giovedì 26 maggio 2011

L’arresto di Ratko Mladić: riflessioni e spossatezza

Mi sono chiesto non so più quante volte, negli ultimi sedici anni, come avrei reagito alla notizia dell’arresto di Ratko Mladić. Non ricordo in quante occasioni ho scritto di lui, in questi tre lustri; quante volte ho dovuto pronunciare il suo nome, nel corso o alla fine delle presentazioni dei miei libri.
Sono sempre stato certo che il suo arresto sarebbe stato più difficile di quello del suo sodale e socio del terrore, l’ex auto-proclamato presidente della ex auto-proclamata Repubblica Srpska di Bosnia (Rs), Radovan Karadžić. Perché Mladić è a conoscenza di più segreti del mediocre poeta spiantato Karadžić; perché era lui il vero uomo di Slobodan Milošević nel mattatoio bosniaco; perché era lui quello che incontrava, nella sua profonda rozzezza e tracotanza, gli inviati stranieri e i negoziatori che goffamente proponevano piani di pace a chi pensava solo ad affogare la multiculturalità bosniaca nel sangue dei musulmani di quelle parti. E a mettersi in tasca terre e risorse come conseguenza della più evidente e clamorosa aggressione bellica del secondo dopoguerra europeo.
Ora che hanno arrestato “il generale”, l’uomo dalla mediocre biografia che ha spedito indietro nel tempo di quarant’anni la Bosnia Erzegovina, radendola al suolo sia materialmente che culturalmente, invece della gioia a prevalere è il senso di spossatezza. E anche scrivere queste poche righe pare una fatica immensa.
La biografia di Mladić rappresenta bene l’uomo: nato il 12 marzo 1943 a Bozinoviči, Erzegovina occidentale, il suo nome potrebbe essere rozzamente tradotto come Guerriero Giovane. Diplomatosi all’Accademia militare di Zemun, nel 1991, quando la Jugoslavia sta per esplodere è ancora uno dei tanti ufficiali del corpo Pristina, di stanza al confine tra Jugoslavia e Albania. Dopo aver appoggiato le rivendicazioni secessioniste dei serbi della Krajina in Croazia, nella primavera del 1992 è nominato comandante dell’esercito della Rs. Destituito dalle sue funzioni di capo di stato maggiore dell’esercito serbo-bosniaco nel novembre 1996, era ricercato per essere giudicato dal Tribunale penale internazionale per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia (Tpi) dellAja con l’accusa di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio. È stato l’ideatore e il realizzatore materiale del genocidio di Srebrenica, costato la vita a circa 10.700 persone con un cognome musulmano.
Una biografia mediocre come l’uomo, che solo grazie alla guerra e al bagno di sangue da lui stesso progettato e realizzato è riuscito a passare dal pantano del nulla alla storia. Come una sorta di piccolo, nuovo Adolf Hitler. Ma c’è chi si accontenta anche di questo.
L’attesa dell’arresto è stata estenuante, fin da quando, negli anni successivi alla fine della guerra del 1992-1995, i soldati francesi e russi si voltavano dall’altra parte, pur di non arrestare il carnefice, protetto dall’esercito, dai servizi segreti, dai politici ultranazionalisti serbi e serbo-bosniaci. Fino a pochi anni fa, d’altronde, Mladić percepiva un salario dall’esercito, che gli ha sempre creato il vuoto intorno per preservarne la libertà e non intaccare la mitologia barbara creata intorno alla sua rozza e sanguinaria figura dagli ultranazionalisti serbi. Che poi, a dirla tutta, se smettessimo di chiamare costoro ultranazionalisti e usassimo il nome che loro spetta – nazisti – faticheremmo meno e sarebbe tutto più chiaro.

Spossatezza, dunque. E, nella storicità del momento, in un’Italia in cui ben pochi sanno che cosa ha fatto costui alle nostre porte, alcune riflessioni vengono spontanee, e può valer la pena buttarle lì sul tavolo, magari parlarne, dando anche così fiato alle fanfare stonate dei sostenitori di Mladić – ne ha tanti anche in Italia – che ora cercheranno sfogo alla loro impotenza gretta, come sono soliti fare, nell’offesa e nel turpiloquio informatico, attività di cui sono veri maestri (basti vedere l’immondizia neo-nazista che molti di loro caricano su Youtube).
La prima riflessione riguarda l’annuncio di Boris Tadić, col quale il presidente della Repubblica serba – definito da molti un “nazionalista moderato” – oggi all’ora di pranzo raccontava ai serbi e al mondo che la latitanza di Mladić era finita. “Credo che l'operazione che ha portato all'arresto di Mladić renda il nostro Paese più sicuro, e più credibile. Sono fiero del risultato raggiunto, è una cosa buona per la Serbia che questa pagina della storia si sia chiusa. E che si sia conclusa la fuga di Mladić. Ora bisogna continuare a cercare i suoi complici, quelli che l'hanno aiutato a nascondersi per tutti questi anni, anche tra membri del governo. Arresteremo Goran Hadzić. Per adesso però penso che per la Serbia le porte dell'Ue siano aperte", ha detto Tadić, più realista del re, come suo solito.
Con poche parole il presidente serbo ha detto una serie di verità, verità inconfutabili per chi conosce un minimo la realtà di quelle parti. Innanzitutto, il fatto che Mladić fino a oggi abbia goduto della protezione anche di membri del governo e delle alte sfere delle forze armate è innegabile; potremmo arrivare a dire che queste protezioni erano attive fino a ieri, vista la presenza di elementi nazionalisti radicali nel governo di Tadić, e che poi improvvisamente qualcosa deve essere cambiato. Questo vuol dire che sono in arrivo, nel medio o addirittura nel breve periodo, modifiche importanti anche nel governo serbo e che ora Tadić ha un ticket formidabile da far valere nei confronti dell’elettorato moderato serbo, che ha avuto fiducia in lui e che poi rappresenta la maggioranza degli elettori e dei cittadini serbi, donne e uomini stanchi che vogliono finalmente uscire dall’incubo degli anni Novanta e ricominciare a guardare con ottimismo e libertà al futuro. Un futuro europeo e non più filo-russo.
La seconda grande verità nascosta nelle parole di Tadić riguarda il fatto che ci sono ancora tanti, tantissimi criminali in circolazione, come ad esempio la marmaglia paramilitare di Arkan, e che ora tutti ci attendiamo che le manette scattino ancora parecchie volte e che le celle finalmente si riempiano.
Una terza verità riguarda la questione delle porte aperte nella Ue. La consegna, nell’estate del 2008, del barbuto Karadžić le ha schiuse, portando poco dopo dapprima Belgrado, poi Sarajevo, a firmare gli ambìti Asa, gli accordi di pre-adesione all’Unione europea. Ora la consegna di Mladić alla giustizia internazionale dovrebbe spalancare definitivamente le porte all’ingresso della Serbia nella Ue e assestare una mazzata da ko agli ultranazionalisti serbi e ai loro sostenitori russi. E questo potrebbe portare a un’interessante conseguenza, ovvero all’isolamento definitivo dell’ultranazionalista, provocatore e miliardario primo ministro serbo bosniaco Milorad Dodik, l’ultimo assertore dell’indipendenza serbo bosniaca in un’ottica di successiva adesione all’ammuffito e fine ottocentesco progetto di Grande Serbia.
Le parole di Tadić, però, ci portano a spostare l’attenzione dai Balcani all’Olanda, all’Aja. Il mandato del Tribunale scade alla fine del 2014 e, fino a oggi, in pochi tra i membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu sono sembrati intenzionati a prolungarne i tempi di lavoro. Da qui alla scadenza del mandato del Tpi mancano due anni e mezzo. Per dare un’idea dei tempi del Tribunale, basti pensare che i quasi tre anni dall’arresto di Karadžić a oggi non sono bastati neppure per arrivare a una sentenza di condanna di primo grado, nonostante la riduzione d’ufficio dei tanti capi d’accusa. E sarebbe auspicabile che sia Karadžić che Mladić venissero condannati in appello (sempre che il malato Mladić abbia, ed è auspicabile, così tanti anni di vita davanti), prima di mandare in soffitta – se proprio necessario, ma su questo molti sono i dubbi – il Tpi. Quel che si chiede è un nuovo inizio al Tpi, ai potenti del mondo, alla giustizia internazionale. Le donne di Srebrenica di quello parlano da oggi, di un “nuovo inizio” successivo all’arresto di Mladić. Loro, molto ma molto più stanche di tutti noi, sanno bene che il boia di Srebrenica ha ancora amici e sanno, ancor meglio, che fino a oggi sono riuscite a ritrovare e seppellire solo circa un terzo dei loro cari torturati e barbaramente ammazzati da Mladić e dai suoi nel luglio 1995. Il lavoro, quindi, è solo all’inizio, nonostante il tempo passato e il dolore che, invece, non passa mai.
Un’ultima cosa su cui riflettere riguarda la posizione degli Stati Uniti e in particolare del presidente Barack Obama, giunto in Europa pochissime settimane dopo l’ultima “sparata” referendaria di Dodik, che questa volta puntava a spaccare la Bosnia Erzegovina minandone la credibilità del potere giudiziario. Ed è probabile che proprio dall’ultimo viaggio di Obama in Europa qualcosa si sia mosso e sia arrivato l’ok all’arresto di Mladić. Se così fosse, ancora una volta l’Unione europea, nella quale Belgrado e Sarajevo dimostrano di voler entrare con entusiasmo, avrebbe dimostrato la sua pochezza e la sua inconsistenza in politica estera. E questa è un’altra questione non di poco conto su cui riflettere, per noi “comunitari” e per coloro che vogliono entrare in questa strampalata e litigiosa famiglia. Che ricorda terribilmente la pochezza di questa nostra povera e tartassata Italia.

martedì 24 maggio 2011

“La magia di camminare tra le genti del mondo” ne “Il coraggio d’essere felici – intervista a Giulio Vanzan


“Chiediti cosa ti rende vivo e seguilo. Perché ciò di cui il mondo ha bisogno sono persone che hanno scelto di vivere”, ha scritto H. Whitman. Essere felici è una scelta da fare tutti i giorni, in ogni situazione del nostro quotidiano. Da dove cominciare? Forse da un libro, IL CORAGGIO D’ESSERE FELICI, di Giulio Vanzan, che attraverso un percorso che parte dalla letteratura educativa – passando per lo yoga, la meditazione e la pedagogia del brasiliano Paulo Freire, per arrivare infine alle tecniche del Teatro dell’Oppresso – ci conduce in un viaggio che porta a interrogarci sulla nostra identità come persone in relazione con noi stessi, con gli altri e con il mondo, pronti a prendere in mano le nostre vite e a farne qualcosa di più. Ne abbiamo parlato qui con l’autore.

Giulio, se la validità di un libro si vede già dal titolo, il tuo è senz’altro un lavoro che va letto. Spiegaci, però, che cosa voglia dire trovare o avere il coraggio di essere felici, perché è un concetto che spiazza non poco…
Penso che la felicità sia una conquista quotidiana, una sfida di tutti i giorni, da affrontare nonostante i mille ostacoli che la vita ci pone davanti. Per questo ci vuole coraggio – che letteralmente significa “agire col cuore” – e fede nella vita e nel fatto che, oltre le nubi, c´è sempre il sole. Ma per farlo ci vuole metodo e persistenza e volontà di guardarsi dentro e di vivere con gli altri, con accettazione e forza per cambiare le cose.

Spiazza, a proposito, anche la copertina del libro, che ti ritrae abbracciato a un gigantesco orso di peluche…
Quell’orso gigante é un amico che ho trovato a Los Angeles, dove sono andato per fare un corso di formazione. Era seduto tutto solo in una piazza circondato da ragazzi che facevano skateboard. Mi sembrava proprio che avesse bisogno di abbracciare qualcuno e di essere abbracciato. Se vuoi ti passo il suo numero, così lo vai a trovare...!

Non vorrei creare gelosie… Ma secondo te oggi quell’orso è felice? E tu, lo sei?
Sicuramente sta vedendo la vita con serenità e auteniticità. Forse avremmo tutti bisogno di sederci un po’ e respirare! In questo momento mi trovo a São Paulo, in Brasile, per un progetto di sviluppo locale con giovani. Sto vivendo con di fronte un’enorme favela che si distingue tra i grattaceli e gli elicotteri di questa città che si sta arricchendo a un ritmo frenetico. È difficile accettare quello che vedo tutti i giorni, ma so che al di là della povertà e dell’emarginazione, esiste il cuore e l’anima di tanta gente che come me, come tutti, vuole solo essere felice. E questo mi fa sentire vivo e grato alla vita!

Il libro nasce appunto dalle tue esperienze come educatore in Brasile, in luoghi sperduti e in contesti difficili da capire se non li si tocca da vicino. Parlaci un po’ di questo Brasile e delle tue esperienze di educatore.
Il Brasile è un Paese molto vasto, che ho avuto la fortuna di visitare in molte delle sue regioni e città. A una prima occhiata, ti sembra di averlo capito senza problemi: un po´di samba, frutta, calcio, spiagge e belle donne...con della povertà qua e là. Se lo si analizza più a fondo, se ci si ferma a conoscere bene la realtà della gente, la struttura sociale, le dinamiche della disuguaglianza, eccetera, si capisce che si ha a che fare con un mondo davvero complesso e diverso dal nostro, anche se molto in sintonia con il modo di vivere italiano: emotivo e sentimentale. Ho iniziato a lavorare qui nel 2005, prima come educatore in un progetto in una favela di Salvador de Bahia, poi in appoggio al Movimento Senza Terrà nel nord-est. Ho passato in seguito un anno come funzionario dell’Onu a Brasilia e ora sono di nuovo qui per realizzare un progetto di sviluppo locale partecipato con giovani e adolescenti di São Paulo. Il mio stile di lavoro non è di dare il pesce e nemmeno di insegnare a pescare. Ho l’abitudine di chiedere alle persone cosa vogliono mangiare e poi camminare con loro per aiutarle a realizzare i propri sogni, le proprie aspirazioni, cercando di usare tutte le risorse che hanno a disposizione, in modo autonomo.

Come nasce questo tuo lavoro?
Ho studiato cooperazione allo sviluppo all’Università di Padova e mentre lo facevo lavoravo come clown di corsia negli ospedali e in progetti nel Sud del mondo. Ho sempre pensato che qualsiasi azione di sviluppo dovesse basarsi sul far uscire l’umano (e con lui il divino) che sta dentro di noi, empaticamente. Così, a poco a poco, ho iniziato a fare della mia passione il mio lavoro, che unisce l’aspetto sociale con quello di crescita personale e, ovviamente, quello artistico perché, come diceva Jaques Lecoq, “tutto terminerà un giorno, in un gesto poetico”.

Hai pentimenti, ripensamenti? A volte pensi che sarebbe stato meglio fare un lavoro più “normale”?
Non ho ripensamenti o pentimenti. Ma a volte la tentazione di fare un lavoro sicuro di otto ore al giorno per cinque giorni alla settimana è forte. È una scelta di vita diversa che, personalmente, mi rende felice. Forse c’è bisogno di persone che aprano nuove strade, affinché gli altri le possano percorrere in seguito. Penso di essere una di queste persone e forse è per questo che sono diverso.

Che cosa ti lascia dentro lavorare in luoghi sperduti, con popolazioni di cui tutti noi probabilmente ignoriamo persino l’esistenza?
Una volta, mentre lavoravo presso l’accampamento Senza Terra chiamato “17 di Aprile”, vicino a Teresina nel Piauì, dei pistoleros hanno dato fuoco all’intero villaggio, mettendo a rischio la vita di migliaia di persone. Sono riuscito a salvarmi per un pelo, nonostante abbia perso tutto: soldi, documenti, vestiti… Solo dopo un mese di avventure pazzesche sono riuscito ad arrivare a Recife presso il consolato italiano e uscire da questa temporanea clandestinità. In tutto questo tempo mi sono sentito amato e protetto da Dio, come mai nella mia vita. Ho capito l’importanza dell’abbandono e della fede nell’uomo e nella solidarietà tra i poveri. Penso di aver superato la linea d’ombra che separa qualsiasi volontario-cooperante dalla realtà dei poveri, perché mi sono trovato a vivere con loro e come loro. Ciò che mi lascia l’amaro in bocca è la difficoltà a passare queste emozioni agli altri, soprattutto in Italia: sono cose troppo forti e troppo grandi, che forse escono dalla nostra mappa mentale e così rimangono solo nella mia memoria. Forse dovrei scriverci su un altro libro...!

E che cosa ti spinge, ogni volta, a ripartire? Forse proprio il coraggio di essere felice?
Sicuramente sì: il desiderio e il coraggio di essere di più, senza fuggire da nulla, ma camminando con integrità tra le genti del mondo. È spesso difficile, ma l’Amore è anche fatto di sacrificio.

mercoledì 18 maggio 2011

Bosnia Express su Rai Italia Radio e poi a Torino, Pont Saint Martin, Casalecchio...

Ciao cari,
saltiamo per ora a piè pari ogni commento sul deludente Salone del libro di Torino,probabilmente il peggiore di sempre (magari ci torneremo sopra, una volta che riuscirò a stare due giorni nello stesso posto...).
Lascio qui un brevissimo per dirvi che oggi, alle 14,43 e in replica alle 18,32, Marco Curatolo mi ha intervistato con la consueta bravura e sensibilità dai microfoni di Rai Italia Radio. Per ascoltare la diretta basta andare su http://www.international.rai.it/raitalia.tv/taccuino.php e fare click su Ascolta la diretta di Rai Italia Radio.

Ciò detto, ecco gli appuntamenti di mercoledì 18 e giovedì 19 (a breve vi comunicherò le novità per l'estate, con "Bosnia Express", e altre novità che ora non anticipo perché per me molto molto importanti):
- mercoledì 18 maggio, TORINO, Circolo dei Lettori, via Bogino 9, Sala Artisti, ore 18,00; Intervengono Donatella Sasso (Istituto di studi storici Gaetano Salvemini) e Javier Gonzàlez Dìez (Amnesty International - Sezione Italiana); organizza Amnesty International Piemonte e Valle d’Aosta;
- martedì 18 maggio, PONT-SAINT-MARTIN (AOSTA), Centro culturale di Villa Michetti (sede della biblioteca), via Resistenza, 5, ore 21,00; introduce: Giulia Castellazzi (Responsabile della Circoscrizione Piemonte e Valle d'Aosta di Amnesty International), modera Javier Gonzàlez Dìez (Amnesty International, Sezione Italiana); organizza Amnesty International Piemonte e Valle d’Aosta;
- giovedì 19 maggio, CASALECCHIO DI RENO (BO), presso la Casa per la pace - La Filanda, via Canonici Renani 8, ore 20,45; organizza l’Associazione Percorsi di Pace.

Altre date in preparazione.

Dal 30 settembre 2010 a oggi abbiamo presentato il libro 37 volte, ed esattamente a: Albano Laziale (RM), Ancona, Bari, Bologna, Catania, Cerignola (Fg), Cisliano (MI), Corato (Ba), Firenze, Giulianova, Lecce, Massafra (Ta), Milano, Modena (2), Molfetta (Ba), Muro Leccese (Le), Padova, Palermo, Parma, Pisa, Roma (7 volte), San Benedetto del Tronto, San Pietro Vernotico (Br), Saronno (VA), Sedriano (MI), Taranto, Tarquinia (VT), Venezia-Mestre, Villa di Serio (BG), Vittorio Veneto.

Per proporre nuove presentazioni:
direzione.editoriale@infinitoedizioni.it
info@infinitoedizioni.it
lu.ne@libero.it
facebook: Luca Leone

mercoledì 11 maggio 2011

"Bosnia Express" riparte tra Torino, Aosta e Casalecchio di Reno

Ciao cari,
brevissimo post, di gran corsa, solo per ricordarvi i principali appuntamenti di Bosnia Express di maggio, da domani in avanti:

- da giovedì 12 a lunedì 16 maggio sarò continuativamente allo stand Infinito edizioni in occasione del Salone internazionale del libro di Torino (Padiglione 2, stand M05 con gli amici di Edizioni Estemporanee, proprio davanti all'ingresso principale del padiglione);
- mercoledì 18 maggio, TORINO, Circolo dei Lettori, via Bogino 9, Sala Artisti, ore 18,00; Intervengono Donatella Sasso (Istituto di studi storici Gaetano Salvemini) e Javier Gonzàlez Dìez (Amnesty International - Sezione Italiana); organizza Amnesty International Piemonte e Valle d’Aosta;
- martedì 18 maggio, PONT-SAINT-MARTIN (AOSTA), Centro culturale di Villa Michetti (sede della biblioteca), via Resistenza, 5, ore 21,00; introduce: Giulia Castellazzi (Responsabile della Circoscrizione Piemonte e Valle d'Aosta di Amnesty International), modera Javier Gonzàlez Dìez (Amnesty International, Sezione Italiana); organizza Amnesty International Piemonte e Valle d’Aosta;
- giovedì 19 maggio, CASALECCHIO DI RENO (BO), presso la Casa per la pace - La Filanda, via Canonici Renani 8, ore 20,45; organizza l’Associazione Percorsi di Pace.

Altre date in preparazione.
Dal 30 settembre 2010 a oggi abbiamo presentato il libro 37 volte, ed esattamente a: Albano Laziale (RM), Ancona, Bari, Bologna, Catania, Cerignola (Fg), Cisliano (MI), Corato (Ba), Firenze, Giulianova, Lecce, Massafra (Ta), Milano, Modena (2), Molfetta (Ba), Muro Leccese (Le), Padova, Palermo, Parma, Pisa, Roma (7 volte), San Benedetto del Tronto, San Pietro Vernotico (Br), Saronno (VA), Sedriano (MI), Taranto, Tarquinia (VT), Venezia-Mestre, Villa di Serio (BG), Vittorio Veneto.

Per proporre nuove presentazioni:
direzione.editoriale@infinitoedizioni.it
info@infinitoedizioni.it
lu.ne@libero.it
facebook: Luca Leone

lunedì 9 maggio 2011

“Il sentiero dei tulipani” o viaggio tra i danni irreparabili della guerra in Bosnia – intervista ad Angelo Lallo


di Luca Leone
©Infinito edizioni 2011 – Si consente l’uso libero di questo materiale citando chiaramente la fonte
Lo stupro di 50.000 donne, oltre centomila morti, la devastazione della Bosnia Erzegovina affondano le radici nello psiconazionalismo, cui è dedicato IL SENTIERO DEI TULIPANI. PSICONAZIONALISMO IN BOSNIA ERZEGOVINA, un libro assolutamente unico.
Il nazionalismo balcanico si è intrecciato con teorie di studiosi appartenenti a varie discipline, tutti animati da un’ideologia esasperata. Nei Balcani ci si è trovati di fronte a un nazionalismo che ha operato una torsione verso discipline psichiatriche, con sconfinamenti teorici tratti da psicologia, filosofia, storia e genetica. Una variante del nazionalismo, quella balcanica, che ha trovato piena sintonia con gli ambienti militari, politici, economici che ne hanno assunto le teorie, utilizzandole come base per le pulizie etniche e gli eccidi – incluso il genocidio di Srebrenica – della guerra in Bosnia Erzergovina e in Croazia (1991-1995) e, successivamente, come protezione per non essere condannati per i crimini commessi.
Di questo e molto altro abbiamo parlato in un’approfondita intervista con l’autore del libro, il ricercatore storico Angelo Lallo.


Angelo, il tuo è il primo lavoro in assoluto che racconti dall’interno, e con dovizia di particolari, le radici dello psiconazionalismo nei Balcani. Vuoi spiegare ai lettori che cosa intendi per psiconazionalismo e come sei arrivato a coniare questo neologismo?
Quando si crea un’identità nazionale legata dal collante psicologico della paura e dell’angoscia; quando il nazionalismo si lega alla terra, al sangue e all’odio sociale; quando si costruisce una bolla collettiva di paura fondata sulla psicologia di massa; quando il nazionalismo fa una torsione verso discipline psichiatriche con ampie incursioni nella genetica/filosofia/storia, in questo caso si genera un connubio anomalo tra nazionalismo e psichiatria deviata. Il neologismo arriva direttamente dai Balcani ed è stato assunto discutendo con operatori della psichiatria bosniaca che continuamente (e forse inconsapevolmente) riproponevano questo termine per spiegarmi la particolarità del nazionalismo della Bosnia Erzegovina. Da notare la provenienza professionale di alcuni attori della tragedia balcanica: Jovan Rašković (psichiatra), Radovan Karadžić (psichiatra), Biljana Plavšic (biologa, specializzata in genetica), Vasa Čubrilović (filosofo/storico), Vasilje Krestić (storico).

Il sottotitolo del libro (“Psiconazionalismo in Bosnia Erzegovina”) è splendidamente descrittivo. Il titolo (“Il sentiero dei tulipani”) invece è chiaramente evocativo. Quale storia giace dietro questo titolo?
È un titolo “rubato” da un viaggio introspettivo nell’anima violata. “Il sentiero dei tulipani” ripropone il momento di uno stupro etnico a opera dei serbi nei confronti di una ragazza bosniaca. Oltre lo stupro – avvenuto in una radura piena di fiori – la ragazza, incredibilmente senza rancore, ricorda una stessa radura alla fine di un sentiero pieno di tulipani durante un suo bel viaggio in Turchia. Sembra giusto (o almeno questo è il mio pensiero) riproporre un titolo che possa ricordare che lo stupro etnico, oltre Srebrenica, è stato l’atto peggiore di una guerra che segnerà per sempre 50.000 donne bosniache.

Per quanto riduttivo e difficile, è pensabile enumerare i danni del nazionalismo in Bosnia Erzegovina e fare nomi e cognomi?
I danni in Bosnia Erzegovina sono economici, ma soprattutto sociali con ripercussioni drammatiche su ogni campo della società civile. I più importanti riguardano il sistema scolastico, la rete culturale, la disoccupazione. Si potrebbe compilare un lungo elenco denso di criminali e manovalanza senza nazionalità, tuttavia le colpe principali vanno addebitate ai nazionalisti ideologicamente esasperati che hanno fomentato odio e divisioni senza curarsi della loro gente e mi riferisco a Slobodan Milošević, Franjo Tuđman e Alija Izetbegović.

Jovan Rašković è una figura chiave non solo del tuo libro ma dell’intera parabola del nazionalismo odierno e dello psiconazionalismo in Bosnia. Puoi raccontarci di questo psichiatra e spiegare quale ruolo lui e le sue teorie abbiano avuto nella guerra bosniaca del 1992-1995?
Jovan Rašković era una figura estremamente importante nel panorama politico ante guerra. Figura carismatica, capace di infuocare le folle con parole d’ordine pericolose, a lui si deve la creazione dello stato emozionale che ha permesso la mattanza bosniaca. Nei suoi seminari a Zagabria e a Belgrado era solito affermare che i tre gruppi nazionali non potevano coesistere in Bosnia Erzegovina e quindi bisognava provocare nella popolazione una sensazione di odio – tutti contro tutti – introducendo lo stato di “alterazione” permanente. In alcuni suoi corsi universitari, affollati all’inverosimile, si trattava anche della questione dello stupro etnico come difesa di un’etnia. Non era un modesto e ambiguo personaggio, come si vuol far credere colpevolmente, ma una figura preminente dello scenario balcanico non solo perché aveva creato il partito democratico serbo poi affidato a Radovan Karadžić, ma principalmente perché esprimeva concetti pericolosi utilizzando categorie psichiatriche applicate al tessuto sociale/politico, impiegando la psichiatria a supporto ideologico della pulizia etnica, finalizzata da criminali come Mladić e Arkan.

Il tuo è innanzitutto un libro di storia, ma ha suscitato interesse nel mondo della psichiatria? Con quali giudizi?
Fra storici e psichiatri non c’è una consuetudine di rapporti dialettici, non esiste uno scambio di informazioni, anzi molti medici tendono a rivendicare l’esclusività del loro “mestiere”. E anche per questo libro, a parte pochissime eccezioni, non ho avuto alcun aiuto dalla psichiatria ufficiale, per esempio nel reperire le fonti. Tuttavia poiché il libro è uscito da poche settimane, aspetto con curiosità le valutazioni degli psichiatri italiani e bosniaci.

Qual è lo stato dell’arte oggi, in Bosnia? Il nazionalismo è ancora così forte e così teoricamente e metodologicamente violento?
Paradossalmente il nazionalismo è più forte adesso che prima della guerra perché si è sedimentato nella mente della popolazione ed è questo l’effetto più vistoso dalla campagna ideologica ante guerra curata da personaggi come Rašković, una semina che ha messo radici nel tessuto sociale bosniaco.

Al di là – si fa per dire, ovviamente – delle colpe e delle immediate conseguenze dello psiconazionalismo nei Balcani, quali sono le conseguenze odierne? Con quali e quanti traumi le persone comuni si trovano a convivere? E in quale contesto?
Le conseguenze sono che il Paese è diviso profondamente con pochissime possibilità di un ritorno a quell’armonia sociale e culturale che era la caratteristica unica della Bosnia. Nel libro produco documenti che attestano un Paese “depresso” con una condizione psicologica molto sottovalutata, in primis dai responsabili politici bosniaci. Dai documenti in mio possesso c’è una correlazione allarmante tra livelli di traumi subiti durante la guerra e sintomi psicologici odierni (Dspt – ideazioni paranoiche – ansia – ostilità – depressione – psicoticismo – ansia fobica) con scarsa possibilità di essere curati. Pensiamo poi allo stato di salute dei bambini e alla difficoltà della cura in quanto in Bosnia manca la figura dello psicoterapeuta infantile. Il contesto generale è di difficoltà economica grave, mentre i fondi internazionali si sono riversati in mille rivoli senza mai arrivare alla popolazione. Un altro capitolo è lo stato di abbandono in cui versano la maggior parte delle donne che hanno subìto violenza etnica, assistite in maniera encomiabile da associazioni internazionali fra cui quella di Fadila Memišević, ma quasi completamente dimenticate dalla società bosniaca.

Potresti dare una valutazione, da storico, del perché non va abbassata l’attenzione sulla Bosnia e sui Balcani?
La storia della Bosnia Erzegovina ancora non è stata scritta. E se allo storico preme ragionare delle verità sgradevoli su cui vale la pena di riflettere o delle cattive cose nuove (per usare concetti brechtiani), allora bisogna tenere alta l’attenzione sulla Bosnia e sui Balcani in generale perché la guerra non è finita. Il conflitto continua nella mente delle persone, nei rapporti tra le nazionalità, perché Srebrenica, l’assedio di Sarajevo, la morte di tante persone, gli stupri etnici, lo smembramento di una nazione, sono stati rimossi dagli accordi di Dayton. La conferenza di pace ha lasciato intatti i presupposti per altre instabilità perché a Dayton la pulizia etnica e il genocidio furono accettati in un contesto internazionale, come se la tragedia bosniaca non fosse mai avvenuta.

Che cosa possiamo imparare noi italiani, così bravi a rimuovere le nostre colpe e le nostre responsabilità, dalla guerra e da dopoguerra bosniaco?
I politici italiani – nella stragrande maggioranza poco adatti al loro mandato – sottovalutano il ruolo della Lega Nord e le parole d’ordine separatiste, razziste e xenofobe pronunciate con un intento ben preciso in ogni intervista dai suoi dirigenti più radicali: far abituare le persone a quelle parole d’ordine. Sono concetti già sentiti nelle piazze della Serbia e della Croazia prima della guerra in Bosnia, quando si faceva leva sul sentimento di protezione psicologica collettiva contro l’inquinamento etnico e sulle corde emotive legate alla paura nei confronti dell’altro. Il passo all’odio estremo è stato lineare e la distruzione della Bosnia è ancora lì a testimonianza. Invito a leggere il libro di Jovan Rašković Luda Zemlja (Una nazione folle) perché in quelle pagine si ritroveranno molti discorsi della Lega Nord. Tenere alta l’attenzione sull’evoluzione di queste parole d’ordine e disinnescare la voglia di secessione è compito di ogni cittadino, di destra o di sinistra.

Radovan Karadžić sarà condannato e Mladić sarà finalmente catturato?
Per quanto riguarda Karadžić, credo che il patto scellerato sottoscritto con una parte dell’intelligence militare e politica che ha gestito la fine del conflitto e poi la sua cattura, lo salverà dall’ergastolo e sconterà i pochi anni di reclusione in un carcere/cottage, forse in Svezia come la presidentessa della Republica Srpska, Biljana Plavšic. È inquietante invece sapere che Mladić è un libero cittadino, si conosce il suo indirizzo, qualsiasi cosa della sua vita, ma che a tutt’oggi non si intravede alcuna possibilità di catturarlo. Quali le motivazioni? Cosa impedisce di trascinarlo all’Aja? Chi lo protegge a livello internazionale? Domande senza risposte, ma rimane il fatto che fino a quando non si porterà Mladić di fronte al Tpi dell’Aja non potrà iniziare la lunga fase della “rielaborazione del lutto” delle donne di Srebrenica.

Il Tribunale per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia potrà portare a termine il suo mandato o alla fine le potenze che siedono nel Consiglio di sicurezza dell’Onu come membri permanenti riusciranno a smontarlo pezzo per pezzo e a chiuderlo?
Il Tpi è un organismo sovranazionale con funzioni e autorità speciali che spesso si muove su linee di principio non sufficienti a obbligare gli Stati a farsi consegnare i criminali di guerra, come nel caso di Mladić. Il suo mandato scade nel 2014 e sebbene il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha ribadito che non cederà alcun processo alle corti nazionali e che si potrà continuare a ricercare i criminali di guerra (espressamente Mladić e Hadzić) ci sono così tanti documenti da esaminare che tre anni e mezzo sono assolutamente insufficienti a formulare giuste condanne. Alla fine del mandato i membri permanenti del Consiglio di sicurezza, fatto salvo l’encomiabile lavoro dei giudici (molte volte sottovalutato) chiuderanno il sipario in fretta e probabilmente non rinnoveranno il mandato perché è evidente il contrasto tra l’essenza del Tpi e gli Stati nazionali, tra realpolitik e giuste aspettative delle popolazioni ad avere giustizia.