venerdì 30 giugno 2017

Milano, il libro moribondo e l'oligarchia dei soliti noti

Ricevo dall'ODEI, Osservatorio degli Editori Indipendenti, e volentieri diffondo affinché certe dinamiche siano note anch eal pubblico e non solo ai cosiddetti addetti ai lavori (anche perché, a mio avviso, i lettori sono di fatto addetti ai lavori esattamente quanto noi).

L’Aie ha formalizzato la decisione di spostare la seconda edizione di Tempo di libri, a Milano, dall’8 al 12 marzo 2018. Così mentre il neoeletto presidente, Ricardo Franco Levi, parla di ricerca di unità fra gli editori, il primo atto della sua presidenza risulta ostile verso Book Pride, la fiera dell’editoria indipendente, già fissata da mesi fra il 23 e il 25 marzo negli spazi di BASE Milano.
Non può sfuggire a nessuno, infatti, che convocare, nella stessa città, un evento editoriale dieci giorni prima di uno già esistente, e che celebrerà nel 2018 la sua quarta edizione, corrisponde, né più né meno, che al tentativo di cancellarlo.
L’Odei, l’Osservatorio degli editori indipendenti, ricorda che, in un recente incontro con lo stesso Levi e la presidente della Fabbrica del libro, Renata Gorgani, dopo aver scartato l’idea di poter organizzare Book Pride all’interno di Tempo di libri, aveva proposto ai rappresentanti di Aie di tenere la propria fiera in autunno, dando vita così ad un appuntamento importante e potenzialmente davvero rappresentativo di tutti gli editori italiani. Si è deciso diversamente. Dispiace che, in un periodo ancora difficile per il libro e la lettura, non si sia voluto cercare un confronto reale e risposte unitarie. Così, dopo il deludente risultato riscontrato con la prima edizione, Tempo di libri cambia tutto, ma si candida ancora una volta ad essere solo la fiera dei grandi gruppi editoriali.
L’Odei ribadisce la propria vocazione originaria di associazione che rappresenta l’editoria indipendente italiana, vale a dire quella fascia di imprese piccole, medie o grandi, non sottoposte al controllo di un gruppo editoriale, che non godono del vantaggio di avere sotto la stessa proprietà una concentrazione di marchi editoriali, società di distribuzione e/o catene di librerie. Sono gli indipendenti, tuttavia, a fare in Italia ricerca e scouting di nuovi autori, italiani e stranieri, su cui investono al fine di assicurare una produzione spesso di alta o altissima qualità, alimentando l’intera filiera produttiva e garantendo quel bene prezioso che è la bibliodiversità. E proprio per garantire visibilità al lavoro dell’editoria indipendente, l’Odei invita gli oltre 200 editori che hanno partecipato all’edizione del 2017 di Book Pride e a tutti gli altri editori indipendenti che l’anno precedente non erano presenti a partecipare all’edizione 2018, per dare vita, ancora una volta, ad un appuntamento ricco di partecipazione, di momenti di incontro con gli autori, di confronto e di scambio fra i protagonisti della filiera editoriale, di iniziative concrete per la promozione della lettura, nell’auspicio che Milano si confermi come una città che dell’editoria accoglie tutte le sue molteplici manifestazioni.
ODEI, consiglio direttivo

mercoledì 28 giugno 2017

Perché oggi a Višegrad un tycoon serbo-bosniaco inaugura un monumento a Mehmed paša Sokolović?


Perché oggi a Višegrad un tycoon serbo-bosniaco inaugura un monumento a Mehmed paša Sokolović? La domanda è destinata forse a rimanere senza risposta ufficiale. Fatto è che oggi a Višegrad viene inaugurato questo monumento, che vedete nell'immagine, già collocato da qualche giorno lungo ulica Druge podrinjske brigade. Il monumento raffigura il paša turco seduto, rivolto verso lo stari most, il ponte cinquecententesco dalle undici agili arcate, da lui stesso voluto per unire le due sponde dell'azzurra e gelida Drina. Ulica Druge podrinjske brigade è, però, anche la passeggiata che conduce verso l'aborto storico-architettonico denominato Andrićgrad. Aspetto non secondario, questo.
Finanziatore dell'opera non è uno dei tanti enti benefici turchi che fanno danni a destra e a manca da anni in Bosnia ma, sorpresa, un tycoon serbo-bosniaco, Slobodan Pavlović, diventato ricco negli Stati Uniti (o forse partito ricco e affermatosi definitivamente negli States), amico intimo del padre-padrone della Repubblica serba di Bosnia (Rs) Milorad Dodik e con qualche questione aperta con la giustizia. In particolare, il fallimento della Pavlović Banka, il suo personale istituto di credito la cui chiusura ha messo sul lastrico parecchi comuni della Rs, le cui finanze erano depositate proprio nelle casse del magnate originario di Bijelijna, parlamentare della Rs nel partito-cricca di Dodik.
Pavlović è presente oggi a Višegrad insieme al cattedratico Matija Bećković e al sindaco della città sulla Drina, il nazionalista Mladen Đurević, che non ha mancato di esternare in largo anticipo i suoi sentiti ringraziamenti per la munifica donazione. Bećković, per inciso, è uno scrittore serbo abbastanza quotato, amico di Vojislav Kuštunica, l’ex primo ministro di Belgrado, vicino agli ambienti nazionalisti, ma non – almeno ufficialmente – a quelli ultranazionalisti serbi. Vedremo.
Personalmente, ritengo che dopo lo scippo del nome del grande Ivo Andrić, il ridicolo regime serbo-bosniaco con questa mossa voglia rivendicare anche la serbità (leggasi purezza serba) del paša ottomano Sokolović, uno dei tanti ragazzi che i Turchi spottrassero come pegno di sangue alle famiglie delle comunità lungo la Drina per renderli parte dell'ossatura burocratica, amministrativa o militare dell'Impeto turco. In questo la famiglia Sokolović si distinse poiché dette alla Turchia molti suoi figli, diversi dei quali assurti a ruoli di assoluto prestigio e potere. Ai tempi di Mehmed paša Sokolović, tuttavia, a capo della chiesa ortodossa c'era un altro Sokolović, fratello del primo. Probabile che con questa mossa, nonostante sia passato ormai mezzo millennio, dopo essersi indebitamente appropriati dello stari most (e dello scrittore che lo ha reso immortale) gli ultranazionalisti vogliano fare lo stesso anche con chi lo ha fatto costruire. Ridicoli, è vero. Ma la storia ci insegna che certi ridicoli fascisti anni dopo si sono rivelati il Male incarnato in terra...

Maui, una lettrice di "Višegrad" dal Veneto

Caro Luca,
Višegrad è un libro facile e difficile da leggere.
Facile per la chiarezza e la lucidità con cui analizzi ed esponi i fatti, difficile per il coinvolgimento emotivo in cui ti trascina.
È un libro molto duro, ma necessario per non dimenticare e per continuare a chiedere giustizia. E per ricordarci che è storia che si ripete, in altri luoghi, con altri nomi.
Un pensiero, leggendo il libro, è andato a te, caro Luca, che hai ascoltato testimonianze così strazianti dalla voce delle vittime, testimonianze che hai saputo raccogliere con coraggio e sensibilità.
Un abbraccio

Maui Perissinotto

martedì 27 giugno 2017

Srebrenica, l’ipocrisia olandese e quella certa incresciosa repulsione dei media italiani per la parola “genocidio”

La Corte d’Appello de L’Aja, in Olanda, ha riconosciuto parzialmente responsabile il governo olandese della morte di circa trecento uomini bosniaci-erzegovesi in riferimento al genocidio di Srebrenica (11-19 luglio 1995). Il giudice ha riconosciuto i caschi blu olandesi presenti a Potočari colpevoli di aver espulso dal loro compound le trecento vittime (insieme a più di altre cinquemila), consegnandole nelle mani dei paramilitari serbi e greci e della soldataglia serbo-bosniaca agli ordini di Ratko Mladić. Al contempo, tuttavia, e incomprensibilmente, lo stesso giudice ha rilevato che se le vittime non fossero state espulse avrebbero avuto una chance di sopravvivenza non superiore al 30 per cento. Percentuale calcolata chissà in che modo da questo giudice-ragioniere…
Il 16 luglio 2014 una sentenza emessa in primo grado da un Tribunale civile olandese de L’Aja aveva riconosciuto, nell’ambito della stessa causa, lo Stato olandese responsabile a tutti gli effetti per la morte a Srebrenica di quegli stessi trecento cittadini bosniaci appartenenti al gruppo nazionale musulmano. In sostanza, le vittime di Srebrenica si trovano a doversi confrontare con l’ennesima sentenza pilatesca dopo ventidue anni spesi nel tentativo di avere giustizia.
I famigliari delle vittime potrebbero decidere di presentare istanza presso la Corte suprema olandese. Ma intanto, nel raccontare brevemente la vicenda, le testate online italiane una volta di più omettono sistematicamente l’uso della parola “genocidio”, nonostante diverse sentenze internazionali abbiano stabilito che è proprio genocidio quanto avvenuto a Srebrenica.
Sebrenica, anche Olanda colpevole (ma solo in parte) per la strage, titola il Corriere della Sera.Srebrenica, Corte d’Appello conferma: Olanda responsabile, ma risarcimento "parziale" alle famiglie, dice Repubblica.Srebrenica, “anche l’Olanda responsabile della strage”. La condanna dell’Aja, pubblica Il Fatto Quotidiano, che non fa nulla per differenziarsi dal coro di voci stonate.Srebrenica, Corte d’Appello conferma: Olanda parzialmente responsabile del massacro, scrive il Messaggero.Massacro di Srebrenica, LʼAja: Olanda "parzialmente responsabile" della strage, sentenzia Tgcom24.Corte dell'Aja: Anche Olanda tra responsabili massacro Srebrenica, per LaPresse.Nessuno che abbia gli attributi per usare, propriamente, la parola “genocidio”. Volontà negazionista che accomuna il grosso delle testate, ignoranza diffusa, tentativo di depotenziare la tragedia di Srebrenica in chiave anti-musulmana? Chissà quali sono le ragioni. Fatto sta che, come sempre, i media italiani raccontano, nella migliore delle ipotesi, solo una parte, e potenzialmente la minore, di come stanno le cose.

27 giugno 1973, il golpe in Uruguay

Il colpo di stato militare fu perpetrato in Uruguay il 27 giugno 1973 dalle forze armate in collaborazione con il conservatore Partido Colorado e l’allora presidente Juan Maria Bordaberry Arocena (eletto democraticamente nel 1971). La dittatura – utilizzando strumenti quali l’arresto sistematico degli oppositori e la loro sparizione forzata, la tortura, la minaccia fisica e psicologica – si protrasse fino al 1985
Già negli anni che hanno preceduto il golpe del 27 giugno 1973 la violenza attraversava l’Uruguay. Anahì, come tanti altri giovani universitari, si interessa di politica, si schiera dalla parte di chi difende la libertà e i diritti fondamentali, scende nelle piazze per denunciare i metodi repressivi del governo. Questa generazione pagherà il prezzo più alto per le sue idee. L’esperienza della prigione e della tortura spezza in due la vita e i ricordi di Anahì. In esilio a Firenze, tenta di costruire una vita “normale”, ma riuscirà a liberarsi delle ombre di un passato oscuro e rimosso soltanto tornando a Montevideo, quando in Uruguay è tornata la democrazia. Si intrecciano alla sua storia quelle di Marisa, Santiago, Lucia, Tomàs e molti altri protagonisti che compongono un affresco intenso e complesso di un popolo che con coraggio e ostinazione ha sfidato il potere efferato della dittatura. Anahí del mare. La dittatura in Uruguay, la notte di un popolo il racconto autobiografico di Anna Milazzo, oscilla tra la suggestione del mito e l’impegno civile, tra un tempo soggettivo e quello della memoria storica. Un percorso personale, quello dell’autrice, per rivivere, affrontare e superare le ferite del passato.
“La sistematica violazione dei diritti umani non fu solo un metodo ‘necessario’ a eliminare l’opposizione ma un progetto politico scientificamente pianificato. Questa la tremenda verità dei pronunciamenti militari latinoamericani. La vicenda umana e politica di Anna Milazzo è un esempio emblematico di quello che accadde. Prima, dopo... durante. […]
Anahí del mare ci narra la notte di un popolo ma alla fine della lettura la ‘luce’ di Anna inonda di senso l’intera vicenda. Anna ha vinto. A caro prezzo, certo, ma questo libro raccoglie mille e mille piccole vittorie. Anche delle persone che le sono state vicino in questi lunghi anni.
Spero che Anahí del mare abbia il successo che merita. Spero che in tanti, tantissimi lo leggano. Spero che venga adottato nelle scuole. Che scuota coscienze, cha ravvivi memorie.
Io lo porterò con me. Nella mia mente, nel mio cuore”. (Massimo Carlotto)

lunedì 26 giugno 2017

Višegrad, 27 giugno 1992, l’incendio a Bikavac

Višegrad, cittadina della Bosnia orientale, entra dalla primavera del 1992 nel vivo del conflitto che costerà alla ex repubblica jugoslava circa 120.000 morti, due milioni di sfollati interni e un milione e mezzo di profughi. Il gruppo paramilitare delle Aquile bianche guidato dai cugini Milan e Sredoje Lukić – tiene in ostaggio la città seminando terrore e attuando una radicale pulizia etnica ai danni della popolazione civile musulmano-bosniaca, che costituisce circa il 64 per cento dei residenti.
Il 27 giugno vede protagonisti ancora i cugini Lukić, in un tremendo ripetersi di quanto avvenuto pochi giorni prima (il 14 giugno) a Pioniriska ulica.
Ripercorriamo i fatti di quel terribile giorno grazie all’attento lavoro di ricostruzione del giornalista Luca Leone nel libro Višegrad. L’odio, la morte, l’oblio.
“È il 27 giugno 1992, a Bikavac, un quartiere periferico di Višegrad, i cugini Lukić si ripetono, non paghi. Amano giocare col fuoco, così rin­chiudono in una casa altri settanta musulmani circa, tra cui dei neonati. Poi appiccano il fuoco col sistema di Pioniriska ulica. Secondo alcune fonti, tutti sarebbero arsi vivi; secondo altre fonti, le vittime sarebbero state almeno sessanta. Nello stesso giorno si ha notizia di almeno cinque donne trasferite nell’hotel pubblico con terme annesse di Višegrad, il famigerato Vilina Vlas, trasformato in bordello, dove le prigioniere sono violentate per giorni dai paramilitari e dai loro fiancheggiatori. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, al Vilina Vlas sono state detenute e maltrattate circa duecento donne. Alcune si sono suicidate. La maggior parte sono state uccise o sono scomparse. Ma del Vilina Vlas avremo modo di parlare a lungo”.
Višegrad. L’odio, la morte, l’oblio, reportage scritto sul campo dal giornalista Luca Leone racconta le vicende, raccoglie le testimonianze di tutte le parti e fa il punto sull’episodio che ha rappresentato la prova generale di ciò che sarebbe accaduto tra il 1992 e il 1995 a Srebrenica, Prijedor, Foča e in altri luoghi passati alla storia per la crudeltà degli eventi verificatisi.
“Venticinque anni di silenzi complici, di rimozione, di inganni e tradimenti. Di quel negazionismo spicciolo che si nutre di ‘letteratura’ cospirazionista e che, per mera affiliazione ideologica, ci spiega ogni tanto con un post tradotto o scritto pure male, che è tutto falso”. (Riccardo Noury)

Il libro e Narciso: riflessione di un libraio

Pubblico a seguire un'interessante riflessione di uno dei maggiori e più noti librai del Meridione italiano.

Coerentemente, credo sia giusto provare a ragionare sul narcisismo del nostro tempo – seppur sommariamente – partendo proprio dall'immagine di noi che abbiamo più cara e dal contesto che conosciamo meglio.
Nel mio caso, quella di un libraio che si aggira curioso intorno all’oggetto del suo fare: il libro, appunto.
Un prodotto dell’ingegno umano che ha permesso – nelle diverse forme evolute di papiro, pergamena e carta – la conservazione di fonti riscontrabili di saperi e la loro trasmissione per coevi e posteri della nostra specie.
Un’evidenza per tutte le epoche e che in questa, caratterizzata dall’iperproduzione di merci e immagini, si complica in virtù del bisogno sociale di rappresentazione e del rappresentarsi. Esigenza che sembra dominare i rapporti odierni tra gli individui e il mondo, coinvolgendo e modificando anche l’intrinseco significato sociale dello scrivere e, quindi, del libro.
In effetti, se scrivere un libro fosse semplicemente una maniera per sancire la memoria di un fatto, di un’idea, di una storia, di un’intuizione articolata che si creda meriti ricordo esemplare e riferimento consultabile d’una verità, si pubblicherebbero i circa centosettanta titoli al giorno editi oggi in Italia?
Più o meno cinquemila al mese.
Grosso modo sessantamila all’anno.
Tanti.
Troppi per un Paese con uno dei più bassi indici di lettura in Europa.
E troppi anche per le capacità di immagazzinamento ed esposizione delle librerie, ma anche dei reparti librari all’interno di altri esercizi (supermarket urbani, store autostradali, centri commerciali, edicole, etc.).
Le vetrine traboccano di nuovi titoli e il turn over (la velocità di rotazione della merce, per dirla nel gergo aziendale) è la bestia nera di ogni gestore.
L’obsolescenza dei titoli non best seller e non long seller – insomma la maggior parte – è scandita al ritmo di dieci/ venti giorni al massimo. E, comunque, fino a quando non si debba far spazio a nuovi titoli lanciati sul mercato.
Una questione parzialmente risolta dalla diffusione dei megabookstore e dall’infinita disponibilità delle librerie online, in contatto virtuale con l’universo mondo del libro senza  spazio alcuno (se non in termini di byte), sia per acquisti fisici (i volumi arrivano anche in 24 ore con Amazon) che scaricabili immediatamente come e-book.
Ma è nelle librerie, eredi degli antichi cubicoli per lettori appassionati, che si compie il triste destino comune alla biblioteca d’Alessandria.
Laddove la furia distruttiva delle religioni e delle guerre depauperava patrimoni incommensurabili di sapere concretato nella scrittura, oggi è la necessità di mercato a dirigerne al macero le masse informi di cellulosa.
Ma cosa cela questa realtà, da un punto di vista che ne possa svelare relazioni col tema del narcisismo?

venerdì 23 giugno 2017

Višegrad, 25 giugno 1992, la deportazione in Macedonia

Višegrad, cittadina della Bosnia orientale, entra dalla primavera del 1992 nel vivo del conflitto che costerà alla ex repubblica jugoslava circa 120.000 morti, due milioni di sfollati interni e un milione e mezzo di profughi. Il gruppo paramilitare delle Aquile bianche guidato dai cugini Milan e Sredoje Lukić – tiene in ostaggio la città seminando terrore e attuando una radicale pulizia etnica ai danni della popolazione civile musulmano-bosniaca, che costituisce circa il 64 per cento dei residenti.
Il 25 giugno segna il rastrellamento di centinaia di musulmani che verranno deportati, dopo un viaggio terribile, nella terra di nessuno al confine con la Macedonia.
Ripercorriamo quel terribile giorno grazie all’attento lavoro di ricostruzione del giornalista Luca Leone nel libro Višegrad. L’odio, la morte, l’oblio.
“Il 25 giugno 1992 centinaia di cittadini musulmani-bosniaci di Višegrad vengono rastrellati e radunati; sono costretti a firmare una di­chiarazione nella quale attestano d’essere stati trattati bene dai paramili­tari serbo-bosniaci. Vengono quindi fatti salire su autobus con destina­zione Macedonia e così deportati in massa. Alcuni sono fatti scendere dopo pochi chilometri e uccisi davanti a tutti, per divertimento oppure a titolo dimostrativo. Magari sotto l’effetto di droghe o per delirio di onnipotenza. I superstiti, arrivati alla frontiera macedone, vengono ab­bandonati – umiliati e maltrattati – in una terra di nessuno senza né cibo né acqua. Intanto continuano i massacri lungo tutta la Drina, sommesso e inerme testimone dell’abominio umano.”
Višegrad. L’odio, la morte, l’oblio, reportage scritto sul campo dal giornalista Luca Leone racconta le vicende, raccoglie le testimonianze di tutte le parti e fa il punto sull’episodio che ha rappresentato la prova generale di ciò che sarebbe accaduto tra il 1992 e il 1995 a Srebrenica, Prijedor, Foča e in altri luoghi passati alla storia per la crudeltà degli eventi verificatisi.
“Venticinque anni di silenzi complici, di rimozione, di inganni e tradimenti. Di quel negazionismo spicciolo che si nutre di ‘letteratura’ cospirazionista e che, per mera affiliazione ideologica, ci spiega ogni tanto con un post tradotto o scritto pure male, che è tutto falso”. (Riccardo Noury)

giovedì 22 giugno 2017

Brammertz incalza Belgrado e Banja Luka: “Riconoscete ufficialmente il genocidio di Srebrenica”

“Purtroppo oggi la negazione del genocidio di Srebrenica è diventata molto comune, ma dobbiamo sperare che sia a Belgrado sia a Banja Luka quel crimine venga finalmente riconosciuto in modo ufficiale”: è quanto ha detto al quotidiano sarajevese Oslobođenje il procuratore capo del Tribunale penale internazionale per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia (Tpi), Serge Brammertz, aggiungendo che “il genocidio rappresenta la questione più sensibile per le vittime, in special modo per i famigliari degli uomini e dei ragazzi uccisi e per i 30.000 anziani, donne e bambini scacciati dalle loro case.
Le solite schermaglie in vista dell’11 luglio, data in cui il mondo dovrebbe fermarsi per ricordare il genocidio di Srebrenica, perpetrato dall’esercito serbo-bosniaco e dai paramilitari serbi e greci davanti ai caschi blu inermi ai danni di un numero a oggi ancora imprecisato di maschi dai 12 ai 76 anni, ma comunque non inferiore alle diecimila persone. Qualcuno si aspetta un segnale dal neo-moderato ed ex-ultranazionalista presidente serbo Alexandar Vučić, la cui presunta moderazione è legata a interessi contingenti piuttosto che a una reale convinzione personale. Impensabile invece che il presidente dell’entità amministrativa della Repubblica serba di Bosnia, Milorad Dodik, faccia un passo del genere, essendo lui il leader massimo e riconosciuto del negazionismo in chiave serba. E a fine anno il Tpi chiuderà i suoi battenti, mentre ancora almeno 16.000 criminali girano a piede libero senza aver pagato per gli orrori commessi durante i conflitti balcanici tra il 1991 e il 1999.

mercoledì 21 giugno 2017

Il Tribunale de L’Aja, la Memoria e migliaia di criminali a piede libero


Il presidente del Tribunale penale internazionale per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia (Tpi), il maltese Carmel Agius, è stato ieri in visita a Sarajevo e in particolare al Museo dei crimini contro l’umanità e del genocidio, che sorge nel centro della capitale bosniaco erzegovese. “Bisogna guardare avanti – ha detto tra l’altro, Agius, presidente del Tpi dal 2015, le cui parole sono state riportate dall’agenzia Fena – ma non si deve dimenticare il passato. Per questo è importante rispettare e ricordare tutti coloro i quali hanno perso la vita durante la guerra” del 1992-1995. Un discorso che, una volta di più, sarà andato di traverso a parecchi nazionalisti e neo-fascisti di tutti e tre i gruppi nazionali maggioritari in Bosnia Erzegovina, nell’ordine musulmani-bosniaci, serbo-bosniaci e croato-bosniaci.
Agius ha inoltre confermato che a fine anno il Tpi chiuderà i suoi battenti. Il presidente del Tribunale ha espresso parere positivo sull’operato dell’organismo internazionale, pur ricordando, correttamente, che “ancora migliaia di responsabili di crimini girano liberamente per la Bosnia, la Serbia e la Croazia, anche se non era nostro compito processarli tutti: ora spetta a questi Paesi assicurarli alla giustizia”. Il che, va detto, se non è stato fatto fino a oggi, difficilmente sarà fatto negli anni a venire, in particolare ma non solo da un Paese come la Croazia, che ormai ha ottenuto quel che voleva, ovvero l’ingresso nell’Unione europea, unica vera materia di scambio a suo tempo possibile per costringere Zagabria a una vera lotta contro l’impunità.
La chiusura del Tpi, da anni richiesta da alcuni potenti Paesi, è in realtà una sconfitta per tutti, come una sconfitta ha rappresentato il lavoro claudicante e incerto che il Tribunale ha potuto o dovuto fare durante i ventiquattro anni della sua esistenza, e in particolare dal 2010 a oggi. Il Tpi continuerà in realtà ancora ad esistere come “meccanismo residuale”, ovvero come organo internazionale che porterà a termine i procedimenti ancora in corso – in particolare i due gradi di giudizio contro Ratko Mladić e il processo d’appello contro Radovan Karadžić. Spetterà invece, come detto da Agius, alle procure e ai tribunali nazionali bosniaco, serbo e croato dare la caccia alle migliaia di paramilitari e criminali di vario genere ancora liberi, ma in effetti il bassissimo livello del lavoro di questi ultimi due decenni non fa di certo ben sperare.

martedì 20 giugno 2017

Giornata mondiale del rifugiato 2017


Si celebra il 20 giugno la Giornata mondiale del Rifugiato, promossa dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) con l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla condizione di milioni di rifugiati e richiedenti asilo costretti a fuggire da guerre e violenze e a lasciare i propri affetti, la propria casa e tutto ciò che un tempo era parte della loro vita. Le Nazioni Unite sottolineano come sia necessario non dimenticare mai che dietro ognuno di loro c’è una storia che merita di essere ascoltata e hanno lanciato sul web la campagna #WithRefugees, che vuole rendere visibile la solidarietà e l’empatia verso i rifugiati, amplificando la voce di chi accoglie e rafforzando l’incontro tra comunità locali e rifugiati e richiedenti asilo per promuovere la conoscenza reciproca. #WithRefugees è anche una petizione, con la quale l’UNHCR chiede ai governi di garantire che ogni bambino rifugiato abbia un’istruzione, che ogni famiglia rifugiata abbia un posto sicuro in cui vivere, che ogni rifugiato possa lavorare o acquisire nuove competenze per dare il suo contributo alla comunità. Secondo il saggio di Lucia De Marchi “A piccoli passi. Minori stranieri non accompagnati e cittadinanza attiva” l’Unicef, nel rapporto dedicato alla Condizione dell’In­fanzia nel Mondo pubblicato nel 2016, stima che ci siano 31 milioni di bambini che vivono in un Paese diverso da quello d’origine e, di questi, quasi undici milio­ni sono rifugiati o richiedenti asilo, provenienti per la maggior parte dalla Siria e dall’Afghanistan. Secondo le stime dell’Unhcr, dal 2000 al 2015 il numero dei minori rifugiati è più che raddoppiato e nello stesso arco di tempo il totale dei minori migranti è cresciuto del 21%.
La necessità di interventi concreti e urgenti è sottolineata anche dal “Rapporto 2016-2017. La situazione dei diritti umani nel mondo” redatto da Amnesty International che evidenzia, sul tema dei rifugiati, la discrepanza tra ciò che sarebbe necessario fare e le azioni concre­te, così come tra la retorica e la realtà, è stata totale e talvolta sconcertante. Questo è stato quanto mai evidente con il fallimento degli stati che hanno partecipato al summit delle Nazioni Unite - che si è tenuto nel settembre dello scorso anno - su rifugiati e migranti per trovare un accordo per una risposta adeguata alla crisi globale dei rifugiati, che durante l’anno ha assunto dimen­sioni ancora maggiori e carattere di urgenza.
Mentre i leader mondiali non sono riusciti a dimostrarsi all’altezza della sfida, 75.000 rifugiati rimanevano intrappolati nel deserto, in una terra di nessuno tra la Siria e la Giordania.
Le persone originarie dell’Africa Subsahariana costituivano la maggioranza delle centinaia di migliaia di rifugiati e migranti che si erano messi in viaggio verso la Libia, per sfuggire a situazioni di guerra, persecuzione o povertà estrema, spesso nella spe­ranza di transitare attraverso il paese, per poi stabilirsi in Europa. La ricerca condotta da Amnesty International ha rivelato che, lungo le rotte dei trafficanti verso e attraverso la Libia, si sono verificati abusi terrificanti, come violenza sessuale, uccisioni, tortura e persecuzione religiosa.
Dati e testimonianze sono raccolti anche nel libro di Chiara Michelon “La fuga”, dove, con piglio narrativo e discorsivo, l’autrice racconta le vicende di rifugiati oggi in Italia, provenienti da Afghanistan, Iran, Pakistan e Sudan. Le loro storie sono unite dal momento tragico della “rottura”, in ogni Paese avvenuta per cause differenti (attentati, dittature, torture, motivi religiosi o politici, mancanza di libertà), che ha costretto le vittime a fuggire e a intraprendere un viaggio verso un luogo più sicuro. Ogni vicenda è accuratamente inserita nel contesto storico e politico del Paese d’origine e offre un quadro scrupoloso delle principali vicende e cause storiche che hanno portato alla situazione attuale e al dilagare del terrorismo e del fanatismo religioso.

Višegrad, la lettera del vicepresidente di Amnesty International Paolo Pignocchi

“Mah, un altro libro sulla Bosnia ? Si, ho capito, è stata una guerra tremenda, ma perché parlarne ancora? Ci sono fatti nuovi ? Questo Luca Leone non sa parlare d’altro, abbiamo anche bisogno di mettere una pietra sopra a quei morti, a quelle vittime; abbiamo bisogno di riconciliarci con il passato e di aiutare quella società a riconciliarsi. Che senso ha nel 2017 ripercorrere fatti avvenuti almeno venticinque anni fa? E poi, perdonami, io non riesco a leggere di nuovo le cose terribili che sono accadute, mi sembrano quasi non vere… non che le neghi, per carità, ma non mi sembrano poter essere accadute, tanto sono dure…”.
Ecco, queste sono cose che ho sentito dire anche da persone sensibili e attente ai problemi quando è uscito il nuovo lavoro di Luca Leone: Višegrad, l’odio, la morte, l’oblio. Mi sono preoccupato molto perché dentro quelle poche parole che ho riportato c’è tutto il male che l’oblio e, peggio, il fenomeno del negazionismo può portare insieme al tempo che passa. Che siamo umanamente stanchi ma anche indignati per un nuovo capitolo aperto da Luca, quello di Višegrad nel 1992, è vero, ma questo non può che essere altro che un motivo per moltiplicare le nostre forze contro l’impunità verso chi ha commesso quelle terribili violenze. Chi ha seguito i fatti anche recenti della Bosnia Erzegovina non si stupisce più di tanto di scoprire nuovi accadimenti.
Scrivere qualcosa sul libro di Luca è bello ma non è facile. Luca è un amico, un compagno di viaggio, mi spingo a dire che è sicuramente un attivista per i Diritti Umani che con noi lavora e collabora. È molto bello scriverne, perché anche quest’ultimo lavoro lega un filo rosso che sulla Bosnia collega Luca al mondo esterno e a tutti noi.
Dai libri sulla “vergogna di Srebrenica” (ultimo episodio in ordine temporale della guerra di Bosnia) Luca ha voluto accendere una luce su uno dei primi episodi di pulizia etnica. Era il 1992 a Višegrad, scorreva pacifica la Drina, che purtroppo diventerà una grande tomba. Il racconto, soprattutto all’inizio del libro, è stringente su come il clima in quella primavera-estate del 1992 stava cambiando, casa per casa. La gente è morta anche perché non ha creduto che tutto quello che poi è accaduto fosse un rischio reale, una pianificazione a tavolino. Višegrad racconta quanto di più feroce i cugini Lukić e altri hanno commesso. Ma tiene il focus su una delle violazioni più tremende compiute in Bosnia in quel periodo: l’uso dello stupro come arma di guerra, l’eliminazione e umiliazione di un avversario inerme. Ecco, quelle donne ORA chiedono a noi giustizia, chiedono riparazione a una giustizia internazionale ancora imperfetta che le ha messe a vivere vicino ai loro carnefici, che sono l’attuale postino, il funzionario comunale, il vigile urbano. Le donne di Višegrad sicuramente non hanno dimenticato i loro occhi e sono il Tribunale più attuale che possa esserci. Chiedono giustizia perché le conseguenze sono nei loro corpi e nelle loro menti, spesso con pesanti invalidità fisiche, inabili a un qualsiasi lavoro, vittime della “sindrome post traumatica” e dello stigma sociale. Amnesty International ha svolto e svolge una grande campagna contro l’impunità ed esprime ogni giorno la sua preoccupazione affinché le luci sul Tribunale internazionale de L’Aia non si spengano dopo la prossima imminente (e auspicabile) condanna di Ratko Mladić, ed è molto scettica sullo spostamento di tutti i procedimenti per crimini di guerra e contro l’umanità che sono ancora in piedi verso le corti domestiche per il rischio equità, fattore fondamentale che il processo dovrebbe avere: minacce ai giudici, ai testimoni etc.
La bellezza del tratto di Luca è sempre la stessa, delicato e fermo, corredato di tante icone positive che non hanno ancora archiviato le loro lotte, e di una nuova generazione che sorride. Sorriso che si scontra con il rancore represso dei padri intriso di vergogna e protezione. Nel raccontare le nefandezze compiute nell’albergo Vilina Vlas Luca ci racconta il suo vissuto nel ritornare in quei luoghi. Che esistono ancora, senza qualcosa che ricordi quei giorni, con gli stessi quadri nonostante tutto. E se domandi non avrai risposte dalla generazione che non può non sapere che cosa è accaduto. Lo stesso negazionismo che piano avanza, richiesto dalle nostre coscienze. Ci sono tante belle persone e personaggi positivi nel libro: Lady Wiesenthal-Bakira Hašečić che, come Simon Wiesenthal, ma con molti meno mezzi, dà ancora la caccia ai criminali di guerra serbo-bosniaci; l’esperienza di Kim Vercoe, attrice australiana che dopo un viaggio a Višegrad decide di farne uno spettacolo teatrale che diventerà un film; la storia di Lejla; quella del presidente della Commissione federale per le persone scomparse, Amor Mašović, che ancora lotta per dare un nome agli “scomparsi” e ai poveri resti umani delle fosse comuni della Bosnia. Su tutto scorrono le parole di Ivo Andrić e il suo Ponte sulla Drina, fiume che porta con sé un silenzioso carico di dolore.
Oltre a invitarvi a leggerlo e a entrare dentro a questo libro, ringrazio Luca Leone per questo ulteriore lavoro perché abbiamo bisogno di “testimoni” che ancora vanno nei luoghi, osservano e raccontano; ne abbiamo bisogno perché abbiamo la triste consapevolezza che le violazioni dei Diritti Umani si possono ripetere, se non si persegue la strada della lotta all’impunità. I libri di Luca, e Višegrad, l’odio, lamorte, l’oblio fra essi, oltre a essere belli sono per noi un importante strumento di lavoro e uno stimolo per continuare a lavorare contro le violazioni dei Diritti Umani passate e presenti e per evitare quelle future.
Grazie Luca!

Paolo Pignocchi
Vice Presidente Amnesty International Italia

lunedì 19 giugno 2017

Višegrad, 18 giugno 1992: la Drina cambia colore

Višegrad, Bosnia orientale, primavera del 1992. Finita dal 19 maggio sotto il controllo del gruppo paramilitare delle Aquile bianche, guidato dai cugini Milan e Sredoje Lukić, da circa un mese la città è oggetto di un lavoro radicale di pulizia etnica da parte degli estremisti serbo-bosniaci ai danni della popolazione civile musulmano-bosniaca, che costituisce circa il 64 per cento dei residenti.
Il 18 giugno, nel succedersi degli eventi, si segnala come un giorno dall’atrocità efferata con l’uccisione – con modi barbari – di 22 persone tra cui anche bambini.
Ripercorriamo quel terribile giorno grazie all’attento lavoro di ricostruzione del giornalista Luca Leone nel libro Višegrad. L’odio, la morte, l’oblio.
“Il 18 giugno 1992, a Višegrad i paramilitari dei cugini Lukić uccido­no ventidue persone. Alcuni corpi vengono dilaniati con i coltelli, altri legati alle automobili e trascinati per le vie; bambini vengono gettati dal ponte vecchio, il Mehemed Paše Sokolovića most, e uccisi a colpi d’arma da fuoco prima che tocchino l’acqua, come in un tiro al bersaglio dell’or­rore. Un ispettore della polizia di Višegrad riceve una comunicazione dal direttore della diga sulla Drina di Bajina Bašta, in Serbia: “Chiedo a tutti i responsabili di rallentare il flusso dei corpi che galleggiano lungo il fiume perché inceppano le turbine della diga…”, dice l’uomo. Gli occhi azzurri della Drina per mesi si sono trasformati in un lago rosso sangue, forse la più grande fossa comune della guerra del 1992-1995”.
Višegrad. L’odio, la morte, l’oblio, reportage scritto sul campo dal giornalista Luca Leone racconta le vicende, raccoglie le testimonianze di tutte le parti e fa il punto sull’episodio che ha rappresentato la prova generale di ciò che sarebbe accaduto tra il 1992 e il 1995 a Srebrenica, Prijedor, Foča e in altri luoghi passati alla storia per la crudeltà degli eventi verificatisi.

venerdì 16 giugno 2017

La scrittrice bergamasca Elena Maffioletti legge “I bastardi di Sarajevo”

La bravissima scrittrice bergamasca – ma innamorata anche di Lanciano e dell’Abruzzo – Elena Maffioletti mi ha fatto l’onore d’essere presente a inizio maggio alla presentazione del mio nuovo libro, Višegrad. L’odio, la morte, l’oblio, a Lanciano, presso la Libreria D’Ovidio del comune amico Giorgio Ranalli.
Elena durante l’incontro pubblico ha avuto anche la squisitezza di leggere una pagina tratta da Višegrad, ma è stata attratta magneticamente da un altro mio libro, I bastardi di Sarajevo, che sfogliava e leggiucchiava durante la presentazione.
Alla fine, la sorpresa: ha acquistato il libro, l’ha letto e mi ha mandato una sua personalissima recensione, che ho l’immenso piacere di condividere ora con chi vorrà trarne beneficio. Buona (breve ma intensa) lettura!

Ciao Luca,
eccomi a riprendere i fili del nostro incontro in libreria, e  anche quello di sintonie che spesso sono il preludio ad amicizie preziose.
Ho terminato ieri sera (anzi, stanotte) la lettura de I bastardi di Sarajevo.  Sono sorpresa. Che il libro fosse “duro” lo sapevo, sia per averlo velocemente sfogliato, sia per aver raccolto le impressioni di un’altra tua lettrice a Giulianova. Quindi non è di questo che si tratta, o almeno non nello specifico. Creare un romanzo “d’informazione” non è per niente facile, e tu lo hai fatto con grande naturalezza. L’uso del dialogo è calibratissimo e i personaggi ne vengono fuori a sbalzo in maniera davvero efficace. La scelta del discorso diretto tout-court era pericolosa, ma a me sembra che tu l’abbia governata benissimo. Le molte anime dello scrittore viaggiano dietro le quinte a tutto vantaggio del romanzo, dando vita non solo a una denuncia ma anche a una tipologia umana molto diversificata e coerente con le proprie premesse. Mi piacciono in particolare le donne:  Emina, Azra e Fata sono a tutto tondo. Il diario di Fatima è quanto di più femminile potesse essere immaginato nella sua dignità umana, nella voce sussurrata della vittima che resta aggrappata alla vita altrui per trovare la forza di continuare a vivere la propria. Sono convinta che uno dei compiti più difficili, per chi scrive, sia  creare personaggi di sesso diverso dal proprio e renderli credibili. Ho letto di recente il libro di uno scrittore attualmente in voga, dove la protagonista era così smaccatamente il suo alter ego da presentare caratteristiche prettamente mascoline. Altamente irritante, almeno per me, soprattutto perché chiaro sintomo di autoreferenzialità. I tuoi personaggi, invece, nella loro durezza e nella drammaticità delle circostanze, sono vivi e autonomi proprio perché li hai  “abitati” lasciandoli liberi.

mercoledì 14 giugno 2017

Week-end di multiculturalità e impegno a Giavera del Montello

La nostra casa editrice sarà presente al Giavera Festival, Giavera del Montello (Treviso), nei giorni di sabato 17 e domenica 18 giugno. Qui potete scaricare il pdf della penunltima versione del pieghevole.
Oltre a esporre quasi l'intera collana Orienti e le novità nel banco dedicato alla Infinito edizioni, sarò io a curare le interviste dell'"Angolo Balcanico", che teniamo aperto ormai da tre anni. Quest'anno abbiamo ospiti, tra gli altri, due colleghe del quotidiano sarajevese Oslobođenje e due associazioni erzegovesi, Univerzum da Mostar e Orhideja da Stolac.
Facendo clik qui potete trovare tutte le info necessarie.
Ci vediamo a Giavera del Montello!

martedì 13 giugno 2017

Višegrad. L’odio, la morte, l’oblio oggi alle 17,00 sulla Rete Due della Radiotv svizzera

Questo pomeriggio alle 17,00 il giornalista Luca Leone sarà ospite del giornalista Enrico Bianda sulle onde della Rete Due della RSI, la Radiotelevisione pubblica svizzera di lingua italiana. Al centro del dialogo – che potrà essere ascoltato in diretta in streaming anche attraverso il sito del secondo canale della RSI (http://www.rsi.ch) – il reportage dal titolo Višegrad. L’odio, la morte, l’oblio, recensito oggi da Riccardo Michelucci in un ottimo articolo pubblicato su "L'Avvenire", dedicato da Leone al luogo in cui per la prima volta la pulizia etnica su larga scala ha trovato applicazione nella guerra di Bosnia Erzegovina (1992-1995), trasformando tra il 1992 e il 1994 la Drina cantata dal premio Nobel per la letteratura Ivo Andrić nella più grande fossa comune liquida di quel conflitto.

Pionirska ulica, Višegrad, 14 giugno 1992: quando il Male scese sulla terra

Višegrad, Bosnia orientale, primavera del 1992. Finita a partire dal 19 maggio sotto il controllo del gruppo paramilitare delle Aquile bianche, guidato dai cugini Milan e Sredoje Lukić, da circa un mese la città è oggetto di un lavoro radicale di pulizia etnica da parte degli estremisti serbo-bosniaci ai danni della popolazione civile musulmano-bosniaca, che costituisce circa il 64 per cento dei residenti.
Il 14 giugno, nel succedersi degli eventi, appare come uno dei giorni più tragici della storia contemporanea di Višegrad e del conflitto bosniaco-erzegovese, segnato dall’eccidio di Pionirska ulica e da un’altra uccisione di massa. Ripercorriamo quel terribile giorno grazie all’attento lavoro di ricostruzione del giornalista Luca Leone nel libro Višegrad. L’odio, la morte, l’oblio.

“14 giugno 1992, si festeggia il Vivovdan, la festa serba che ricorda il martirio di San Vito nel 303 dopo Cristo. Per gli ultranazionalisti serbi l’occasione è ghiotta per bagnare la ricorrenza con sangue infedele. A Višegrad una settantina di persone – principalmen­te donne, bambini e anziani – vengono fatte entrare a forza e rinchiuse nella cantina di una casa di Pionirska ulica, una via non centrale, nel quartiere di Nova Mahala. L’abitazione, oggi restaurata, è di proprie­tà di un musulmano, Adem Omeragić. Prima, però, tutte le persone sequestrate vengono derubate di ogni avere e alcune donne vengono stuprate davanti a tutti. Milan e Sredoje Lukić, Mitar Vasiljević e i loro paramilitari tirano una granata in casa attraverso una finestra. Poi Milan Lukić in persona appicca il fuoco gettando dentro la casa un ordigno incendiario. Le fiamme salgono alte dopo pochi secondi e non si affievo­liscono prima di ore. Nel rogo muoiono almeno 55 civili (secondo alcune fonti, fino a sessanta), oggi ricordati da una targa apposta su una parete esterna del­la casa, contro la volontà dell’amministrazione comunale in carica. La vittima più anziana ha 75 anni, la più giovane è una bimba di soli due giorni di vita. Tra le fiam­me ardono i corpi di un’intera famiglia di 46, forse 48, persone. Era la famiglia Kurspahić, cui la piccola di due giorni di vita apparteneva. Tra i morti ci sarebbero 17 bambini con meno di 14 anni d’età. Alcune vit­time predestinate riescono a fuggire approfittando del fumo, non viste dagli aguzzini. Altre, invece, almeno una decina, vengono individuate e ammazzate senza pietà a colpi d’arma da fuoco. A sparare è soprattutto Milan Lukić, che di mestiere faceva il militare e aveva un’ottima mira. I pochi sopravvissuti testimonieranno al Tribunale penale internazionale per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia (Tpi) de L’Aja contro i due cugini Lukić. In particolare contro Milan, il cui nome in codice presso il Tpi era Lucifero.

lunedì 12 giugno 2017

“Sotto il mattone”, la lunga vita di un libro nato per essere utile e per divertire

Un lettore alle prese con l'acquisto di casa e un libro che torna dal mio passato. Questi gli ingredienti di questo breve post.
Il lettore si Chiama Massimiliano Malerba, amico di Facebook. Il libro è SOTTO IL MATTONE, che ho pubblicato ormai una decina di anni fa. Un'inchiesta sul mattone pubblicata poco prima che la bolla speculativa del mattone scoppiasse, che però ancora oggi - stando a quello che scrive Massimiliano - ha una sua utilità.
Mi fa piacere pubblicare il messaggio di Massimiliano sia perché per me le impressioni dei lettori sono fondamentali, sia perché il suo è uno dei pochi messaggi non scritto da agenti immobiliari, i cui toni sono stati quasi sempre oscillanti tra l'offensivo e il molto offensivo. A dimostrazione che il bersaglio è stato centrato e che alcune "sensibilità" da elefante erano state urtate... con piacere di chi scrive.
Ecco il messaggio di Massimiliano:
"Ciao Luca, ho letto con enorme piacere il tuo libro sull'avventura di cercare casa. Non solo fornisce da riflettere (e mi ha dato non poche dritte) ma aiuta a stemperare  nell'ironia la follia dell'arena immobiliare. Sto infatti da quasi un anno cercando casa e gli archetipi di cui racconti nel libro lo ho incontrati tutti. Mi sono fatto un bel po' di peluria sullo stomaco e ora so guardare qualsiasi immobiliarista dritto negli occhi, dal più sbarbato con completo di nylon infiammabile al più navigato che va in giro con la jeep. Conosco ogni clausola sospensiva e risolutiva e le più recondite barbagini contrattuali, con le quali difendermi come un oplitico scudo, ma ahimè la casa ancora non l'ho trovata... Comunque non dispero. Prima o poi ci deve essere un'uscita: tu l'hai trovata poi? Complimenti ancora".

In bocca al lupo Massimiliano!

venerdì 9 giugno 2017

Sabato 10 giugno parliamo di Višegrad e Bosnia a Parma

Vi invito domani a Parma, libreria VoltaPagina, via Oberdan 4/c, ore 18,30, per parlare con Laura Caffagnini e il Gruppo Bosnia dell'Azione Cattolica di Višegrad. L’odio, la morte, l’oblio

giovedì 8 giugno 2017

"I bastardi di Sarajevo" visti dallo scrittore veneto Brion

Ho avuto il piacere di ricevere via Facebook questo messaggio dal collega scrittore Cristiano Brion a proposito di un libro che mi è molto caro, I BASTARDI DI SARAJEVO. Mi fa piacere condividere con tutti voi la lettura di Brion.

"Domenica 2 aprile 2017 a Castelfranco Veneto si è svolta “Castelfranco legge”, manifestazione libraria dedicata alla piccola editoria. Qui ho avuto il piacere di incontrare la casa editrice Infinito e due libri mi hanno catturato, in particolare "I bastardi diSarajevo” di Luca Leone, che ho scoperto dopo essere anche l’editore.
Ho avuto la fortuna di visitare la città di Sarajevo nel 2008, con ancora evidenti i segni del martirio, in città e lungo tutto il percorso che all’epoca mi portò da Dubrovnik a Sarajevo. Ho un ricordo indelebile di una città splendida dove si respirava un'aria particolare, l’aria della fratellanza. La guerra in Bosnia è una ferita, per me, difficile da rimarginare, il primo e finora ultimo conflitto in Europa dopo la seconda guerra mondiale, combattuto a pochi chilometri da casa nostra, nell’indifferenza dei più e per ragioni che solo dopo molti anni ho imparato a conoscere attraverso numerose letture sull’argomento, quasi a voler colmare un senso di colpa latente.
I bastardi di Sarajevo” è stata l’ennesima lettura shock sull’argomento, un insieme di racconti che l’autore stesso dice “sono o possono essere tutti veri o verosimili”. È unlibro che punta diretto allo stomaco del lettore, è crudo, aspro, nelle storie e nel linguaggio. Sbatte in faccia al lettore una realtà difficile da immaginare. Aver scoperto - la somma ignoranza di chi scrive è colpevole e basta - che italiani partivano per fare delle battute di “caccia all’uomo” durante il periodo della guerra e probabilmente ancora oggi, mi lascia un tale amaro in bocca, che urlo, per la disperazione, in faccia al libro mentre lo sto leggendo.
Aspro nei toni ma delicato e struggente quando vi si racconta la storia di due sorelle, provate nel fisico e nell’anima dalla guerra, che stanno cercando di trovare una via di uscita nella morte. Ho ancora i brividi al ripensare ai capitoli scritti in corsivo.
Un libro che ti proietta in un altro mondo, molto vicino fisicamente e moralmente al nostro, ma che pochi conoscono; si ricorda a malapena che nel 1984 a Sarajevo ci sono state le Olimpiadi. Un libro che ti impedisce di interrompere la lettura: devi andare avanti e capire fino in fondo cosa voglia dire Snajper in quel contesto, dopo aver visto il film di Clint Eastwood.
Come spesso accade, il vino buono sta nelle botti piccole. Grazie a Luca Leone e alla sua casa editrice per offrire a tutti la possibilità di capire qualcosa di più di quella parte del mondo così lontana e allo stesso tempo così vicina.

Cristiano Brion
Castelfranco Veneto, 7 giugno 2017

mercoledì 7 giugno 2017

Dodik il negazionista alla prova della bugia estrema


Secondo il sito indipendente Balkan Insight, Milorad Dodik, presidente della Republika Srpska di Bosnia (Rs - una delle due Entità che costituiscono la Bosnia Erzegovina dopo gli Accordi di Dayton), “ha dichiarato che non saranno mai ammessi nelle scuole locali libri di storia che raccontino il genocidio di Srebrenica e l’assedio di Sarajevo”. Persino l’italico Corriere della Sera online s’è accorto della notizia, e questa non è cosa di poco conto, coi tempi che corrono per il livello complessivo dei media italiani.
Ciò detto, la notizia è una non-notizia – o forse una notizia estiva, da ombrellone – poiché mai i testi scolastici della Federazione sono entrati nelle scuole della Rs (e mai quelli della Rs in quelle della Federazione…), dove si studia su libri stampati in cirillico a Belgrado, e mai Dodik ha ammesso e con serenità (per sé e per il popolo che purtroppo è indegnamente chiamato a rappresentare) accettato il genocidio di Srebrenica, con ciò dimostrando appieno il suo livello politico e umano, oltre che il suo difficile rapporto con quella cosa chiamata giustizia. Sul fatto che Dodik non ammetta l’assedio di Sarajevo, poi, credo che la cosa non meriti alcun commento: evidentemente i sarajevesi si sono assediati da soli per oltre 1.400 giorni e hanno ammazzato con cecchini e granate 11.541 di loro senza neppure accorgersene… sono fatti così, questi sarajevesi: sempre distratti…

martedì 6 giugno 2017

Višegrad, 7 giugno: la strage della fabbrica di mobili "Varda"

Višegrad, Bosnia orientale, primavera del 1992. Dopo alcune settimane di occupazione e bombardamenti da parte dell’esercito regolare jugoslavo, ritiratosi il 19 maggio, la città viene sottoposta al controllo di un gruppo paramilitare guidato dai cugini Milan e Sredoje Lukić, che inaugurano un regime del terrore e dell’orrore. Il 7 giugno di 25 anni fa Milan Lukić, capo delle Aquile bianche, preleva sette musulmani-bosniaci presso la fabbrica di mobili Varda, li fa portare sulla riva della Drina e li fa fucilare alla presenza di molti testimoni, inclusi alcuni parenti delle vittime. I cadaveri delle vittime vengono gettati nel fiume, in seguito verranno recuperati solo tre corpi. Una settimana dopo, il 14 giugno, una settantina di persone – tra cui una neonata di 48 ore di vita – viene costretta a entrare in un'abitazione di Pionirska ulica. Milan e Sredoje Lukić, Mitar Vasiljević e i loro paramilitari tirano un ordigno incendiario in casa attraverso la porta e poi alimentano le fiamme per ore gettando benzina attraverso un foro praticato nel pavimento del piano superiore.
In pochi mesi la pulizia etnica ai danni dei musulmani-bosniaci – che costituivano il 63 per cento della popolazione locale – viene portata a termine con operazioni di rastrellamento, deportazioni e omicidi di massa di decine di civili all’interno di case private. Circa tremila persone vengono uccise e fatte scomparire.
Lo stupro etnico ai danni di donne, bambini e uomini diviene pratica comune.
Il fiume Drina, mirabilmente cantato dal premio Nobel per la letteratura Ivo Andrić, diviene la più grande fossa comune di quella guerra.
Višegrad. L’odio, la morte, l’oblio reportage scritto sul campo dal giornalista Luca Leone racconta le vicende, raccoglie le testimonianze di tutte le parti e fa il punto sull’episodio che ha rappresentato la prova generale di ciò che sarebbe accaduto tra il 1992 e il 1995 a Srebrenica, Prijedor, Foča e in altri luoghi passati alla storia per la crudeltà degli eventi verificatisi.