Vojislav Šešelj, il leader ultranazionalista serbo già parlamentare e fondatore del
Partito radicale serbo, è stato oggi scagionato dal Tribunale penale
internazionale per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia (Tpi) da tutti e
nove i capi d’imputazione a suo carico. La sentenza del caso Šešelj era attesa
dal 2012. Nel frattempo il discusso leader
ultranazionalista era stato rilasciato dal Tpi per permettergli di curarsi in
Serbia, salvo poi rifiutarsi di tornare a L’Aja.
Šešelj doveva difendersi (cosa che ha
fatto avvalendosi solo di un consigliere legale) da tre atti d’accusa per
crimini contro l’umanità e da sei atti d’accusa per crimini di guerra, incluse
uccisioni, torture e trattamenti crudeli di prigionieri. La Procura generale lo
accusava di aver perpetrato direttamente i crimini di cui sopra o di essersi
adoperato attraverso la propaganda affinché fossero commessi, il tutto in nome
della creazione della Grande Serbia attraverso l’amputazione di parti della
Bosnia e della Croazia e la loro annessione alla Serbia.
Secondo la corte, la Procura generale
non ha saputo provare l’esistenza di un piano criminale dietro l’attività di Šešelj
tra il 1991 e il 1993. Per quanto, secondo la Procura, ogni atto criminale
fosse stato commesso da Šešelj nel nome della creazione della Grande Serbia,
quest’ultima secondo la corte era più un’aspirazione politica che non un
progetto criminale. Sempre secondo la corte, i crimini commessi dalle forze
paramilitari serbe durante la guerra in Bosnia Erzegovina non possono essere
direttamente collegati con l’attività propagandistica, per quanto violenta, di Šešelj,
nel nome della creazione della Grande Serbia. Finanche il reclutamento di forze
paramilitari, in cui Šešelj ebbe modo di eccellere, non è stato considerato
dalla corte come perseguibile poiché la legge jugoslava al tempo vigente
permetteva queste attività. E, in ogni caso, il comportamento di queste forze
paramilitari, che si lasciarono andare alle più spaventose violenze, non può
essere in alcun modo messo in relazione con l’imputato Šešelj e con la sua
attività di tribuno della violenza e di signore del reclutamento di
paramilitari.
Per otto capi d’accusa su nove la corte
ha deciso a maggioranza. In un solo caso ha scagionato dalle accuse Šešelj all’unanimità.
È possibile presentare ricorso in secondo grado. Da oggi (ma in realtà già da
diversi mesi) Šešelj è un uomo libero. Il processo contro Šešelj era cominciato
il 7 novembre 2007. Sono stati 99 i testimoni chiamati dalle parti, circa 1.400
le prove accolte dalla corte. Per chi fosse interessato, la sentenza in
versione integrale consta di 100 pagine più due annessi ed è disponibile online,
ma in lingue diverse dall’italiano.
Poiché le sentenze del Tpi costituiscono
giurisprudenza per le cause successive, dopo l’assoluzione di Šešelj il
messaggio pare chiaro: il Tpi continuerà a concentrarsi fino alla sua imminente
chiusura (dicembre 2017) sui casi più eclatanti riguardanti bosniaci. Rispetto
agli altri, l’atteggiamento sarà decisamente più permissivo. Un messaggio che
interesserà non solo presunti o conclamati criminali serbi ma, senz’altro,
anche croati e kosovari. Alla fine tutto si risolverà in un grande nulla di
fatto e a pagare saranno quasi esclusivamente coloro che non hanno saputo
tutelarsi a dovere mentre commettevano crimini terribili. Gli altri sono
destinati a farla franca. Si potrebbe parlare di definitivo fallimento del Tpi.
In realtà, basta dire che la sentenza Šešelj è sorprendente e che le sorprese
sono destinate a non finire.