giovedì 30 luglio 2009

Dalla parte dei bambini di Dharamsala


Un’educatrice, il dolore della persecuzione cinese e dell’esilio tibetano in India, la meraviglia salvifica e a tratti quasi taumaturgica del teatro nel libro di Enrica Baldi, I gioielli di Dharamsala. I giovani tibetani dell’esilio (prefazione di Cristina Comencini, introduzione di Raimondo Bultrini) che per anni ha dedicato la sua vita a “condividere” il teatro di Peter Brook con i bambini e ragazzi riparati in India dalla loro madrepatria Tibet.

D. Enrica, il tuo è un libro decisamente unico, figlio di un’esperienza altrettanto unica: alcuni anni trascorsi a Dharamsala, nel Tibetan children villane (Tcv), a insegnare teatro ad alcuni giovani della diaspora tibetana, in fuga dalle persecuzioni cinesi. Puoi raccontare la genesi di quest’esperienza e le motivazioni che ne sono alla base?
R. In realtà, più che insegnare teatro al Tcv ho “fatto teatro” con quei ragazzi. E ho permesso al teatro – nella forma più alta che io conosca, quella di Peter Brook – di sviluppare la personalità di bambine, bambini e adolescenti che desideravano interpretare le storie che io proponevo, e di risolvere insieme i conflitti che li paralizzavano. Credo che il teatro non si insegna. Il teatro lo si fa insieme e insieme ci si addentra nelle parti più remote dell’anima: questa è la base della condivisione. Io posso insegnare alcuni esercizi, posso condurre il gruppo sulla soglia della creatività, ma poi quello che ciascun membro scopre sul palcoscenico insieme agli altri non dipende certo da me come “insegnante”. Per la semplice ragione che ogni nuovo attore, ogni nuova attrice che sale sul palcoscenico, “Pinocchio” o “Antigone” che siano, possono essere molto più bravi di me. Come infatti erano.

D. Quali difficoltà hai incontrato – sia d’ordine logistico che per lo svolgimento del tuo lavoro – nelle altitudini di Dharamsala e come descriveresti il primo impatto con una cultura così profondamente diversa da quella dalla quale provieni?
R. Il freddo, soprattutto. D’inverno il laghetto ai piedi del Villaggio gelava e io avevo una stufetta con due barrette per scaldarmi e se la tenevo accesa tutta la notte saltava l’impianto elettrico. Di altre difficoltà non ne ho avute, grazie anche all’incredibile cultura classica dei dirigenti del Tcv che, bambini del primo esilio, per meriti scolastici erano stati ammessi in college d’élite, dove studiavano le “Metamorfosi” d’Ovidio per meglio capire Shakespeare! Quanto poi alla cultura tibetana, non posso dire di aver avuto a Dharamsala un “primo impatto”, perché per quasi 15 anni avevo avuto insegnamenti dalprofessor Namkhai Norbu, uno studioso di fama internazionale. L’impatto più duro è stato invece con la miseria indiana. Per quanto ne avessi letto e ne fossi informata, a quella non ero preparata. Ancora adesso a volte mi sveglio con il ricordo di una neonata poggiata dalla madre su un cumulo d’immondizia. Forse per non poggiarla direttamente sul marciapiede, non so.

D. Perché la scelta di leggere e rappresentare il teatro greco in un contesto come quello dell’esilio tibetano in India?
R. Perché tutto nella cultura tibetana è antico. Non nel senso di vecchio, ma nel senso di imperituro: la bellezza, la dignità, il modo di sorridere e di guardarti negli occhi, di cantare, di danzare… Esistono studi, che ho scoperto dopo, che documentano che la loro Lhamo Opera, la forma di teatro vivente più antica del mondo, è molto simile per struttura e finalità all’antica tragedia greca. Ma questo io allora non lo sapevo, ho agito d’istinto, reagendo alle problematiche che individuavo nelle ragazze e nei ragazzi che mi avvicinavano. E cercando di dare a loro quello che – alla loro età – aveva reso più felice me.

D. Dal punto di vista umano, quali traumi hai potuto riscontrare nei bambini e nei ragazzi tibetani che vivono nei Tcv di Dharamsala?
R. Meno di quanto dall’esterno si potrebbe pensare. Sicuramente il trauma della separazione dalla loro famiglia e, per quelli più grandi, l’angoscia e l’umiliazione della persecuzione cinese. Ma quello che mi ha colpito di più è stato proprio il fatto che le condizioni di vita del Tcv permettono a chi ci vive di recuperare in gran parte i propri traumi. Certo, ho visto molti sintomi di sofferenza psichica: il bambino che non cresce, infezioni cutanee, enuresi notturna. Ma anche la scarsa attenzione che l’adulto responsabile di una home può dare alla singola bambina o al singolo bambino viene compensata dal fatto che ogni nuovo venuto viene affidato alle cure fisiche e affettive di un fratello o una sorella di casa più gradi. A volte di tutti e due, come nel caso di Norbu, il protagonista del laboratorio su Pinocchio, che appena arrivato nella Home numero 7 venne preso in cura da una coppia di fratello e sorella e che adesso, a 20 anni, si è diplomato come elettricista e vive a Delhi proprio con quella “sorella” di casa. Inoltre la sofferenza dell’esilio è molto attenuata dal fatto che per loro il Tcv, per quanto sia in India, è veramente la loro casa. Come ha scritto Penpa Dolma grande, un’altra dei protagonisti dei miei laboratori, è stata la sua “casa lontano da casa”. Anche adesso che vive negli Usa pensa al Tcv in India come alla sua vera patria. Eppure è nata e cresciuta in Tibet fino ai 6 anni.

D. Questi giovani, crescendo, continueranno a sentirsi sempre degli sradicati, dei fuori luogo, o la tua esperienza ti insegna che la maggior parte di loro riesce a trovare una prospettiva di serenità e un luogo in cui sentirsi a casa?
R. Non si sentono degli sradicati. Sanno di avere molte difficoltà a trovare un lavoro una volta usciti dal Tcv, ma anche in questo la rete di corsi e formazioni messa in piedi dalla direzione del Tcv è encomiabile. I ragazzi di cui ho seguito la crescita hanno fatto tutti una buona (quando non ottima) riuscita. Crescere nei Tcv genera un forte senso di appartenenza e protezione che ti accompagna per tutta la vita. Anche quando vai all’estero e sei solo.

D. Quanto è forte nella comunità tibetana in esilio il desiderio di tornare a vivere in Tibet e come riesce la comunità a mantenere viva questa speranza, con un governo cinese invece così agguerrito e fortemente intenzionato a cancellare la tradizione e i valori tibetani dalle terre che Pechino ha occupato?
R. Direi che è un desiderio ambivalente. Da una parte desiderano tornare per la coscienza non solo di appartenere a un Paese bellissimo, e chi lo ricorda ne ha una grande nostalgia, ma anche di rappresentare una cultura che ha da sempre coltivato valori etici molto elevati, come la compassione per tutti gli esseri viventi, nessuno escluso – come scriveva Tharchin. Dall’altra però sanno che non solo le condizioni di vita in Tibet sono molto più dure di quelle in India, ma anche che in Tibet non c’è lavoro né, al momento, nessun futuro per i Tibetani. Quello perpetrato dal governo cinese è un vero genocidio.

D. Quale episodio della tua lunga esperienza a Dharamsala conservi con maggiore partecipazione emotiva?
R. Infinti. Sicuramente l’incontro con Norbu è stato quello più importante. Era un bambino fantastico, pieno di fantasia, d’affetto e d’iniziativa. Purtroppo era dislessico e ha avuto molta difficoltà negli studi. E le ripetizioni che gli davo ogni pomeriggio sono tra le esperienze più faticose e divertenti della mia vita!

D. Pensi che il mondo davvero abbia compreso il dramma del Tibet e che un giorno la morsa cinese potrà essere almeno allentata, concedendo almeno una vera autonomia a quest’antica terra?
R. Credo che tuttora pochi al mondo conoscano il Tibet e siano al corrente della tragedia del popolo tibetano. Pochissimi sanno che il popolo tibetano è sottoposto a un genocidio, come dal 1960 ha documentato un’apposita commissione di giustizia internazionale. Almeno in Italia. Forse negli Usa c’è una coscienza maggiore grazie a Hollywood, che si è veramente adoperata moltissimo, e grazie ad alcuni personaggi politici che hanno dato importanza alla questione tibetana. Ad esempio, l’anno scorso Nancy Pelosi è andata in visita al Tcv di Dharamsala e ha espresso loro tutta la sua ammirazione. Per quanto riguarda la morsa cinese, se si attenuerà o meno forse non dipenderà tanto da quanto l’Occidente potrà sporadicamente fare, quanto dal fatto che, all’interno della società cinese, per ragioni non del tutto politicamente razionali, si mitigherà l’accanimento contro i tibetani; probabilmente grazie al fisiologico passare del tempo e con l’affacciarsi sulla scena di nuove generazioni alle prese con problemi pressanti nel presente, e molto poco interessati al passato, che peraltro ignorano.

D. Quali colpe pensi abbia il mondo nella tragedia tibetana?
R. Credo al contrario che la società civile mondiale abbia grandi meriti per la sopravvivenza del popolo tibetano. Infatti è stato solo grazie a versamenti di denaro compiuto da privati cittadini, associazioni e fondazioni private di tutto il mondo che i Tcv hanno potuto esistere e svilupparsi, salvando la vita di centinaia di migliaia di piccoli tibetani e preservandone la cultura. Credo invece che abbia molte responsabilità l’Onu, che ha sì espresso pareri e preoccupazioni per la sorte del popolo tibetano, ma non ha mai accettato di discutere la questione tibetana con un apposito ordine del giorno. Hanno anche molte responsabilità tutti i governi che per opportunità politico-economiche non esercitano la dovuta pressione sulla Cina.

D. Come aiutare allora il Tibet e i tibetani?
R. Continuando a sostenere le comunità tibetane in India e in altri Paesi, sopratutto attraverso le adozioni a distanza, facendo in modo che ogni bambina o bambino per il quale si pagano gli studi, arrivi alla loro piena conclusione, non solo evidentemente pagando quanto dovuto, ma anche cercando in tutti i modi di star loro vicino, per lettera, e-mail o telefono, o andandoli regolarmente a trovare dove vivono. Io so quanto coraggio, fiducia e speranza possa dare loro una semplice lettera. Sarà una pietra con cui quella bambina, quel bambino, pavimenterà la sua strada; un ricordo felice cui poter tornare ogni volta che nel presente li assaliranno la paura e la sfiducia.

D. A te cosa ha lasciato quest’esperienza?
R. La convinzione che si può fare veramente moltissimo per bambini e adolescenti vittime di eventi molto più grandi di loro. L’aver potuto osservare coi miei occhi e per tanto tempo come è organizzato il Tcv, aver potuto seguire la crescita di tanti di quei ragazzi (in un modo o nell’altro ho interagito personalmente con almeno una cinquantina di loro per un arco di quattro anni) mi ha dato degli strumenti importanti per portare la stessa qualità di lavoro, la stessa compassione che ho sperimentato lì. Ho approfondito tutte le conoscenze necessarie in settori in cui non ero competente e ho recentemente costituito “Tenera mente – onlus” insieme ad amici di antica data per promuovere e gestire con loro progetti a favore di minori in Italia e nel mondo. Ci atteniamo alla Convenzione dell’Onu sui diritti dell’infanzia del 1990, che per me ha la sua massima espressione nell’articolo che prevede il diritto del bambino allo sviluppo armonioso e completo della sua personalità.

mercoledì 8 luglio 2009

Srebrenica, 14 anni dopo il genocidio / 1



Comincia oggi la settimana che si concluderà, sabato 11 luglio, con il ricordo del genocidio di Srebrenica, consumatosi l’11 luglio 1995 davanti agli occhi dei caschi blu dell’Onu e di una comunità internazionale del tutto assente e disinteressata.
Regalo ai lettori uno dei capitoli, l’ottavo, di “Srebrenica. I giorni della vergogna”, giunto alla seconda edizione e in traduzione in serbo-croato (sarà pubblicato in Bosnia il prossimo autunno).
Quello di Srebrenica è stato l’unico genocidio consumatosi in Europa dopo quelli perpetrati dal nazifascismo ai danni di ebrei e rom. “Srebrenica. I giorni della vergogna” è l’unico libro aggiornato interamente dedicato all’argomento in distribuzione in Italia e il primo libro di un autore italiano in materia a essere tradotto in serbo-croato e a essere immesso nel mercato balcanico.


Un giornalista a Srebrenica
Tratto da Srebrenica. I giorni della vergogna
Infinito edizioni, seconda ristampa, 2007


Il sole è basso dietro le case di Srebrenica, nonostante sia solo l’ora di pranzo. Il cielo è di nuovo velato di qualche lieve strato di nuvole; un vento frizzante sferza le gote, scompiglia capelli e fa alzare buffi mulinelli di polvere che ricadono confondendosi con la sporcizia e il grigio del cemento schiaf¬feggiato qua e là da qualche cazzuola per chiudere alla meglio i buchi delle granate. Sadik Salimović se ne sta fermo in un giubbotto marrone chiaro un po’ consunto accanto alla sua vecchia Volkswagen Polo rossa, parcheggiata con una certa fantasia una decina di metri più in là rispetto all’irta scalinata del palazzo comunale, non lontano da una catasta di legna da ardere che qual¬cuno ha già ordinato diligentemente per l’inverno incipiente sull’asfalto rab¬berciato, proprio sotto un palazzo dalla facciata bianca. L’uomo è incuriosito dalla presenza di forestieri e non lo nasconde. Si avvicina a Malkić, gli chiede qualcosa. Il sindaco ci presenta questo personaggio di mezza età, dal fisico leg¬germente appesantito e lo sguardo penetrante dietro gli spessi occhiali, come «il giornalista di Srebrenica».
È una sorta di istituzione, Salimović: tutti lo conoscono, quasi tutti lo sa¬lutano, in molti probabilmente lo temono. E lui teme loro, a giudicare dalla circospezione con cui cammina sui marciapiedi rattoppati schivando i segni delle granate sull’asfalto consunto. Ha scritto un libro sulla sua città, dalla fon¬dazione alle lacrime disperate delle donne di Srebrenica che piangono i loro cari. Non ha editore e per stamparne 3.000 copie si è indebitato per gli anni a venire. Ma ha fatto le cose in grande: copertina pesante con fondo argentato: che cosa c’è di meglio per la città dell’argento? «Sono stato a Tuzla per otto anni, durante e dopo la guerra. Ho avuto varie opportunità per andare via dalla Bosnia ma non ho voluto, non ho potuto. Ho sempre cercato di tornare a casa, qui a Srebrenica, e l’ho fatto due anni e mezzo fa: non me ne sono pentito» racconta una volta arrivati in cima alla salita che porta nel cuore della città. Gli spieghiamo che dobbiamo incontrarci con Hatidja Mehmedović, fondatrice e direttrice dell’associazione civica delle Madri di Srebrenica e Žepa, che si occupa di dare assistenza economica alle persone che decidono di rien¬trare nell’ex enclave. Sgrana gli occhi piccoli: la conosce, molto bene. Si offre di accompagnarci da lei.
Torniamo dal povero Eldin e lo ritroviamo pallido, a stomaco vuoto come noi – nonostante ci fossimo lasciati con lui intenzionato «a cercare un posto dove mangiare un sandwich» – e con un uomo grande e grosso dalla faccia squadrata che lo tallona zoppicando visibilmente e caracollando da un paio di metri d’altezza: «Dice che è un serbo di Bratunac. Che fa il tipografo e vuole un passaggio per tornare in città. Dice che non è riuscito «a scrollarselo di dosso» traduce un’allibita Emira mentre il tassista guarda da un’altra parte.
Dopo che a fatica Eldin ha riavviato il suo bianco mulo stanco seguiamo la Polo di Salimović fino a una strada sterrata fuori città, dove lasciamo il tas¬sista, decisamente preoccupato, e il suo nuovo “amico” di Bratunac, un uomo decisamente impaziente.
Ci inerpichiamo con Emira e Sadik fino a raggiungere la vetta della collina. Ci sono case distrutte, altre edificate a metà, altre ancora quasi finite. Quella di Hatidja appartiene a quest’ultima categoria. Anzi, ci spiegherà poi, grazie ai soldi che un’amica austriaca le ha donato ha potuto avviare la costruzione di alcuni muretti in cemento armato per contenere la terra che, durante le frequenti piogge, tendeva a franare contro le pareti della sua casa, costruita in basso, in pendenza rispetto alla vetta della collina.
Lì fuori vivono una parte dei ricordi più dolci e tragici di Hatidja: lì cre¬sce l’albero piantato dal maggiore dei suoi due figli, entrambi uccisi dai ser¬bo-bosniaci nel genocidio di Srebrenica; lì, sul cemento ruvido del piccolo spiazzo che si apre davanti alla sua casetta, fredda all’interno come la morte che avremmo conosciuto per nome e cognome il giorno dopo, a Tuzla, giace l’impronta di una piccola mano: «Ricordo ancora quando mio figlio minore la lasciò, premendo la manina sul cemento fresco. Volevano cancellarla, ma glie¬l’ho impedito: quest’impronta e quest’albero sono tutta la mia vita» spiega la donna, passando poi a raccontarci del serpente che proprio quella mattina le è entrato in casa e alla caccia intrapresa per espellere l’indesiderato e velenoso rettile da sotto i modesti ma ordinati mobili. Perché è così difficile trattenere le lacrime, a volte?
È nel salotto al primo piano, l’unica camera lievemente riscaldata da una stufa a legna di ghisa nera, che Sadik, consumando un caffè preparato da Ha¬tidja, che si limita a guardarci poiché sta osservando il Ramadan, ci racconta non senza resistenze della “sua” Srebrenica, prima di salutarci titubando un po’ davanti alla richiesta di poter citare il suo nome nell’intervista e lasciarci con l’universo immensamente complesso e tragico della donna che ci ospita, e che di tanto in tanto approfitta delle nostre chiacchiere per andarsi a mettere la camicia buona, tirare su la crocchia dei capelli ingrigiti dal dolore o infilare un ciocco di legna nella bocca di ghisa della stufa.
Sono poche domande, quelle che viene spontaneo fare a Salimović, le cui risposte fotografano una realtà difficile da capire, per chi viene da lontano.
Immagino che avrai avuto modo, in questi anni, grazie al tuo lavoro, di moni¬torare Srebrenica su tutta la stampa bosniaca: come se ne parla?
Srebrenica ha un’attenzione dei media molto particolare; qualche volta vie¬ne presentata in cattiva luce, ma per lo più sotto aspetti positivi. Credo che in città ci siano stati notevoli progressi in questi ultimi due anni. Penso ad esem¬pio alla vita pratica. Srebrenica prima della guerra era stata completamente illuminata, anche nelle zone rurali; dopo la guerra c’era corrente elettrica solo in città. Ora, con l’aiuto americano, l’elettricità copre il 95% del territorio.
Il sindaco ha detto che tutta l’area rurale è di nuovo illuminata.
Lui fa il politico, io il giornalista. So per certo che ne manca ancora in al¬cune zone, ma che si sta lavorando a questa come ad altre urgenze. Si stanno ricostruendo le strade, ad esempio, per poter raggiungere tutti i posti abitati; ai rientrati viene dato un aiuto, nei limiti delle possibilità. Percepiamo ancora assistenza umanitaria, dall’America e dai Paesi europei, perché qui la gente vive solo d’agricoltura, non c’è lavoro. Prima della guerra avevamo in città 10.000 impiegati; ora siamo in tutto 10.000 abitanti...e le persone che lavora¬no saranno al massimo 500. Tanti sfollati dei tempi della guerra non tornano perché qui non c’è lavoro; ma è altrettanto vero che queste stesse persone non hanno un’occupazione neanche a Tuzla, così magari alla fine qualcuno di loro decide di ritornare alle sue vecchie proprietà per occuparsi d’agricoltura e allevamento. Io personalmente ho lavorato per 7 anni alla televisione di Tuzla; ero impiegato a tempo indeterminato ma sono tornato benché fossi consapevole del fatto che qui non avrei mai trovato un posto fisso. Ora lavoro solo quando ci sono progetti dedicati a Srebrenica. Ma sono felice della scelta che ho fatto.
Dopo 10 anni, a tuo avviso, il genocidio di Srebrenica comincia a essere rivisi¬tato? In sostanza, il negazionismo sta riuscendo a guadagnare strada oppure no?
Vedi, le nostre ferite non potranno mai guarire, perché qui è successo qual¬cosa di particolare. Non lo possiamo dimenticare: dobbiamo vivere con que¬sto ricordo, soprattutto per quello che è successo l’11 luglio 1995, e non ho paura di dire che tutti coloro che fin qui hanno avuto il coraggio di ritornare sono degli eroi. Nel 1992 molti cittadini di Srebrenica, serbi e musulmani, sono dovuti fuggire, anche se ancora non si sapeva esattamente a che cosa saremmo andati incontro, in particolare per le decine di migliaia di persone che rimasero. Ora siamo tornati, pur sapendo quello che è accaduto. Credo che non ci sia nessuno capace di spiegare quale e quanta sia questa forza che ci spinge a rientrare nelle nostre case. Gran parte della gente che torna lo fa per¬ché ha un grande orgoglio. Mi chiedevi del revisionismo, del negazionismo… Beh, non possiamo nascondere che soprattutto all’inizio, da parte serba, si sia manifestata una certa resistenza, poiché la maggior parte di loro tendeva a ne¬gare il crimine. Però ufficialmente lo stesso presidente della Rs, Dragan Cavić, ha riconosciuto che a Srebrenica è stato compiuto un crimine atroce. È vero: persino i serbi di Srebrenica inizialmente hanno negato che il genocidio fosse stato commesso, ma ora lo riconoscono, sebbene non abbiano le idee chiare su che cosa sia successo esattamente qui, perché anche molti di loro sono stati rifugiati altrove. Inizialmente le autorità serbo-bosniache hanno fatto di tutto per nascondere i crimini, a cominciare dai militari, che negavano tutto. Ma una tragedia di queste dimensioni, con 7.500, forse 8.500, forse 10.000 e più morti, non può essere tenuta nascosta per sempre, è impossibile.
La stampa nazionale come ha accolto il terzo rapporto della Commissione della Rs, di cui accennavi poco fa?
Attualmente tutta la stampa riporta i fatti in maniera oggettiva. Ora non si tace più su questi argomenti. Per fortuna, è questa la verità.
La depenalizzazione del reato di diffamazione a mezzo stampa è stato un evento celebrato da tutti i giornalisti bosniaci come una grande conquista; ciò nonostante, è aumentata la pratica di chiedere ingenti risarcimenti in denaro ai giornalisti e alle testate, bloccando di fatto la libertà di stampa nelle aule dei tri¬bunali. Oltre a questo, esistono pericoli per un giornalista bosniaco nello svolgere la sua professione in maniera oggettiva?
Non c’è nessun pericolo. Lavoro per un giornale di cui sono caporedattore, insieme a sei giornalisti, e scriviamo di tutto in modo oggettivo, di qualsiasi tematica si tratti: dalle cerimonie che si svolgono al memoriale di Potočari all’apertura di nuove fosse comuni, nelle quali a volte vengono ritrovati i resti di musulmani, altre di serbi. Non sento, da parte dei colleghi giornalisti serbi, l’intenzione di coprire la verità. Scriviamo oggettivamente e la popolazione lo accetta. Non abbiamo avuto critiche sui nostri pezzi da parte di nessuno, nonostante abbiamo trattato anche temi delicati. Tre anni fa non avrei mai pensato che sarei tornato qui: avevo davvero paura di rientrare. Ora svolgo una professione “abbastanza pericolosa”, costantemente sotto i riflettori del¬la critica, ma finora non ho avuto problemi. Oggi è molto più facile fare i giornalisti in ogni zona della Federazione rispetto agli anni immediatamente successivi alla fine della guerra; ma certo, qui non siamo nella Federazione, e a Srebrenica è tutto più difficile, perché questo è il terreno più sensibile...
Deve andare. Finisce il caffè, saluta ed esce dopo aver abbracciato Hatidja. Dalla finestra lo vediamo risalire il viottolo di cemento fino alle scalette che portano alla strada sterrata. Il bavero alzato, le mani in tasca, la testa bassa: un giornalista a Srebrenica.