangiato. Ma pensate a una distesa d’acqua nera punteggiata di palafitte e di
fenicotteri rosa…