martedì 24 maggio 2011

“La magia di camminare tra le genti del mondo” ne “Il coraggio d’essere felici – intervista a Giulio Vanzan


“Chiediti cosa ti rende vivo e seguilo. Perché ciò di cui il mondo ha bisogno sono persone che hanno scelto di vivere”, ha scritto H. Whitman. Essere felici è una scelta da fare tutti i giorni, in ogni situazione del nostro quotidiano. Da dove cominciare? Forse da un libro, IL CORAGGIO D’ESSERE FELICI, di Giulio Vanzan, che attraverso un percorso che parte dalla letteratura educativa – passando per lo yoga, la meditazione e la pedagogia del brasiliano Paulo Freire, per arrivare infine alle tecniche del Teatro dell’Oppresso – ci conduce in un viaggio che porta a interrogarci sulla nostra identità come persone in relazione con noi stessi, con gli altri e con il mondo, pronti a prendere in mano le nostre vite e a farne qualcosa di più. Ne abbiamo parlato qui con l’autore.

Giulio, se la validità di un libro si vede già dal titolo, il tuo è senz’altro un lavoro che va letto. Spiegaci, però, che cosa voglia dire trovare o avere il coraggio di essere felici, perché è un concetto che spiazza non poco…
Penso che la felicità sia una conquista quotidiana, una sfida di tutti i giorni, da affrontare nonostante i mille ostacoli che la vita ci pone davanti. Per questo ci vuole coraggio – che letteralmente significa “agire col cuore” – e fede nella vita e nel fatto che, oltre le nubi, c´è sempre il sole. Ma per farlo ci vuole metodo e persistenza e volontà di guardarsi dentro e di vivere con gli altri, con accettazione e forza per cambiare le cose.

Spiazza, a proposito, anche la copertina del libro, che ti ritrae abbracciato a un gigantesco orso di peluche…
Quell’orso gigante é un amico che ho trovato a Los Angeles, dove sono andato per fare un corso di formazione. Era seduto tutto solo in una piazza circondato da ragazzi che facevano skateboard. Mi sembrava proprio che avesse bisogno di abbracciare qualcuno e di essere abbracciato. Se vuoi ti passo il suo numero, così lo vai a trovare...!

Non vorrei creare gelosie… Ma secondo te oggi quell’orso è felice? E tu, lo sei?
Sicuramente sta vedendo la vita con serenità e auteniticità. Forse avremmo tutti bisogno di sederci un po’ e respirare! In questo momento mi trovo a São Paulo, in Brasile, per un progetto di sviluppo locale con giovani. Sto vivendo con di fronte un’enorme favela che si distingue tra i grattaceli e gli elicotteri di questa città che si sta arricchendo a un ritmo frenetico. È difficile accettare quello che vedo tutti i giorni, ma so che al di là della povertà e dell’emarginazione, esiste il cuore e l’anima di tanta gente che come me, come tutti, vuole solo essere felice. E questo mi fa sentire vivo e grato alla vita!

Il libro nasce appunto dalle tue esperienze come educatore in Brasile, in luoghi sperduti e in contesti difficili da capire se non li si tocca da vicino. Parlaci un po’ di questo Brasile e delle tue esperienze di educatore.
Il Brasile è un Paese molto vasto, che ho avuto la fortuna di visitare in molte delle sue regioni e città. A una prima occhiata, ti sembra di averlo capito senza problemi: un po´di samba, frutta, calcio, spiagge e belle donne...con della povertà qua e là. Se lo si analizza più a fondo, se ci si ferma a conoscere bene la realtà della gente, la struttura sociale, le dinamiche della disuguaglianza, eccetera, si capisce che si ha a che fare con un mondo davvero complesso e diverso dal nostro, anche se molto in sintonia con il modo di vivere italiano: emotivo e sentimentale. Ho iniziato a lavorare qui nel 2005, prima come educatore in un progetto in una favela di Salvador de Bahia, poi in appoggio al Movimento Senza Terrà nel nord-est. Ho passato in seguito un anno come funzionario dell’Onu a Brasilia e ora sono di nuovo qui per realizzare un progetto di sviluppo locale partecipato con giovani e adolescenti di São Paulo. Il mio stile di lavoro non è di dare il pesce e nemmeno di insegnare a pescare. Ho l’abitudine di chiedere alle persone cosa vogliono mangiare e poi camminare con loro per aiutarle a realizzare i propri sogni, le proprie aspirazioni, cercando di usare tutte le risorse che hanno a disposizione, in modo autonomo.

Come nasce questo tuo lavoro?
Ho studiato cooperazione allo sviluppo all’Università di Padova e mentre lo facevo lavoravo come clown di corsia negli ospedali e in progetti nel Sud del mondo. Ho sempre pensato che qualsiasi azione di sviluppo dovesse basarsi sul far uscire l’umano (e con lui il divino) che sta dentro di noi, empaticamente. Così, a poco a poco, ho iniziato a fare della mia passione il mio lavoro, che unisce l’aspetto sociale con quello di crescita personale e, ovviamente, quello artistico perché, come diceva Jaques Lecoq, “tutto terminerà un giorno, in un gesto poetico”.

Hai pentimenti, ripensamenti? A volte pensi che sarebbe stato meglio fare un lavoro più “normale”?
Non ho ripensamenti o pentimenti. Ma a volte la tentazione di fare un lavoro sicuro di otto ore al giorno per cinque giorni alla settimana è forte. È una scelta di vita diversa che, personalmente, mi rende felice. Forse c’è bisogno di persone che aprano nuove strade, affinché gli altri le possano percorrere in seguito. Penso di essere una di queste persone e forse è per questo che sono diverso.

Che cosa ti lascia dentro lavorare in luoghi sperduti, con popolazioni di cui tutti noi probabilmente ignoriamo persino l’esistenza?
Una volta, mentre lavoravo presso l’accampamento Senza Terra chiamato “17 di Aprile”, vicino a Teresina nel Piauì, dei pistoleros hanno dato fuoco all’intero villaggio, mettendo a rischio la vita di migliaia di persone. Sono riuscito a salvarmi per un pelo, nonostante abbia perso tutto: soldi, documenti, vestiti… Solo dopo un mese di avventure pazzesche sono riuscito ad arrivare a Recife presso il consolato italiano e uscire da questa temporanea clandestinità. In tutto questo tempo mi sono sentito amato e protetto da Dio, come mai nella mia vita. Ho capito l’importanza dell’abbandono e della fede nell’uomo e nella solidarietà tra i poveri. Penso di aver superato la linea d’ombra che separa qualsiasi volontario-cooperante dalla realtà dei poveri, perché mi sono trovato a vivere con loro e come loro. Ciò che mi lascia l’amaro in bocca è la difficoltà a passare queste emozioni agli altri, soprattutto in Italia: sono cose troppo forti e troppo grandi, che forse escono dalla nostra mappa mentale e così rimangono solo nella mia memoria. Forse dovrei scriverci su un altro libro...!

E che cosa ti spinge, ogni volta, a ripartire? Forse proprio il coraggio di essere felice?
Sicuramente sì: il desiderio e il coraggio di essere di più, senza fuggire da nulla, ma camminando con integrità tra le genti del mondo. È spesso difficile, ma l’Amore è anche fatto di sacrificio.