sabato 26 dicembre 2009

Se Natale è ogni giorno dell’anno…


Natale che viene, tempo di auguri. Ci sono stati altri Natali che ricordiamo, perché il tempo passa. Ce ne saranno altri. Succede da oltre duemila anni. Intanto in questo libro, E viene Natale, l’autore – Agostino Mantovani, classe 1937, bresciano, per anni direttore dell’Unione Agricoltori di Brescia e della Federlombarda Agricoltori, presidente dell’Ente Regionale Sviluppo Agricolo Lombardia (Ersal) e della Federazione Organismi Cristiani Servizio Internazionale Volontario (Focsiv), oltre che direttore del settimanale L’Agricoltore bresciano, del periodico nazionale Volontari e Terzo Mondo ed Europarlamentare dal 1991 al 1994 – traccia quarantuno modi inusuali e ricchi di poesia per formulare auguri diversi dal solito, ricordando che il Natale non è e non può essere la celebrazione del consumismo, ma altro. Ben altro.

D: Agostino Mantovani, da quale stimolo interiore nasce “E viene Natale” e chi si proponeva di raggiungere scrivendo questo libro?
R: Una “nascita” in sé è sempre un fatto meraviglioso. Figurarsi se nasce il figlio di Dio. Scrivere è un modo di comunicare e nel libro la comunicazione viaggia almeno in due direzioni: verso Dio, sotto forma di umile e personale preghiera, e verso il prossimo, per ricordare l’importanza del Natale.

D: Che cosa ha reso possibile la “commercializzazione” della festa del Natale e che cosa possiamo tutti noi fare affinché si torni a una dimensione più interiore e meno consumistica di questa regina delle ricorrenze cristiane?
R: Il commercio del Natale è una delle tante storture provocate dall’uomo nella sua instancabile corsa alla ricerca dell’utile materialmente inteso, senza pensare che agendo solo in questo modo vengono meno gli aspetti positivi del fare e crescono a dismisura gli aspetti negativi, perché prospera l’egoismo che è solitudine, che è aggressività e che quindi è il contrario dello stare bene, in pace, di dentro e di fuori. Ciò che ognuno di noi potrebbe (dovrebbe) fare è proprio tornare a una dimensione autenticamente interiore del Natale, che resta una festa e come tale va vissuta, ma non può, non deve essere intesa solo in chiave consumistica. L’autentica festa deve abbracciare soprattutto chi, per svariate ragioni, sta male. L’autentica festa va vissuta in chiave di solidarietà e condivisione.

D: Nonostante tutto questo, quale magia sa ancora conservare il Natale e quale messaggio porta al mondo?
R: Il messaggio del Natale è una somma di valori fondamentali per il cristiano, ma questi valori valgono per tutti gli uomini di buona volontà, a prescindere dalla loro nazionalità, stato sociale, colore della pelle, religione di appartenenza.

D: C’è in particolare un Natale che ricorda con affetto o nostalgia e uno che invece rammenta, al contrario, a causa degli eventi verificatisi nel mondo, con dolore?
R: I Natali che ricordo con più nostalgia sono quelli di quando ero bambino, di quando c’erano ancora i miei genitori che provvedevano nei giorni della Vigilia ad allestire il Presepio e io li aiutavo. Adesso, che sono anziano, sono io che nei giorni della Vigilia mi cimento a costruire un Presepio, ogni volta possibilmente diverso da quello dell’anno prima. Tento, con questo piccolo gesto, di trasmettere a chi viene dopo di me ciò che ho ricevuto. I fatti brutti ci sono sempre, insieme alle cose belle. Quest’anno, ad esempio, tra le cose tristi c’è stato il terremoto in Abruzzo, i nostro soldati morti in Afghanistan, l’alluvione di Messina, quella di Ischia. Poi ci sono le “solite” tragedie, quelle che pressappoco si ripetono ogni anno. I morti sulle strade, quelli per droga, quelli sul lavoro, la violenza sulle donne, l’inquinamento, la mortificazione del paesaggio, della natura e tanto altro ancora.

D: Quale messaggio dovrebbe giungere attraverso il Natale ai potenti del mondo?
R: Il messaggio del Natale ai potenti del mondo è il seguente: a loro è data la responsabilità di curare le piaghe dell’umanità. Basti pensare che un miliardo di persone soffre la fame e il problema è in aumento (duecento milioni in più solo nell’ultimo anno, secondo recenti dati della Fao). Ancora, nei Paesi ricchi (Stati, Uniti, Europa, Giappone, ecc.) un miliardo di persone consuma l’80% di tutte le risorse del pianeta, con la conseguenza che gli altri cinque miliardi abbondanti di persone devono accontentarsi del 20% di tutte le risorse. È un’ingiustizia talmente grande alla quale solo i potenti del mondo possono con le loro scelte porre rimedio.

D: Infine, un verso o un pensiero tratto dal libro per salutare i lettori e augurare loro buone feste di fine anno.R: Buon Natale ai miti, ai poveri, agli ubbidienti, soprattutto se lo sono nel nome di Dio, per lodarlo e ascoltare il suo comando. Il mondo va avanti per merito loro. Natale per loro è ogni giorno dell’anno.

lunedì 30 novembre 2009

Iran, sei mesi dopo


Ahmadinejad, Khamenei, Musavi, un Paese che “per non voler cambiare nulla, sta di fatto cambiando tutto”

Antonello Sacchetti, autore per Infinito edizioni del nuovo libro Iran. La resa dei conti (2009), oltre che di Misteri persiani (2008) e I ragazzi di Teheran (2006), può essere considerato oggi come uno dei maggiori esperti italiani di questioni iraniane. A quasi sei mesi dalla conferma del presidente uscente Mahmud Ahmadinejad e dall’esplosione delle violenze di piazza e della repressione del regime contro l’opposizione progressista, è giunto il momento di fare il punto della situazione, per cercare di capire dove questo Iran stia andando.

D. Antonello Sacchetti, sono passati quasi sei mesi dalle elezioni presidenziali iraniane, che hanno visto la contestata conferma alla presidenza del paese di Ahmadinejad oltre che scene di violenza e arresti ai danni dell’opposizione scesa a protestare nelle piazze. Che cosa è cambiato dal 12 giugno a oggi in Iran? E che cosa, invece, non cambierà?
R: A livello esteriore, formale, non è cambiato nulla. La Repubblica islamica è in piedi, Ahmadinejad è presidente, la Guida suprema è sempre al suo posto. Nessuno parla più di ripetere le elezioni, anche se ormai anche all’interno del fronte conservatore più di un esponente ammette implicitamente i brogli. Il cambiamento è però nella sostanza, non nella forma. Volendo fare una battuta, è accaduto l’esatto opposto di quello che Giuseppe Tomasi di Lampedusa fa dire al principe Fabrizio Salina nel Gattopardo: per non voler cambiare nulla, sta di fatto cambiando tutto. Khamenei ha pensato inizialmente di poter mettere a tacere con la forza le proteste, ma si sta rendendo conto che il Paese non è più quello di 10 o 15 anni fa. È stato contestato lui e il suo ruolo e si sono messi così in discussione i principi cardine del sistema iraniano. Il grande ayatollah dissidente Montazeri ha detto che questa non è più una repubblica (visto che il voto dei cittadini non conta più) e non è neppure islamica, dato che sono stati picchiati e arrestati cittadini inermi che gridavano “Allah è grande” o che si riunivano per pregare su una tomba. Tutto questo non ha finora portato a un cambiamento concreto, ma si è rotto (probabilmente per sempre) un equilibrio di potere che durava dalla morte di Khomeini (1989) a oggi. Il fronte conservatore è diviso e direi anche in parte turbato. Molti convinti sostenitori del sistema sono oggi in crisi, non si fidano più dei compagni di un tempo. E la protesta continua, in forme diverse da quelle dei primi giorni, ma continua. Tutte le celebrazioni ufficiali sono ormai diventate occasioni per scendere in piazza e manifestare. La presenza di un’opposizione diffusa è ormai innegabile e sotto gli occhi di tutti. Questo è un cambiamento molto importante.
Difficile dire cosa non cambierà. Credo che un tratto che resterà centrale in Iran sia proprio l’Islam. Lo è stato nell’Iran pre-rivoluzionario, lo sarò anche in un eventuale Iran post rivoluzionario. La riprova è la centralità che la religione sta avendo anche per l’Onda verde. Non dimentichiamo che oggi la maggior parte dei religiosi sono contro Ahmadinejad e in molti mettono in discussione personaggi e princìpi fondamentali di questo sistema.

D: Come definiresti la posizione di Ahmadinejad oggi in Iran e, in particolare, il suo rapporto con la Guida suprema Khamenei? Ahmadinejad potrebbe essere definito, in qualche modo, un’anatra zoppa?
R: È un rapporto molto più complesso di come è stato spesso descritto dai media. Khamenei ha appoggiato Ahmadinejad pensando di poterlo manovrare a suo piacimento, ma non è così. Anche perché il presidente ha una visione politica e ideologica che tende a superare il concetto di velayat-e faqih, cioè del “governo del giureconsulto” su cui si basa la Repubblica islamica. Ahmadinejad è anche portatore di istanze diverse: lui viene dal popolo e crede fermamente nel ritorno dell’Imam nascosto che porterà finalmente la giustizia in Terra. Da luglio in poi, quando si è trattato di formare il governo, è iniziato un tira e molla tra presidente e Guida. In questo momento Ahmadinejad sarebbe favorevole a un accordo con la comunità internazionale sul nucleare, mentre Khamenei rimane contrario. Per il momento, sembra prevalere la linea della Guida. Ahmadinejad appare assai più traballante di un’anatra zoppa. Non è esagerato dire che è molto meno potente di un anno fa.

D: Il personaggio Khamenei, potentissimo, è forse quanto di più politicamente inquietante partorito dalla Repubblica islamica nel complicato periodo post-Khomeini. Chi è Khamenei, quali poteri ha e quali gruppi di forza economici rappresenta?
R: Credo che sia un personaggio sottovalutato. Sebbene sia dotato di scarso carisma, non dobbiamo dimenticare che è stato presidente per 8 anni e da 20 è la Guida suprema. È una figura piuttosto grigia, imposta in extremis da Khomeini poco prima di morire. È stato presidente della Repubblica dal 1981 al 1989. Inizialmente, l’erede designato di Khomeini come Guida era Montazeri, figura di ben altro spessore e carisma. Khamenei non aveva nemmeno i requisiti per ricoprire quel ruolo. Venne “promosso” Grande Ayatollah in fretta e furia proprio per sostituire Montazeri che si stava smarcando dal fondatore della Repubblica islamica. Khamenei è a tutti gli effetti il Capo dello Stato iraniano. La Costituzione gli attribuisce poteri enormi: è lui il Capo delle forze armate ed è a lui che spetta l’ultima parola in politica estera. Dietro di lui ci sono i vecchi potentati economici e una parte consistente del ceto politico, soprattutto dei membri del Parlamento. Dal punto di vista economico, Khamenei è sostenuto dai potentati che finora sono rimasti fedeli alla Repubblica islamica e non vedono di buon occhio la politica populistica di Ahmadinejad. Ma è una situazione molto aperta. Il bazar – inteso come centro di potere economico – è sempre stato decisivo nei cambiamenti epocali dell’Iran. Lo scorso anno aveva manifestato malumore nei confronti del presidente per la tentata introduzione dell’Iva e alle elezioni la borghesia medio-alta ha votato e sostenuto Mousavi.

D: Nell’autunno 2009 si è parlato di una morte improvvisa di Khamenei, che invece è ancora vivo e in sella al potere. La Guida suprema corre seriamente il pericolo di venire “pensionato” a forza? In particolare, Ahmadinejad avrebbe la forza militare per farlo? O chi per lui?
R: Sono voci che ritornano ogni tanto. Khamenei era stato dato per morto anche nel gennaio 2007. È malato e anche debilitato dalle vicende degli ultimi mesi. Ma va detto che in questo momento sembra più saldo lui di Ahmadinejad. Tecnicamente, è l’Assemblea degli Esperti a poter destituire la Guida, ma è un’ipotesi che al momento sembra davvero poco probabile. Non ci sono i numeri per una decisione del genere e Rafsanjani, presidente dell’Assemblea degli Esperti, si è molto defilato dopo un’iniziale presa di posizione molto coraggiosa. Ahmadinejad non ha al momento la forza per un colpo di mano. Nemmeno i pasdaran (che rispondono per statuto direttamente alla Guida suprema) sono tutti dalla sua parte. La diatriba sul nucleare ne è la dimostrazione: Ahmadinejad vorrebbe chiudere un accordo per incassare un risultato storico. Ma se si spinge troppo avanti, Khamenei è pronto a scaricarlo e ad ammettere magari che le elezioni sono state truccate.

D: Come ha agito in questi mesi Mousavi, il leader dell’opposizione, e quali errori ha compiuto nella sua strategia?
R: Non credo che Mousavi abbia commesso particolari errori. Non è un personaggio antisistema. È stato premier per otto anni, crede nella Repubblica islamica. È diventato leader dell’Onda verde perché era il candidato che avrebbe potuto battere Ahmadinejad. E ci era riuscito, il 12 giugno. Su questo non ci sono dubbi. Da allora ha scelto una linea cauta che però non credo sia dettata da paura o scarsa convinzione. In diversi momenti sembrava che il suo arresto fosse imminente, ma se non si è arrivati a tanto è perché Mousavi non è caduto nelle provocazioni. Continua un lavoro politico importante, di critica e di raccordo delle anime diverse del movimento.

D: È Mousavi il futuro dell’opposizione in Iran o qualcuno più credibile e meno “imparentato” con il potere potrebbe a breve presentarsi sulla scena?
R: Karroubi, l’altro grande sconfitto delle elezioni, ha certamente posizioni più aperte, più riformiste di Mousavi. Ed è indubbiamente più carismatico, ha più spessore umano e culturale. Ed è un religioso, aspetto tutt’altro che secondario. Però il futuro non è in un personaggio in particolare. L’Onda verde è un movimento orizzontale, senza veri leader e senza nemmeno una piattaforma precisa. È la sua forza, ma anche la sua debolezza. Se si punta a una transizione, sarebbe invece opportuno un personaggio interno al sistema che sia però realmente intenzionato a un’apertura nel campo delle libertà e della partecipazione. Almeno, questo è quello che penso io.

D: Ma, in realtà, quando si parla di opposizione in Iran di che cosa si parla? Quanto differisce, veramente, l’opposizione progressista dalla maggioranza conservatrice?
R: Non c’è semplicemente una maggioranza conservatrice e un’opposizione progressista. Ci sono diversi sfumature in tutti i campi. Con differenze anche profonde. Anche all’interno del “clero”, si va da posizioni radicali ad altre molto aperte e in grado di essere ancora oggi un punto di riferimento per le nuove generazioni. Ma non è nemmeno esatto rappresentare l’Iran come una dittatura assediata da una massa di giovani che vogliono la libertà. Questi sono tutti stereotipi. Un sistema non dura 30 anni se non ci sono parti consistenti della società che lo sostengono. Il che non vuol dire automaticamente che il sistema sia “democratico”. Come ha detto lo studioso francese Hourcard, l’Iran non è ancora una democrazia ma è una repubblica. E in Medio Oriente non è cosa da poco.

D: Infine: perché nel tuo ultimo, ottimo libro parli di “resa dei conti”? Tra chi e chi altri e, soprattutto, chi ha vinto e chi ha perso in questa “notte dei lunghi coltelli iraniana”? Forse, per ora, solo il popolo?
R: La resa dei conti è dell’Iran con se stesso, con la propria storia. È il momento finale di una contrapposizione tra tradizione e sviluppo che è cominciata 150 anni fa e che ha avuto nella rivoluzione del 1979 un passaggio importante ma non conclusivo. Dietro lo scontro tra blocchi di potere c’è una contrapposizione tra blocchi sociali diversi. L’Iran di oggi non è più quello in cui nacque la Repubblica islamica e anche il mondo tutto intorno è cambiato. Cosa accadrà nessuno può dirlo, ma l’Iran non è più quello di sei mesi fa. E tutto questo proprio grazie alla grande partecipazione alle elezioni prima e alle proteste poi. Non so chi vincerà alla fine, ma di sicuro – se non ha ancora vinto – non si può nemmeno dire che abbia già perso.

giovedì 30 luglio 2009

Dalla parte dei bambini di Dharamsala


Un’educatrice, il dolore della persecuzione cinese e dell’esilio tibetano in India, la meraviglia salvifica e a tratti quasi taumaturgica del teatro nel libro di Enrica Baldi, I gioielli di Dharamsala. I giovani tibetani dell’esilio (prefazione di Cristina Comencini, introduzione di Raimondo Bultrini) che per anni ha dedicato la sua vita a “condividere” il teatro di Peter Brook con i bambini e ragazzi riparati in India dalla loro madrepatria Tibet.

D. Enrica, il tuo è un libro decisamente unico, figlio di un’esperienza altrettanto unica: alcuni anni trascorsi a Dharamsala, nel Tibetan children villane (Tcv), a insegnare teatro ad alcuni giovani della diaspora tibetana, in fuga dalle persecuzioni cinesi. Puoi raccontare la genesi di quest’esperienza e le motivazioni che ne sono alla base?
R. In realtà, più che insegnare teatro al Tcv ho “fatto teatro” con quei ragazzi. E ho permesso al teatro – nella forma più alta che io conosca, quella di Peter Brook – di sviluppare la personalità di bambine, bambini e adolescenti che desideravano interpretare le storie che io proponevo, e di risolvere insieme i conflitti che li paralizzavano. Credo che il teatro non si insegna. Il teatro lo si fa insieme e insieme ci si addentra nelle parti più remote dell’anima: questa è la base della condivisione. Io posso insegnare alcuni esercizi, posso condurre il gruppo sulla soglia della creatività, ma poi quello che ciascun membro scopre sul palcoscenico insieme agli altri non dipende certo da me come “insegnante”. Per la semplice ragione che ogni nuovo attore, ogni nuova attrice che sale sul palcoscenico, “Pinocchio” o “Antigone” che siano, possono essere molto più bravi di me. Come infatti erano.

D. Quali difficoltà hai incontrato – sia d’ordine logistico che per lo svolgimento del tuo lavoro – nelle altitudini di Dharamsala e come descriveresti il primo impatto con una cultura così profondamente diversa da quella dalla quale provieni?
R. Il freddo, soprattutto. D’inverno il laghetto ai piedi del Villaggio gelava e io avevo una stufetta con due barrette per scaldarmi e se la tenevo accesa tutta la notte saltava l’impianto elettrico. Di altre difficoltà non ne ho avute, grazie anche all’incredibile cultura classica dei dirigenti del Tcv che, bambini del primo esilio, per meriti scolastici erano stati ammessi in college d’élite, dove studiavano le “Metamorfosi” d’Ovidio per meglio capire Shakespeare! Quanto poi alla cultura tibetana, non posso dire di aver avuto a Dharamsala un “primo impatto”, perché per quasi 15 anni avevo avuto insegnamenti dalprofessor Namkhai Norbu, uno studioso di fama internazionale. L’impatto più duro è stato invece con la miseria indiana. Per quanto ne avessi letto e ne fossi informata, a quella non ero preparata. Ancora adesso a volte mi sveglio con il ricordo di una neonata poggiata dalla madre su un cumulo d’immondizia. Forse per non poggiarla direttamente sul marciapiede, non so.

D. Perché la scelta di leggere e rappresentare il teatro greco in un contesto come quello dell’esilio tibetano in India?
R. Perché tutto nella cultura tibetana è antico. Non nel senso di vecchio, ma nel senso di imperituro: la bellezza, la dignità, il modo di sorridere e di guardarti negli occhi, di cantare, di danzare… Esistono studi, che ho scoperto dopo, che documentano che la loro Lhamo Opera, la forma di teatro vivente più antica del mondo, è molto simile per struttura e finalità all’antica tragedia greca. Ma questo io allora non lo sapevo, ho agito d’istinto, reagendo alle problematiche che individuavo nelle ragazze e nei ragazzi che mi avvicinavano. E cercando di dare a loro quello che – alla loro età – aveva reso più felice me.

D. Dal punto di vista umano, quali traumi hai potuto riscontrare nei bambini e nei ragazzi tibetani che vivono nei Tcv di Dharamsala?
R. Meno di quanto dall’esterno si potrebbe pensare. Sicuramente il trauma della separazione dalla loro famiglia e, per quelli più grandi, l’angoscia e l’umiliazione della persecuzione cinese. Ma quello che mi ha colpito di più è stato proprio il fatto che le condizioni di vita del Tcv permettono a chi ci vive di recuperare in gran parte i propri traumi. Certo, ho visto molti sintomi di sofferenza psichica: il bambino che non cresce, infezioni cutanee, enuresi notturna. Ma anche la scarsa attenzione che l’adulto responsabile di una home può dare alla singola bambina o al singolo bambino viene compensata dal fatto che ogni nuovo venuto viene affidato alle cure fisiche e affettive di un fratello o una sorella di casa più gradi. A volte di tutti e due, come nel caso di Norbu, il protagonista del laboratorio su Pinocchio, che appena arrivato nella Home numero 7 venne preso in cura da una coppia di fratello e sorella e che adesso, a 20 anni, si è diplomato come elettricista e vive a Delhi proprio con quella “sorella” di casa. Inoltre la sofferenza dell’esilio è molto attenuata dal fatto che per loro il Tcv, per quanto sia in India, è veramente la loro casa. Come ha scritto Penpa Dolma grande, un’altra dei protagonisti dei miei laboratori, è stata la sua “casa lontano da casa”. Anche adesso che vive negli Usa pensa al Tcv in India come alla sua vera patria. Eppure è nata e cresciuta in Tibet fino ai 6 anni.

D. Questi giovani, crescendo, continueranno a sentirsi sempre degli sradicati, dei fuori luogo, o la tua esperienza ti insegna che la maggior parte di loro riesce a trovare una prospettiva di serenità e un luogo in cui sentirsi a casa?
R. Non si sentono degli sradicati. Sanno di avere molte difficoltà a trovare un lavoro una volta usciti dal Tcv, ma anche in questo la rete di corsi e formazioni messa in piedi dalla direzione del Tcv è encomiabile. I ragazzi di cui ho seguito la crescita hanno fatto tutti una buona (quando non ottima) riuscita. Crescere nei Tcv genera un forte senso di appartenenza e protezione che ti accompagna per tutta la vita. Anche quando vai all’estero e sei solo.

D. Quanto è forte nella comunità tibetana in esilio il desiderio di tornare a vivere in Tibet e come riesce la comunità a mantenere viva questa speranza, con un governo cinese invece così agguerrito e fortemente intenzionato a cancellare la tradizione e i valori tibetani dalle terre che Pechino ha occupato?
R. Direi che è un desiderio ambivalente. Da una parte desiderano tornare per la coscienza non solo di appartenere a un Paese bellissimo, e chi lo ricorda ne ha una grande nostalgia, ma anche di rappresentare una cultura che ha da sempre coltivato valori etici molto elevati, come la compassione per tutti gli esseri viventi, nessuno escluso – come scriveva Tharchin. Dall’altra però sanno che non solo le condizioni di vita in Tibet sono molto più dure di quelle in India, ma anche che in Tibet non c’è lavoro né, al momento, nessun futuro per i Tibetani. Quello perpetrato dal governo cinese è un vero genocidio.

D. Quale episodio della tua lunga esperienza a Dharamsala conservi con maggiore partecipazione emotiva?
R. Infinti. Sicuramente l’incontro con Norbu è stato quello più importante. Era un bambino fantastico, pieno di fantasia, d’affetto e d’iniziativa. Purtroppo era dislessico e ha avuto molta difficoltà negli studi. E le ripetizioni che gli davo ogni pomeriggio sono tra le esperienze più faticose e divertenti della mia vita!

D. Pensi che il mondo davvero abbia compreso il dramma del Tibet e che un giorno la morsa cinese potrà essere almeno allentata, concedendo almeno una vera autonomia a quest’antica terra?
R. Credo che tuttora pochi al mondo conoscano il Tibet e siano al corrente della tragedia del popolo tibetano. Pochissimi sanno che il popolo tibetano è sottoposto a un genocidio, come dal 1960 ha documentato un’apposita commissione di giustizia internazionale. Almeno in Italia. Forse negli Usa c’è una coscienza maggiore grazie a Hollywood, che si è veramente adoperata moltissimo, e grazie ad alcuni personaggi politici che hanno dato importanza alla questione tibetana. Ad esempio, l’anno scorso Nancy Pelosi è andata in visita al Tcv di Dharamsala e ha espresso loro tutta la sua ammirazione. Per quanto riguarda la morsa cinese, se si attenuerà o meno forse non dipenderà tanto da quanto l’Occidente potrà sporadicamente fare, quanto dal fatto che, all’interno della società cinese, per ragioni non del tutto politicamente razionali, si mitigherà l’accanimento contro i tibetani; probabilmente grazie al fisiologico passare del tempo e con l’affacciarsi sulla scena di nuove generazioni alle prese con problemi pressanti nel presente, e molto poco interessati al passato, che peraltro ignorano.

D. Quali colpe pensi abbia il mondo nella tragedia tibetana?
R. Credo al contrario che la società civile mondiale abbia grandi meriti per la sopravvivenza del popolo tibetano. Infatti è stato solo grazie a versamenti di denaro compiuto da privati cittadini, associazioni e fondazioni private di tutto il mondo che i Tcv hanno potuto esistere e svilupparsi, salvando la vita di centinaia di migliaia di piccoli tibetani e preservandone la cultura. Credo invece che abbia molte responsabilità l’Onu, che ha sì espresso pareri e preoccupazioni per la sorte del popolo tibetano, ma non ha mai accettato di discutere la questione tibetana con un apposito ordine del giorno. Hanno anche molte responsabilità tutti i governi che per opportunità politico-economiche non esercitano la dovuta pressione sulla Cina.

D. Come aiutare allora il Tibet e i tibetani?
R. Continuando a sostenere le comunità tibetane in India e in altri Paesi, sopratutto attraverso le adozioni a distanza, facendo in modo che ogni bambina o bambino per il quale si pagano gli studi, arrivi alla loro piena conclusione, non solo evidentemente pagando quanto dovuto, ma anche cercando in tutti i modi di star loro vicino, per lettera, e-mail o telefono, o andandoli regolarmente a trovare dove vivono. Io so quanto coraggio, fiducia e speranza possa dare loro una semplice lettera. Sarà una pietra con cui quella bambina, quel bambino, pavimenterà la sua strada; un ricordo felice cui poter tornare ogni volta che nel presente li assaliranno la paura e la sfiducia.

D. A te cosa ha lasciato quest’esperienza?
R. La convinzione che si può fare veramente moltissimo per bambini e adolescenti vittime di eventi molto più grandi di loro. L’aver potuto osservare coi miei occhi e per tanto tempo come è organizzato il Tcv, aver potuto seguire la crescita di tanti di quei ragazzi (in un modo o nell’altro ho interagito personalmente con almeno una cinquantina di loro per un arco di quattro anni) mi ha dato degli strumenti importanti per portare la stessa qualità di lavoro, la stessa compassione che ho sperimentato lì. Ho approfondito tutte le conoscenze necessarie in settori in cui non ero competente e ho recentemente costituito “Tenera mente – onlus” insieme ad amici di antica data per promuovere e gestire con loro progetti a favore di minori in Italia e nel mondo. Ci atteniamo alla Convenzione dell’Onu sui diritti dell’infanzia del 1990, che per me ha la sua massima espressione nell’articolo che prevede il diritto del bambino allo sviluppo armonioso e completo della sua personalità.

mercoledì 8 luglio 2009

Srebrenica, 14 anni dopo il genocidio / 1



Comincia oggi la settimana che si concluderà, sabato 11 luglio, con il ricordo del genocidio di Srebrenica, consumatosi l’11 luglio 1995 davanti agli occhi dei caschi blu dell’Onu e di una comunità internazionale del tutto assente e disinteressata.
Regalo ai lettori uno dei capitoli, l’ottavo, di “Srebrenica. I giorni della vergogna”, giunto alla seconda edizione e in traduzione in serbo-croato (sarà pubblicato in Bosnia il prossimo autunno).
Quello di Srebrenica è stato l’unico genocidio consumatosi in Europa dopo quelli perpetrati dal nazifascismo ai danni di ebrei e rom. “Srebrenica. I giorni della vergogna” è l’unico libro aggiornato interamente dedicato all’argomento in distribuzione in Italia e il primo libro di un autore italiano in materia a essere tradotto in serbo-croato e a essere immesso nel mercato balcanico.


Un giornalista a Srebrenica
Tratto da Srebrenica. I giorni della vergogna
Infinito edizioni, seconda ristampa, 2007


Il sole è basso dietro le case di Srebrenica, nonostante sia solo l’ora di pranzo. Il cielo è di nuovo velato di qualche lieve strato di nuvole; un vento frizzante sferza le gote, scompiglia capelli e fa alzare buffi mulinelli di polvere che ricadono confondendosi con la sporcizia e il grigio del cemento schiaf¬feggiato qua e là da qualche cazzuola per chiudere alla meglio i buchi delle granate. Sadik Salimović se ne sta fermo in un giubbotto marrone chiaro un po’ consunto accanto alla sua vecchia Volkswagen Polo rossa, parcheggiata con una certa fantasia una decina di metri più in là rispetto all’irta scalinata del palazzo comunale, non lontano da una catasta di legna da ardere che qual¬cuno ha già ordinato diligentemente per l’inverno incipiente sull’asfalto rab¬berciato, proprio sotto un palazzo dalla facciata bianca. L’uomo è incuriosito dalla presenza di forestieri e non lo nasconde. Si avvicina a Malkić, gli chiede qualcosa. Il sindaco ci presenta questo personaggio di mezza età, dal fisico leg¬germente appesantito e lo sguardo penetrante dietro gli spessi occhiali, come «il giornalista di Srebrenica».
È una sorta di istituzione, Salimović: tutti lo conoscono, quasi tutti lo sa¬lutano, in molti probabilmente lo temono. E lui teme loro, a giudicare dalla circospezione con cui cammina sui marciapiedi rattoppati schivando i segni delle granate sull’asfalto consunto. Ha scritto un libro sulla sua città, dalla fon¬dazione alle lacrime disperate delle donne di Srebrenica che piangono i loro cari. Non ha editore e per stamparne 3.000 copie si è indebitato per gli anni a venire. Ma ha fatto le cose in grande: copertina pesante con fondo argentato: che cosa c’è di meglio per la città dell’argento? «Sono stato a Tuzla per otto anni, durante e dopo la guerra. Ho avuto varie opportunità per andare via dalla Bosnia ma non ho voluto, non ho potuto. Ho sempre cercato di tornare a casa, qui a Srebrenica, e l’ho fatto due anni e mezzo fa: non me ne sono pentito» racconta una volta arrivati in cima alla salita che porta nel cuore della città. Gli spieghiamo che dobbiamo incontrarci con Hatidja Mehmedović, fondatrice e direttrice dell’associazione civica delle Madri di Srebrenica e Žepa, che si occupa di dare assistenza economica alle persone che decidono di rien¬trare nell’ex enclave. Sgrana gli occhi piccoli: la conosce, molto bene. Si offre di accompagnarci da lei.
Torniamo dal povero Eldin e lo ritroviamo pallido, a stomaco vuoto come noi – nonostante ci fossimo lasciati con lui intenzionato «a cercare un posto dove mangiare un sandwich» – e con un uomo grande e grosso dalla faccia squadrata che lo tallona zoppicando visibilmente e caracollando da un paio di metri d’altezza: «Dice che è un serbo di Bratunac. Che fa il tipografo e vuole un passaggio per tornare in città. Dice che non è riuscito «a scrollarselo di dosso» traduce un’allibita Emira mentre il tassista guarda da un’altra parte.
Dopo che a fatica Eldin ha riavviato il suo bianco mulo stanco seguiamo la Polo di Salimović fino a una strada sterrata fuori città, dove lasciamo il tas¬sista, decisamente preoccupato, e il suo nuovo “amico” di Bratunac, un uomo decisamente impaziente.
Ci inerpichiamo con Emira e Sadik fino a raggiungere la vetta della collina. Ci sono case distrutte, altre edificate a metà, altre ancora quasi finite. Quella di Hatidja appartiene a quest’ultima categoria. Anzi, ci spiegherà poi, grazie ai soldi che un’amica austriaca le ha donato ha potuto avviare la costruzione di alcuni muretti in cemento armato per contenere la terra che, durante le frequenti piogge, tendeva a franare contro le pareti della sua casa, costruita in basso, in pendenza rispetto alla vetta della collina.
Lì fuori vivono una parte dei ricordi più dolci e tragici di Hatidja: lì cre¬sce l’albero piantato dal maggiore dei suoi due figli, entrambi uccisi dai ser¬bo-bosniaci nel genocidio di Srebrenica; lì, sul cemento ruvido del piccolo spiazzo che si apre davanti alla sua casetta, fredda all’interno come la morte che avremmo conosciuto per nome e cognome il giorno dopo, a Tuzla, giace l’impronta di una piccola mano: «Ricordo ancora quando mio figlio minore la lasciò, premendo la manina sul cemento fresco. Volevano cancellarla, ma glie¬l’ho impedito: quest’impronta e quest’albero sono tutta la mia vita» spiega la donna, passando poi a raccontarci del serpente che proprio quella mattina le è entrato in casa e alla caccia intrapresa per espellere l’indesiderato e velenoso rettile da sotto i modesti ma ordinati mobili. Perché è così difficile trattenere le lacrime, a volte?
È nel salotto al primo piano, l’unica camera lievemente riscaldata da una stufa a legna di ghisa nera, che Sadik, consumando un caffè preparato da Ha¬tidja, che si limita a guardarci poiché sta osservando il Ramadan, ci racconta non senza resistenze della “sua” Srebrenica, prima di salutarci titubando un po’ davanti alla richiesta di poter citare il suo nome nell’intervista e lasciarci con l’universo immensamente complesso e tragico della donna che ci ospita, e che di tanto in tanto approfitta delle nostre chiacchiere per andarsi a mettere la camicia buona, tirare su la crocchia dei capelli ingrigiti dal dolore o infilare un ciocco di legna nella bocca di ghisa della stufa.
Sono poche domande, quelle che viene spontaneo fare a Salimović, le cui risposte fotografano una realtà difficile da capire, per chi viene da lontano.
Immagino che avrai avuto modo, in questi anni, grazie al tuo lavoro, di moni¬torare Srebrenica su tutta la stampa bosniaca: come se ne parla?
Srebrenica ha un’attenzione dei media molto particolare; qualche volta vie¬ne presentata in cattiva luce, ma per lo più sotto aspetti positivi. Credo che in città ci siano stati notevoli progressi in questi ultimi due anni. Penso ad esem¬pio alla vita pratica. Srebrenica prima della guerra era stata completamente illuminata, anche nelle zone rurali; dopo la guerra c’era corrente elettrica solo in città. Ora, con l’aiuto americano, l’elettricità copre il 95% del territorio.
Il sindaco ha detto che tutta l’area rurale è di nuovo illuminata.
Lui fa il politico, io il giornalista. So per certo che ne manca ancora in al¬cune zone, ma che si sta lavorando a questa come ad altre urgenze. Si stanno ricostruendo le strade, ad esempio, per poter raggiungere tutti i posti abitati; ai rientrati viene dato un aiuto, nei limiti delle possibilità. Percepiamo ancora assistenza umanitaria, dall’America e dai Paesi europei, perché qui la gente vive solo d’agricoltura, non c’è lavoro. Prima della guerra avevamo in città 10.000 impiegati; ora siamo in tutto 10.000 abitanti...e le persone che lavora¬no saranno al massimo 500. Tanti sfollati dei tempi della guerra non tornano perché qui non c’è lavoro; ma è altrettanto vero che queste stesse persone non hanno un’occupazione neanche a Tuzla, così magari alla fine qualcuno di loro decide di ritornare alle sue vecchie proprietà per occuparsi d’agricoltura e allevamento. Io personalmente ho lavorato per 7 anni alla televisione di Tuzla; ero impiegato a tempo indeterminato ma sono tornato benché fossi consapevole del fatto che qui non avrei mai trovato un posto fisso. Ora lavoro solo quando ci sono progetti dedicati a Srebrenica. Ma sono felice della scelta che ho fatto.
Dopo 10 anni, a tuo avviso, il genocidio di Srebrenica comincia a essere rivisi¬tato? In sostanza, il negazionismo sta riuscendo a guadagnare strada oppure no?
Vedi, le nostre ferite non potranno mai guarire, perché qui è successo qual¬cosa di particolare. Non lo possiamo dimenticare: dobbiamo vivere con que¬sto ricordo, soprattutto per quello che è successo l’11 luglio 1995, e non ho paura di dire che tutti coloro che fin qui hanno avuto il coraggio di ritornare sono degli eroi. Nel 1992 molti cittadini di Srebrenica, serbi e musulmani, sono dovuti fuggire, anche se ancora non si sapeva esattamente a che cosa saremmo andati incontro, in particolare per le decine di migliaia di persone che rimasero. Ora siamo tornati, pur sapendo quello che è accaduto. Credo che non ci sia nessuno capace di spiegare quale e quanta sia questa forza che ci spinge a rientrare nelle nostre case. Gran parte della gente che torna lo fa per¬ché ha un grande orgoglio. Mi chiedevi del revisionismo, del negazionismo… Beh, non possiamo nascondere che soprattutto all’inizio, da parte serba, si sia manifestata una certa resistenza, poiché la maggior parte di loro tendeva a ne¬gare il crimine. Però ufficialmente lo stesso presidente della Rs, Dragan Cavić, ha riconosciuto che a Srebrenica è stato compiuto un crimine atroce. È vero: persino i serbi di Srebrenica inizialmente hanno negato che il genocidio fosse stato commesso, ma ora lo riconoscono, sebbene non abbiano le idee chiare su che cosa sia successo esattamente qui, perché anche molti di loro sono stati rifugiati altrove. Inizialmente le autorità serbo-bosniache hanno fatto di tutto per nascondere i crimini, a cominciare dai militari, che negavano tutto. Ma una tragedia di queste dimensioni, con 7.500, forse 8.500, forse 10.000 e più morti, non può essere tenuta nascosta per sempre, è impossibile.
La stampa nazionale come ha accolto il terzo rapporto della Commissione della Rs, di cui accennavi poco fa?
Attualmente tutta la stampa riporta i fatti in maniera oggettiva. Ora non si tace più su questi argomenti. Per fortuna, è questa la verità.
La depenalizzazione del reato di diffamazione a mezzo stampa è stato un evento celebrato da tutti i giornalisti bosniaci come una grande conquista; ciò nonostante, è aumentata la pratica di chiedere ingenti risarcimenti in denaro ai giornalisti e alle testate, bloccando di fatto la libertà di stampa nelle aule dei tri¬bunali. Oltre a questo, esistono pericoli per un giornalista bosniaco nello svolgere la sua professione in maniera oggettiva?
Non c’è nessun pericolo. Lavoro per un giornale di cui sono caporedattore, insieme a sei giornalisti, e scriviamo di tutto in modo oggettivo, di qualsiasi tematica si tratti: dalle cerimonie che si svolgono al memoriale di Potočari all’apertura di nuove fosse comuni, nelle quali a volte vengono ritrovati i resti di musulmani, altre di serbi. Non sento, da parte dei colleghi giornalisti serbi, l’intenzione di coprire la verità. Scriviamo oggettivamente e la popolazione lo accetta. Non abbiamo avuto critiche sui nostri pezzi da parte di nessuno, nonostante abbiamo trattato anche temi delicati. Tre anni fa non avrei mai pensato che sarei tornato qui: avevo davvero paura di rientrare. Ora svolgo una professione “abbastanza pericolosa”, costantemente sotto i riflettori del¬la critica, ma finora non ho avuto problemi. Oggi è molto più facile fare i giornalisti in ogni zona della Federazione rispetto agli anni immediatamente successivi alla fine della guerra; ma certo, qui non siamo nella Federazione, e a Srebrenica è tutto più difficile, perché questo è il terreno più sensibile...
Deve andare. Finisce il caffè, saluta ed esce dopo aver abbracciato Hatidja. Dalla finestra lo vediamo risalire il viottolo di cemento fino alle scalette che portano alla strada sterrata. Il bavero alzato, le mani in tasca, la testa bassa: un giornalista a Srebrenica.

giovedì 25 giugno 2009

Federico e la bussola per un mondo migliore


Un diario per un’infanzia da crescere e far diventare un’umanità migliore

Non spaventarti, Federico” è un diario di viaggio, un colorato e affascinante album di fotografie, una struggente raccolta di ricordi, un libro ironico e autoironico e molte, moltissime altre cose ancora. Ed è un libro che non ti stancheresti mai di leggere e che subito ti fa sentire la sua mancanza, appena hai letto e voltato l’ultima pagina.
Di questo piccolo gioiello editoriale – che si giova della prefazione di Stella Pende e dell’introduzione di Marco Scarpati – ristampato dopo solo un mese dall'uscita in libreria, abbiamo parlato con Olivia Molteni Piro, l’autrice.

D. Olivia, il tuo libro è “solo” tutto questo o è anche qualcosa in più?
R. Per me è soprattutto una dichiarazione d’amore alla vita non sussurrata ma gridata con forza. Quella vita che non puoi accettare di vederti passare davanti stando “seduta in panchina”. Quella vita che acquista valore nel momento in cui la gioia e la sofferenza degli altri si legano indissolubilmente alle tue tanto da rendere impossibile stabilire una linea di confine tra te e gli altri esseri umani che camminano al tuo fianco.

D. Federico è tuo nipote, il tuo primo nipote, e rappresenta al contempo un momento di arrivo e una fase di ripartenza. Tu esattamente in quale fase ti senti oggi e come stai affrontando questa nuova avventura da combattiva e inossidabile nonna?
R. Non sono mai riuscita a considerarmi nella fase di arrivo e credo di aver sempre volutamente spostato i traguardi da raggiungere ogni volta che mi ci avvicinavo. Oggi ho scelto di rallentare la corsa per adeguare il mio passo a quello di Federico. Mi entusiasma guardare il mondo con i suoi occhi, condividere il suo stupore, scoprire e imparare ogni giorno qualcosa di nuovo grazie a lui.
Sognare che abbiamo la possibilità di scrivere, insieme, una nuova pagina della storia, non solo nostra, ma delle persone che conosceremo. Sperare che condivideremo gli ideali e i valori che hanno condotto me per mano fino a oggi e che potranno diventare i suoi e poi quelli dei suoi figli e dei suoi nipoti.

D. Di che cosa esattamente non dovrebbe spaventarsi Federico e quanto le storie e i consigli che dedichi a tuo nipote sono, in realtà, bussole per l’infanzia che costituirà l’umanità – speriamo migliore – di domani?
R. Io spero che Federico, come molti altri bambini che si affacciano ora alla vita e che saranno gli adulti di un futuro a noi ancora sconosciuto, non debba avere paura di assumersi la responsabilità di essere testimone di uno stile di vita che mette in primo piano e adotta come priorità il rispetto reciproco, la giustizia sociale, l’uguaglianza di diritti, la convivenza pacifica e lo scambio delle ricchezze che la multiculturalità può offrire. Le bussole che io gli sto offrendo, non solo con le parole, ma con concreti esempi di vita, possono aiutarlo a desiderare di prendere le distanze da tutto ciò che va contro queste priorità per sforzarsi di costruire, come tu dici, un’umanità migliore.

D. Hai speso tanti anni della tua vita soprattutto in Africa. Quali immagini ti sono rimaste più scolpite nella memoria, quali sensazioni? E che cosa vuol dire, secondo te, viaggiare veramente in Africa?
R. Ciò che mi ha sempre colpito dell’Africa e che me l’ha fatta amare è la grande dignità con la quale anche le povertà e le privazioni più estreme vengono vissute e affrontate. L’orgoglio della sua gente che rialza sempre la testa qualunque sia il piede che cerca di calpestarla. Gli occhi dei bambini che riescono a sorridere anche quando la loro vita è appesa a un filo. I visi degli anziani che raccontano le fatiche di un’esistenza all’insegna del duro lavoro. Le strette di mano di uomini e donne che trasmettono energia vitale. La semplicità delle relazioni umane, il naturale istinto all’ospitalità nei confronti di chi è “altro da te”, la solidarietà silenziosa e scontata tra esseri umani…e potrei continuare ancora e ancora. Laddove la contaminazione della società occidentale ha preso il sopravvento e l’identità dell’Africa ha lasciato il posto a un ibrido tentativo di assimilazione alla nostra identità, tutto il suo patrimonio di valori e di onestà relazionale si è trasformato in un costante tentativo di strumentalizzare “l’altro” ai propri fini, con il triste convincimento che ciò possa essere una giusta compensazione a quanto l’Africa ha subìto dal resto del mondo per secoli. E mi fa male assistere a tutto questo perché l’Africa è in grado di mantenersi integra, con una visione positiva di sé e delle proprie risorse e con la capacità di “ricostruirsi” ponendo in atto, con il coraggio e l’onestà che la contraddistinguono, quei cambiamenti imprescindibili che ne favoriscano la crescita. Mi riferisco al rifiuto di aiuti internazionali che pongono vincoli e regole penalizzanti per l’Africa, mi riferisco all’eliminazione di governanti e uomini di potere corrotti, mi riferisco al coraggio di cessare di imitare quello che noi occidentali proponiamo come modelli.
Ecco, credo che viaggiare in Africa significhi sgomberare la propria mente da stereotipi e luoghi comuni lasciando che l’Africa ti entri dentro e si manifesti per quello che è veramente, non per quello che noi riteniamo che sia e vogliamo che continui a essere. Viaggiare in Africa significa saperne cogliere la ricchezza guardando oltre quello che gli occhi vedono.

D. La tua famiglia, i tuoi figli, sono per un terzo italiani e per i restanti due terzi africani o indiani. Come questa composizione ha modificato i rapporti interni alla vostra famiglia e con tuo marito Luciano e, in particolare, come, negli anni, ha modificato l’immagine di te e di voi in una città come Como, nell’opulenta Lombardia leghista?
R. I rapporti interni alla famiglia sono stati costruiti su basi solide, su profonde convinzioni, sulla disponibilità a mettersi sempre in discussione, a dialogare e a confrontarsi. Questo anche prima che la famiglia assumesse la caratteristica che ha oggi di una microsocietà multiculturale! Ogni decisione che presupponesse un cambiamento o una scelta è stata sempre condivisa da tutto il nucleo familiare e il massimo rispetto per il vissuto, i ricordi, la personalità, la cultura di appartenenza e la religione di ogni singolo membro della famiglia è stato presupposto imprescindibile al nostro “essere famiglia”. I miei figli, cittadini italiani di pelle nera, vivono quotidianamente episodi che, se non definibili discriminanti, evidenziano comunque la loro diversità. Ma la situazione buffa è che, appena vengono identificati come nostri figli, la connotazione quasi sempre negativa della diversità improvvisamente scompare. La Lombardia leghista, la Como leghista, è infastidita dai neri per le strade, ma se i neri si chiamano Piro…vi possono camminare…

D. Che cosa cambieresti della tua vita senza pensarci due volte e che cosa rifaresti assolutamente di nuovo?
R. Rifarei assolutamente tutto come l’ho fatto. Anche le esperienze negative (e ce ne sono state tante) mi sono state comunque utili e mi hanno insegnato qualcosa. Non cambierei niente.

D. “Non spaventarti, Federico” è legato a un importante progetto in Burkina Faso, nel quale ti sostiene anche l’associazione lariana Menala onlus. In cosa consiste questa nuova avventura e quali sono gli obiettivi che ti proponi di raggiungere?
R. La nuova avventura è la realizzazione di un centro sanitario con reparto maternità e alloggi per medici e infermieri in un villaggio, Bilogo, i cui abitanti (quasi 5.000) non hanno mai visto un medico perché il dispensario più vicino si trova a 15 chilometri di distanza e il loro villaggio è estremamente decentrato rispetto ai servizi accessibili più vicini. Le donne muoiono di parto, i bambini non raggiungono il primo anno di vita, la popolazione del villaggio non ha accesso a nessun tipo di medicina di base. Sento di dovere a questa gente un aiuto concreto affinché la qualità della loro vita possa migliorare senza esserne stravolta. Il personale del centro sarà burkinabè e i salari saranno pagati dal governo del Paese, che garantirà così la sostenibilità del progetto. Lo devo a Bilogo perché questa gente mi ha accolta, prima persona di pelle bianca a raggiungere il villaggio, come fossi una di loro e mi ha insegnato a vedere “ciò che è invisibile agli occhi” e che, spesso, soltanto il cuore riesce a sentire. Ai miei fratelli, alle mie sorelle di Bilogo voglio regalare la possibilità di essere sani, di lavorare, di continuare a far crescere, nel modo giusto, l’Africa. Vorrei sentirmi in pace con me stessa quando tornerò da loro e gli anziani del villaggio mi diranno “bentornata figlia”.

Andrea e il Paese dei cachi


Intervista ad Andrea Leccese, autore de “Torniamo alla Costituzione!

Nel Paese dell’evasione fiscale, dei furbi per forza e per vocazione e dell’abuso sempre permesso e condonato, la società civile non si è ancora arresa, e anzi lotta con forza e grinta, nonostante gli spazi d’espressione siano sempre più limitati. Andrea Leccese, autore per Infinito edizioni del pamphlet Torniamo alla Costituzione! compie una disamina lucida e inequivocabile dell’Italia in cui viviamo, mettendo in luce le responsabilità di tutti, non solo della mediocre classe politica da cui il Belpaese è afflitto. Partendo da chi, questa classe politica, se la sceglie a sua immagine e somiglianza. Ovvero tutti noi.

D. Andrea, da che cosa nasce questo tuo invito – quasi un grido di dolore – a tornare alla Costituzione?
R. Il mio saggio nasce anzitutto dalla preoccupazione per il diffondersi della becera invettiva antipolitica, quasi mai accompagnata dal reale desiderio di migliorare le cose. Bisogna smetterla di processare il Palazzo, di sputare sul potere, senza guardarsi allo specchio. Diciamocelo pure: gli italiani non sono molto meglio della classe politica che li rappresenta. La cosiddetta Casta non proviene da Marte. E la società che si lamenta del malcostume dei parlamentari è la stessa nella quale prosperano le più potenti organizzazioni criminali del mondo. È la stessa società che produce livelli di corruzione da “repubblica della banane”. È la stessa società dove l’evasione fiscale è una pratica collettiva. Dunque finiamola di insultare i politici, e avviamo piuttosto una seria riflessione sulla nostra società. Chiediamoci a che punto sta la nostra democrazia. Se ci guardiamo intorno, ci accorgiamo del quotidiano vilipendio di regole sancite a chiare lettere nella Carta Costituzionale. Se ci guardiamo intorno, ci accorgiamo che l’Italia è un Paese “fuori legge”, perché l’abuso dilaga ovunque.

D. In particolare, che cosa allontana oggi l’Italia reale da quella immaginata e impressa dai nostri padri costituenti in una delle carte fondamentali più avanzate e apprezzate del mondo contemporaneo, quella approvata il 27 dicembre 1947?
R. L’Italia che sognavano i nostri costituenti è un Paese fondato sulla solidarietà. Ma il loro fu un vero e proprio atto di “superbia intellettuale”. Come si può pretendere di imporre regole di democrazia sostanziale a noi popolo di furbi e di familisti “amorali”? La regola seguita dall’italiano medio è quella di massimizzare i vantaggi materiali e immediati della famiglia, pensando che tutti facciano lo stesso. “Frego il prossimo e lo Stato, perché tengo famiglia e perché così fan tutti”. Da noi, sembra essersi affermata una strana idea di libertà, quella di fare i propri porci comodi, gabbando il prossimo e calpestando le leggi e la Costituzione. Ma questa non è la libertà dei cittadini, ma la libertà dei ricchi, dei boiardi e dei confratelli. Che questo sia chiaro!

D. Nella quarta di copertina del tuo saggio parli, riferendoti all’Italia, del “familismo amorale di un Paese in cui la democrazia è manipolata”. In che cosa consiste esattamente questa manipolazione e come siamo arrivati fino a questo punto?
R. Gli strumenti di manipolazione della democrazia sono molteplici, ma il mezzo più efficace consiste nell’uso politico della paura. Si individua un nemico, normalmente gli extracomunitari, e si diffonde la paura, con lo scopo principale di giustificare agli occhi dell’opinione pubblica politiche reazionarie, di restrizione dei diritti civili e sociali. Ovviamente la paura viene seminata con i mass media. Ed ecco un altro strumento molto efficace per addomesticare il regime democratico: la disinformazione. Molto spesso, si ha l’impressione che da qualche parte operi una sorta di “ministero della Verità” che decide quali siano le notizie da dare. Quali quelle da nascondere. Quali quelle da mettere in risalto. Quali quelle da sussurrare. E quali siano le balle da confezionare. Un’informazione adulterata non può che tradursi nella manipolazione della stessa democrazia. Se guardiamo la tivù e leggiamo certi giornali, rischiamo di convincerci che il più grave problema di Palermo non sia più il “traffico”, ma i lavavetri al semaforo. Intanto, la Mafia S.p.a. produce un utile annuo di 130 miliardi di euro.

D. Come uscire da questa situazione?
R. Occorre appunto recuperare e diffondere i valori della Carta del 1947, una miniera da cui attingere preziose risorse per la nostra democrazia. Solo così potremo dire addio all’eterna Italia del “tengo famiglia”, all’eterna Italia del Marchese del Grillo, all’eterna Italia dei mafiosi che commemorano le proprie vittime, all’eterna Italia di uccellacci e uccellini.

D. Hai anche l’impressione che ormai nulla possa più scuotere i nostri connazionali? Come fare a recuperare o trovare l’amore per la patria, il rispetto per il prossimo e per la Costituzione, un vero senso di convivenza e di fratellanza in un Paese che sembra infrangersi, giorno dopo giorno, in mille pezzi?
R. Gli italiani hanno bisogno di esempi positivi che provengano non solo dai politici, ma da tutta la classe dirigente. E le famiglie possono essere collegate alla società tramite reti di associazioni che coltivino i valori democratici. Inoltre, si deve puntare molto anche sulla scuola che, con un più incisivo insegnamento delle norme costituzionali, può contribuire in modo efficace a creare le premesse per il progresso civile del nostro Paese.

D. Secondo te la classe politica contemporanea, indipendentemente dal colore politico, è in grado o semplicemente vuole “tornare alla Costituzione”, oppure ormai gli interessi di parte sono così cristallizzati e l’impunità per i potenti è arrivata a livelli tali da non far pensare che questo stato di cose possa, un giorno, essere civilmente e democraticamente modificato?
R. “Tornare alla Costituzione” è oramai una necessità. Il 2008 è stato l’anno di una crisi economica epocale. L’anno della crisi di quel capitalismo senza etica celebrato per decenni dai cosiddetti neoliberali. Essa ci dovrebbe insegnare che il sistema capitalistico non può esistere senza una giustificazione etica. Il capitalismo “sbrigliato”, senza regole, non solo provoca disastri economici, ma rischia di sgretolare le fondamenta della stessa convivenza civile. Ma dove troviamo la ricetta per una società migliore? Senz’altro nella Carta Costituzionale! Sì, proprio in quella norma fondamentale tanto denigrata dagli “spaghetti neocon”, promotori dello “Stato minimo” e del trionfo dei “porci comodi”. La Repubblica disegnata dai nostri Costituenti è uno Stato che interviene nell’economia con l’obiettivo di fondare una “società decente”, nella quale venga tutelata la dignità di tutti. È uno Stato che ha il compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3, comma 2, Cost.).

D. Che cosa ne pensi del peronismo all’amatriciana in cui il Paese è sprofondato e delle idee di riformare la Costituzione in chiave presidenzialista, snaturando totalmente il progetto, ancora vivo e perfettibile, dei costituenti? L’Italia è in grado, oggi, di accettare e di sopravvivere all’“uomo forte” al potere o la vera via è e continua a essere il parlamentarismo?
R. Una riforma di questo genere non può non preoccupare gli spiriti democratici più attenti, in un Paese che è stato la culla del fascismo. In un Paese nel quale i germi del fascismo sono sempre vivi e vegeti. Al familista amorale non dispiace un sistema che garantisce l’ordine per le strade e la difesa delle frontiere, mentre chiude un occhio e anche due sull’evasione fiscale, sulla criminalità organizzata, sulla corruzione, sugli abusi edilizi, eccetera. Attenzione poi all’“uomo forte” eletto dal popolo e unto dal Signore, che può rivelarsi il Napoleon di turno! La democrazia produce facilmente la sua negazione. Preferisco di gran lunga il Parlamento, luogo della necessaria seppur “noiosa” dialettica democratica.

D. Un’ultima domanda. Parliamo di evasione fiscale, di cui approfonditamente sottolinei i disastri e le conseguenze nel tuo ottimo e accorato saggio. A che livelli è, oggi, l’evasione?
R. Ogni anno sfuggono al Fisco oltre 100 miliardi di euro. “Dati imbarazzanti per un Paese serio”, ha detto Luca Cordero di Montezemolo. In realtà, i numeri dell’infedeltà fiscale non sorprendono affatto. Italia, la terra dei cachi e dell’evasione fiscale.

lunedì 22 giugno 2009

Da Srebrenica alla belva che è in noi


I diritti umani, l’Onu, la guerra, il genocidio, il giornalismo e tutti i Sud del mondo.

Simone Gambacorta intervista Luca Leone per Cultura Abruzzo.it

Luca Leone (1970) è saggista e giornalista professionista. Fra gli altri, ha scritto due libri importanti, “Srebrenica. I giorni della vergogna” (Infinito Edizioni, pp. 160, Euro 12) e “Uomini e belve. Storie dai sud del mondo” (Infinito Edizioni, pp. 174, Euro 13). Dopo averlo incontrato tempo fa al Circolo culturale “Il nome della rosa” di Giulianova (Teramo), lo abbiamo intervistato su questi suoi due volumi.

Sei un giornalista professionista: raccontami, in breve, il tuo percorso.
Ho cominciato a scrivere sul primo giornale locale a diciotto anni o giù di lì. Ho continuato durante gli anni dell’università, aggiungendo lavori di ricerca, saggi lunghi e altro per organizzazioni non governative. Nel frattempo, oltre a studiare, vivendo in una zona con una robusta tradizione agricola, lavoravo assiduamente come vendemmiatore, uomo di fatica e via dicendo, così da guadagnarmi qualcosa per sopravvivere. Dopo il servizio civile, la prima vera occasione: “Avvenimenti”. Da lì varie esperienze, da “Internazionale” al “Venerdì di Repubblica”, da “Metro” a “Medici senza frontiere”, dalla “Misna” a “Popoli e missione”, “Galatea”, “Liberazione” e tanti altri ancora. Nel frattempo, sono arrivati i primi libri veri: “Infanzia negata”, “Il fantasma in Europa”, il mio primo sulla Bosnia, “Anatomia di un fallimento”, sullo scandalo italiano dei centri di permanenza per migranti, e altri ancora.

Poi a un certo punto ti sei accorto che qualcosa non andava, e hai deciso di diventare un battitore libero…
Mi sono reso conto che il mestiere del giornalista è molto meno avventuroso, romantico, intellettualmente onesto di quanto fin da ragazzo sperassi. Mi sono altresì reso conto di non sopportare più le “veline” del potere e le omertà indotte dai direttori o dagli editori, e allora mi sono guardato dentro e mi sono sentito pronto per il grande salto. L’alternativa era fare il giornalista di redazione per tutta la vita. Non ce l’avrei mai fatta… Ho un carattere e uno spirito d’indipendenza che mi rendono troppo sensibile alle ingiustizie. E non ci sono luoghi più ingiusti delle redazioni…

È nata da qui la casa editrice Infinito edizioni, di cui sei fondatore e direttore editoriale: quali sono le finalità di Infinito edizioni?
Raccontare in piena libertà, senza reticenze e anzi svelandone lati oscuri e problematici, gli eventi del mondo, dal nostro ristretto e provinciale mondo italiano fino al mondo in cui si decide tutto e a quello, invece, in cui tutto si subisce. Diritti umani e civili, politica internazionale, testimonianza e reportage girnalistico: questi i nostri punti di forza. E poca narrativa, ma di alto livello perché molto selezionata.

È per i tipi Infinito che è apparso il tuo reportage “Srebrenica. I giorni della vergogna”. Andiamo con ordine e cominciamo col ricordare, a chi ci legge, che cosa “significa” Srebrenica.
Srebrenica, in pochissime parole, è il luogo in cui si è consumato l’unico genocidio in Europa nel ventesimo secolo dopo la Shoah. È luogo di dolore e di morte, in cui l’ultranazionalismo serbo e serbo-bosniaco e i paramilitari provenienti dalla Serbia hanno torturato e ammazzato – dopo tre anni e mezzo di assedio – tra gli 8.500 e gli 11.000 esseri umani, tutti di provenienza culturale bosniaco-musulmana, quasi tutti maschi, d’età compresa tra dodici e settantasette anni.

Perché il sottotitolo, “I giorni della vergogna”?
Come definire un genicidio e soprattutto il fatto che nessuno abbia fatto nulla per evitarlo, tra l’11 e il 19 luglio 1995? Avremmo potuto scrivere “porcheria”, ma vengogna sembrava più confacente.

Quale scarto c’è tra quel che è successo a Srebrenica e quello che la comunità internazionale – cioè noi – ha compreso?
Lo scarto è enorme, perché una parte molto consistente della comunità internazionale non ha mai neppure saputo e una parte consistente di chi ha saputo non ha capito, innanzitutto perché chi è preposto a piegare certi eventi – ovvero, la stampa – non è stata in grado di farlo, e poi perché da subito è cominciato il “balletto” delle negazioni, delle mistificazioni, delle smentite e delle bugie. Buona parte della stampa internazionale, a cominciare da quella italiana, è rimasta imbrigliata nelle maglie del nazionalismo bosniaco di diversa matrice – musulmano, serbo-ortodosso, croato – e molti giornali si sono messi passivamente a fare i portavoce della parte per la quale simpatizzavano, senza mai cercare di avere un approccio distaccato e indipendente, e spesso senza voler investire i soldi per mandare sul posto un giornalista in grado di capire e spiegare.

Quindi i diritti umani…
A Srebrenica i diritti umani sono stati calpestati senza che nessuno intervenisse e continuano in varia misura a essere anche oggi calpestati. Ieri, nel 1995, perché nessuno intervenne; oggi, nel 2009, perché in pochi, tra i responsabili del genocidio e tra gli assassini di una parte – quella serba – e dell’altra – quella musulmana – hanno pagato. In tanti, troppi, in realtà non pagheranno mai.

E l’Onu?
L’Onu – presente tra il marzo 1993 e il luglio 1995 con circa quattrocento caschi blu a Srebrenica (quando si verificò il genocidio di stanza a Srebrenica c’era il terzo battaglione olandese agli ordini del colonnello Ton Karremans) – è stata a guardare, spaccata come sempre dagli interessi di parte dei suoi membri permanenti. L’Onu così come è diventata non serve più a niente e a nessuno, fuorché a chi vi lavora, percependo lauti stipendi, e a chi, di volta in volta, sa usarne la voce come megafono dei suoi interessi. “L’Onu è morta a Sarajevo”, ha scritto un grande giornalista italiano. L’Onu forse è morta a Srebrenica nel 1995, o magari in Rwanda un anno prima, nell’aprile 1994. In ogni caso, quello che oggi si chiama Onu è un inutile ectoplasma dai costi altissimi, dai tempi burocratici elevatissimi e dalla scarsa efficacia. Un “parlatoio”, fondamentalmente.

Quando hai deciso di scrivere questo libro?
Quando l’incredulità ha lasciato posto al desiderio di approfondire, conoscere, andare sul campo e toccare con mano.

Quanto tempo ci hai lavorato?
L’ho scritto andando sul campo – cosa che faccio ormai da anni – e raccogliendo storie, testimonianze, vicende, e confrontandole col materiale documentale esistente. Quanto tempo esattamente mi sia occorso, non saprei. Di solito, lavoro a più libri insieme, perché un libro ha bisogno di macerare, sedimentare e poi germogliare, lentamente. Normalmente un libro non nasce prima di averci lavorato tre o quattro anni sopra, i primi anni non continuativamente, l’ultimo anno senza respiro.

Quali sono state le maggiori difficoltà?
Sul campo non ce ne sono state di significative, a parte i problemi derivanti dalla lingue, le distanze chilometriche, la necessità di porre le domande e di porsi in unn certo modo, dopo molto avere studiato, approfondito e cercato di capire. L’importante è muoversi con cautela, attenzione e in modo cristallino. Il problema maggiore sono i soldi, perché se ti muovi da indipendente, come nel mio caso, spendi molto meno, ma lo fai in prima persona.

Che scopo avevi?
Capire. Umilmente e sinceramente, capire. Provare ad andare fino al fondo, nel cuore della belva e nel cuore della vittima. Onestamente, credo di aver fatto bene la seconda parte; mi manca ancora qualcosa per completare la prima.

Cos’è per te un reportage?
Potrei risponderti: un genere giornalistico. Sinceramente, le definizioni mi sono sempre state strette. “Srebrenica. I giorni della vergogna” non è un reportage in senso stretto. È un genere ibrido, in parte reportage, in parte saggio storico, in parte analisi antropologica, in buona parte, semplicemente (si fa per dire), lavoro di raccolta di testimonianze sul campo. Parte di questo è reportage, altro no.

Il libro è andato bene, tre edizioni…
Tre e quella in lingua bosniaca in arrivo. Una responsabilità enorme. Uscirà per il più grande editore bosniaco: temo solleverà più di qualche polemica, in Bosnia.

C’è un altro tuo libro molto interessante, “Uomini e belve”, apparso sempre per le edizioni Infinito. Sottotitolo, “Storie dai sud del mondo”. Ecco, cosa sono, e quali sono, “I sud del mondo”?
I Sud del mondo sono molti più di quelli che immaginiamo. Non sono, innanzi tutto, luoghi geografici, come l’Africa, ma sono condizioni umane, fondamentalmente legate all’abbandono, alla sofferenza, all’emarginazione, all’incomprensione. In Italia è pieno di Sud del mondo. Basta fare un giro per Roma o per Milano per rendersene conto. Una volta la povertà, gli homeless, erano una “categoria” lagata ai poveri e poverissimi che, provenienti dall’Est europeo o dall’Africa, andavano a vivere in mezzo alla strada, non di rado impazzendo e, d’inverno, perdendo la vita a causa del freddo. Oggi tantissimi italiani hanno fatto o stanno facendo questa stessa fine e vengono ingoiati da questo Sud del mondo che rimane nascoso, segreto, isolato, ma che pure c’è, ed è sempre più vasto. Vasto eppure ignorato dai nostri potenti, gente che per mesi invade le nostre vite e le nostre anime sproloquiando su una povere ragazza in coma da oltre un decennio, e alla quale non è permesso dall’ipocrisia di una politica senza valori umani di staccare la spina. Ma se, come poi in quell’occasione è accaduto, a Genova un homeless perde la vita a causa del freddo, nessuno spende neppure una parola per quella vita umana spezzata e al massimo diventa una breve nelle pagine interne dei giornali, mentre la sfortunata in coma e gli sciacalli che le girano intorno guadagnano quotidianamente le prime pagine. Ai nostri potenti pare non interessare affatto il problema della povertà, dell’abbandono, della disperazione. Altrimenti, finanziaria dopo finanziaria, non continuerebbero a distruggere i seervizi sociali e lo stato sociale, magari per non far pagare l’Ici al clero o per non infastidire potenti categorie sociali, come il partito dell’evasione fiscale.

Il libro è suddiviso in tre sezioni: “Europa”, “Africa”, “America”. C’è una latitudine dove l’uomo non sia oggetto di dignità negata e di sofferenza?
Non mi risulta, purtroppo. Manca l’Asia, perché altrimenti il libro sarebbe diventato una sorta di enciclopedia. Ma se pensi al destino degli aborigeni in Autralia, ma risposta alla tua domanda è, purtroppo, no.

Quindi, riassumendo, che cos’è “Uomini e belve”?
“Uomini e belve” è un libro che raccoglie tesimonianze da tre continenti sulla doppiezza umana e sulla bestialità di molti comportamenti umani ai danni dei propri simili e dell’ambiente. Come mia abitudine, invece di parlare in prima persona faccio parlare i testimoni oculari, poiché ritengo cher il giornalista non debba ergersi, se non assolutamente necessario, a io narrante ma debba invece farsi vettore delle storie di vita – ovviamente, verificandole con il massimo scrupolo – di cvhi ha il coraggio di parlare, di raccontarsi, di aprirsi al mondo.

Adesso vorrei tornare al giornalismo italiano…
A parte qualche eccezione, è un giornalismo di passascartoffie, di parolai, di prime donne, di gente che ormai fa più attenzione a non pestare piedi che a pestarne, come invece accade ad esempio col vero giornlismo d’inchiesta anglosassone. È un giornalismo sciatto e deludente, che sta precipitando in un baratro senza fondo, in cui ormai i direttori sono passacarte di editori potenti e politicamente sbilanciati, e in cui la politica mette continuamente bocca, non di rado con atteggiamenti discutibili (o con disegni di legge discutibili…). È un giornalismo in decomposizione, con qualche eccezione, un po’ come l’Onu…

Quali sono le differenze tra mondo cartaceo, mondo televisivo e mondo web?
Il mondo televisivo è poco attendibile, poco approfondito, vergognosamente lottizzato o mnanifestamente incline al padrone e attraverso il potere delle immagini ha una inquietante forza manipolatrice. Insomma, è assai poco credibile. Quello cartaceo è condizionato dalla vendita degli spazi pubblicitari e dagli umori dei potenti a cui fa riferimento. Non di rado è strumentale. Quello Web è fresco e dinamico, ma in sovrabbondanza e difficile da verificare. Al contempo vantaggio e svantaggio sono la sua bassa controllabilità, il che sta spingendo i portaborse di regime a escogitare leggi liberticide per mettere il bavaglio anche a Internet. E se ci riuscissero, in questo Paese rimbambito ed egoista, probabilmente nessuno o quasi scenderebbe in piazza.

Essere un giornalista, che cosa significa? O che cosa dovrebbe significare?
Essere libero, indipendente, rispondere innanzitutto alla propria coscienza e avere il coraggio di approfondire e raccontare verità anche scomode, anche pericolose.

Qualcuno che ammiri?
Tanti, soprattutto tra i più vecchi. E la gran parte di loro non fa tv.

E il quotidiano? Lo compri ancora il quotidiano? O hai smesso di crederci?
Lo compro ancora, ma non di rado mi arrabbio. E da tempo non ci credo più, anche se un buon quotidiano resta comunque più attendibile di un telegiornale o di un radiogiornale. Da anni mi alterno tra “Repubblica”, di cui da tempo non riesco più ad apprezzare la pagina degli esteri, per me e per il mio modo di vedere fondamentale, e “Corriere della Sera”, che mai mi ha convinto del tutto. Per altri ho scritto, per questi mai. Il giornalismo è un mondo a parte e certe porte restano sempre sbarrate. Meglio così.

“Sogni di sabbia”, un libro per raccontare gli Invisibili del pianeta



Paolo Dieci, Cisp, racconta la genesi del volume che riporta storie e visi di migranti e fa il punto (assai critico) sulle politiche migratorie vigenti

Un progetto etico e di denuncia in un momento di forte crisi della coscienza sociale di un intero Paese. L’Italia. Questo è “Sogni di sabbia. Storie di migranti”, il libro voluto dal Comitato Internazionale per lo Sviluppo dei Popoli – Cisp ed edito da Infinito edizioni (che già ha dato alle stampe, nel 2007, Mamadou va a morire, di Gabiele Del Grande, giunto alla sua seconda edizione), che racconta attraverso visi e testimonianze la storia di molti migranti subsahariani rimasti prigionieri dei loro sogni e della sabbia algerina, in un Paese non di rado loro ostile.
Sogni di sabbia” è un utile strumento di riflessione in un momento storico in cui, in Italia, migrazione vuol dire automaticamente invasione e razionalizzazione dei flussi migratori fa rima con respingimento coatto in mare, anche se in violazione del diritto internazionale, anche se in accordo – verrebbe da dire in “combutta” – con una dittatura come quella libica, impersonata da un uomo oggi considerato “amico” ma fino a pochi anni fa negletto dall’intero Occidente, ma infine assurto a ruoli che non gli competono in virtù di un passato rimasto completamente impunito, ovvero sia il colonnello Gheddafi.
Per un Paese come l’Italia – un Paese, oltre che di emigrati, anche di “invasori” e colonizzatori che mai ha fatto i conti con il suo passato coloniale e con le sue meschinità – “Sogni di sabbia” rappresenta una decisiva possibilità di riflessione e di confronto con noi stessi e la nostra pietà. Se l’Italia è il Paese cattolico che sostiene di essere, nulla ha che vedere con il cattolicesimo e con il rispetto di certi precetti il respingimento coatto, anche di donne e bambini provenienti da Paesi in guerra, la negazione del diritto d’asilo o la sua delega a un Paese, come la Libia, che non ha neppure mai firmato la Convenzione di Ginevra ideata ad hoc ormai ben più di mezzo secolo or sono.
Del libro, di migranti e del loro destino, di legislazioni disumane e della politica che ha saputo strumentalizzare la paura di un popolo, quello italiano, in crisi di identità e di coscienza, travestendola da migrante, abbiamo parlato con Paolo Dieci, direttore del Cisp, che da anni lavora sia in Italia che in Africa settentrionale per garantire servizi di informazione e orientamento professionale ed eventualmente assistenza al rimpatrio per lavoratori migranti.

D. Direttore, l’importanza e l’urgenza di un libro come “Sogni di sabbia” è data dalla cronaca nazionale e internazionale. Qual è la posizione del Cisp rispetto alle politiche migratorie europee e nazionali e quali urgenze avete individuato?
R. Alcuni limiti di tali politiche sono così sintetizzabili: scarso coordinamento a livello europeo, tendenza, soprattutto in Italia, a identificare il tema della migrazione con quello della sicurezza e, soprattutto, mancanza di una visione globale dei processi migratori, che vanno compresi e gestiti nel loro insieme, per essere chiari dalla loro origine alla loro destinazione. Sembra oggi di assistere a una rincorsa al presidio delle frontiere, quasi che queste fossero minacciate da pericolose invasioni. Questa visione delle cose è ristretta, inefficacie, oltreché, come vedremo, moralmente discutibile. Le migrazioni sono processi globali, che nascono dallo squilibrio impressionante tra Paesi ricchi e Paesi poveri, si alimentano di aspettative per una vita diversa quando non da vere e proprie fughe. Governare tali processi presidiando le coste è impossibile. Servono politiche integrate, di accoglienza, cooperazione internazionale, formazione e orientamento delle comunità di immigrati. Servono chiaramente anche accordi tra Stati, ma in questo caso vorrei fare due brevi considerazioni. La prima è che tali accordi vanno sottoscritti non solo con gli Stati del Magheb, ma anche con quelli dell’Africa a sud del Sahara, dove spesso migrare significa provare a vincere le catene della povertà. Esistono esempi concreti ai quali l’Italia può rifarsi; penso, ad esempio, all’accordo siglato tra Unione Europea e Mali per l’attivazione di servizi di informazione e orientamento professionale ai migranti potenziali. La seconda considerazione è che tali accordi non devono avere come principale o unica finalità il respingimento dei migranti, senza dare loro oltretutto la possibilità di esporre le loro ragioni, di motivare, in molti casi, la richiesta di asilo.

D. La soluzione giusta alla pressione migratoria dal Sud verso Nord non consiste, dunque, nei respingimenti. Quali dovrebbero essere le risposte più adeguate a questo fenomeno?
R. Il respingimento indiscriminato è innanzitutto moralmente inaccettabile perché nega la possibilità di richiedere asilo anche a coloro che ne avrebbero diritto. Inoltre spinge in modo coatto i migranti in situazioni – lontano dai riflettori dei media – che nessun organo internazionale è in grado di monitorare. Nessuno ha “ricette” o soluzioni a problematiche così imponenti, che – lo ripeto – affondano le loro radici nella disuguaglianza mondiale. Possiamo però provare a ipotizzare un percorso, un processo verso cui andare. Provo a sintetizzare alcuni punti: accogliere la dimensione multiculturale delle nostre società come un’opportunità storica da valorizzare e non come una minaccia (non si dovrebbe scordare che uno dei Paesi più multiculturali del mondo, gli Stati Uniti, sono una grande e solida potenza mondiale, non uno Stato frantumato da divisioni e conflitti interni); lavorare con le comunità e associazioni di immigrati, responsabilizzandole e identificandole come strumenti essenziali per l’integrazione; rafforzare, nel senso che ho già provato a chiarire, la collaborazione tra Europa, Maghreb e Africa Sub Sahrariana; rafforzare le politiche di cooperazione internazionale.


D. Come nasce il progetto “Sogni di sabbia” e quali sono le finalità che la pubblicazione si propone di raggiungere?
R. Il libro nasce come edizione italiana di un testo pubblicato già in francese in Algeria. Va sottolineato questo dato perché le testimonianze e le foto del libro nascono dai progetti realizzati dal CISP nel Maghreb e in Africa Occidentale. Progetti che puntano ad affermare diritti concreti dei migranti, quali: il diritto all’informazione, a conoscere le opportunità e i rischi dei percorsi migratori; il diritto all’assistenza sociale, ovunque si trovino, nelle aree di origine, nei Paesi di transito, in quelli di destinazione; il diritto a essere sostenuti, se decidono di rientrare in patria, affinché il rientro non sia vissuto come un fallimento ma al contrario coincida con l’avvio di attività economiche per il sostentamento della propria famiglia.
Per dirlo in una frase, abbiamo voluto pubblicare “Sogni di Sabbia” per sottrarre i migranti alla condanna dell’invisibilità. Il libro non ci parla genericamente di migranti; ci mostra immagini e riporta testimonianze di donne e uomini con nomi, cognomi, storie, speranze, frustrazioni. Donne e uomini, se posso aggiungere, in ogni caso coraggiosi, che hanno intrapreso un progetto difficile, pieno di rischi e che hanno deciso di raccontarsi.

D. Il libro ritrae fotograficamente e custodisce le storie di molti migranti subsahariani rimasti bloccati nel limbo algerino, un limbo pericoloso e ostile, non meno della Libia. Oltre al coraggio di queste donne e di questi uomini sono incredibili le loro storie. Ce n’è qualcuna in particolare che le è rimasta impressa e che vuole raccontare ai lettori?
R. Tutte le storie contenute nel libro sono incredibili e coinvolgenti, perchè aprono uno squarcio su realtà dolorose, che solo in parte possiamo immaginare. Mi ha colpito la testimonianza di un giovane ragazzo della Costa d'Avorio, Haddane Konè, che vive ad Algeri lavorando come calzolaio. Lui, come tanti altri, ha tentato di arrivare in Europa attraversando il deserto, passando prima dal Marocco e poi dall'Algeria, senza riuscirci. In questo lungo viaggio ha perso un fratello e tanti amici, ha visto cose che mai avrebbe voluto vedere, ma ha scelto di farlo perchè nel suo Paese non c'erano soldi da guadagnare. Anche lavorando, lui e la sua famiglia non potevano farcela. Lui, come tanti africani, è partito per lavorare onestamente in altri Paesi. Ma spiega anche che “se lo Stato ci aiutasse, non andremmo in Europa. Se l’Europa pagasse il nostro cotone a un giusto prezzo, i giovani Africani non partirebbero. Da noi c’è la terra da coltivare. Abbiamo questa forza. Ma siamo fregati dal nostro Stato”.

D. Che cosa accade a chi non riesce a coronare i suoi sogni di sabbia? Brutalmente, che fine fa chi non riesce ad arrivare in Europa?
R. È noto che ormai i paesi del Maghreb sono sempre più significativamente luoghi di destinazione dei migranti dell’Africa sub sahariana. Molti rimangono a vivere in Algeria, ma anche in Marocco, Tunisia, Libia. Le condizioni di vita in questi Paesi sono quasi sempre molto dure, difficili anche perché fenomeni quali la xenofobia e il rifiuto del diverso esistono anche nelle società maghrebine, non solo nelle nostre. Altri decidono di tornare, di dare vita ad attività economiche nei loro Paesi e, come dicevo, quello del rientro volontario assistito è a mio avviso uno dei più significativi diritti da affermare.


D. Ma, a volte, anche a chi arriva da quest’altra parte del Mediterraneo le cose non vanno molto meglio. Sfruttati in nero nei campi o nelle fabbriche, oggetto di razzismo, disprezzati, ormai persino colpiti da apartheid, se pensiamo alle norme imposte dall’attuale governo italiano, che pretende da presidi, medici, infermieri e altri di trasformarsi in delatori, non di rado commettendo errori drammatici. Torniamo allora alle domande iniziali, ma stavolta dal lato dell’accoglienza. Perché un Paese di emigranti non sa e non vuole accogliere migranti, e anzi li discrimina, senza neppure avere la sensibilità di cogliere la differenza tutt’altro che sottile tra migranti economici e richiedenti asilo?
R. Mi permetto alcune considerazioni sul mio paese, l’Italia. È un paese per molti aspetti meraviglioso, con grandi istanze di solidarietà. È un paese dove ci sono tante associazioni di base, gruppi di volontariato (laico e cattolico), organizzazioni di solidarietà internazionali. Però c’è anche – e purtroppo crescente – una spinta verso il rifiuto del diverso e la xenofobia. Ho la sensazione che questa spinta nasca dalla paura e sia alimentata ad arte per meschini interessi politici. Lasciamo sullo sfondo il secondo tema e affrontiamo con energia il primo: dobbiamo disinnescare la paura del diverso. Lo ripeto: la società multiculturale non è una minaccia, ma una risorsa, anche in termini economici. Pensiamo ad esempio, in un’economia globalizzata, agli evidenti vantaggi che una società dove convivono comunità provenienti da vari Paesi può avere rispetto a società chiuse, arroccate su se stesse, incapaci di aprirsi all’esterno. Purtroppo c’è, a mio parere, un altro “problema italiano” da affrontare: questo Paese, per molti aspetti, lo voglio ripetere, meraviglioso, ha difficoltà a coltivare la memoria storica. Così come non ha fatto i conti con il suo passato coloniale oggi non fa i conti con la storia della sua emigrazione. Sta a tutti noi lavorare per ricostruire questa memoria. Del resto è difficile trovare una nostra famiglia italiana che non abbia o abbia avuto migranti. Nella mia, per fare un esempio concreto, ci sono persone andate a vivere in Costa Rica, Argentina, Stati Uniti. Se avessi questa autorità renderei obbligatoria, nelle scuole superiori, la lettura del libro “L’Orda” di Stella. È una lettura che oggi fa impressione anche perché evidenzia come i peggiori stereotipi contro gli immigrati sono del tutto speculari a quelli che si sono abbattuti contro la nostra gente. Gente che con il suo sacrificio e le rimesse dall’estero ha contribuito enormemente alla rinascita dell’Italia dopo la II guerra mondiale. Perché oggi dovremmo negare quest’opportunità ai nostri fratelli e alle nostre sorelle dall’Africa?

D. Possiamo concludere con una parola di speranza o le cose volgono davvero, inesorabilmente, al peggio?
R. Senza nessuna inutile retorica, la speranza è il motore che ci spinge ad andare avanti. E non nasce dal nulla. Nasce dalle tante e positive esperienze concrete di integrazione riuscita, dalle attività imprenditoriali alle quali hanno dato vita migranti giunti in Europa, dalle tante esperienze positive di successo di rientro volontario. Ad esempio, anche grazie all’osservatorio dei nostri progetti possiamo apprezzare cooperative di servizi e di produzione artigianale nate grazie all’accesso al credito in Paesi quali la Repubblica Democratica del Congo e il Niger ad opera di migranti di rientro. La speranza nasce dal fatto che tra gli effetti della globalizzazione vi è anche lo sviluppo, in Europa, in Africa (a nord e sud del Sahara) e altrove, di una coscienza civile sulla centralità dei diritti, di reti della società civile pronte a impegnarsi e a farlo in modo coordinato per affermare in concreto diritti di cittadinanza ai migranti. È vero: crescono anche il razzismo e la xenofobia, ma per fortuna non crescono da soli. Accanto e contro di essi crescono la solidarietà e l’impegno civile. È un terreno aperto, dove conviene continuare a giocarsi tutte le carte, con progetti, iniziative concrete di cooperazione e anche con politiche culturali, libri, riflessioni. “Sogni di Sabbia”, curato dal nostro Responsabile per l’Africa Sandro De Luca, nasce proprio in questa prospettiva.

sabato 6 giugno 2009

Uscire dalla società della conoscenza


Intervista a Valerio Romitelli, autore de “Fuori dalla società della conoscenza

Valerio Romitelli, docente di Etnografia del pensiero e Metodologia delle scienze sociali all’Università di Bologna, dirige il Gruppo di ricerca di etnografia del pensiero (GREP), con cui ha firmato “Fuori dalla società della conoscenza”, molto più di un manuale universitario ma, fondamentalmente, un grimaldello letterario con il quale l’autore sgretola la cosiddetta “società della conoscenza”, in cui oggi vivremmo, riducendola più correttamente a una “società delle incognite”. Poiché, per Romitelli e li suo gruppo di ricercatori, enorme è il numero di incognite trascurate o create nella convinzione di sapere già per l'essenziale come vanno il mondo e la realtà sociale. Come si legge nella quarta di copertina del libro, “Per sapere come le popolazioni dei “governati” rendono possibile la realtà sociale non bastano sondaggi d'opinione, raccolte di dati statistici o altri tipi di informazioni. Occorre interpellarle. Occorre studiare, con un metodo adeguato e attento, le loro parole e i loro pensieri. Solo così il nostro tempo potrebbe risultare meno incognito. Le scienze e politiche sociali potrebbero trarne insegnamenti fecondi per migliorare conoscenze e interventi. Questo è l'auspicio cui l'etnografia del pensiero dedica le sue fatiche”.
Con Valerio Romitelli abbiamo approfondito questi e altri concetti nell’intervista che segue.

D. Prof. Romitelli, cominciamo dal titolo del suo libro: “Fuori dalla società della conoscenza”. Che cosa intende per “società della conoscenza” e perché l’esortazione a superarla?
R. Dagli anni ‘80 le differenze mondiali tra ricchi e poveri stanno sempre più aumentando, anche in questi Paesi già poveri e che stanno diventando (come Cina, India, Brasile e Russia) più ricchi di quelli già ricchi. La crisi recentemente esplosa, del resto, è incerta in tutto tranne sul fatto che sicuramente aggraverà questo tragico divario.
Non considerare questo come il principale problema sociale è in primo luogo ciò che non perdono ai teorici dell’attuale epoca come epoca della conoscenza. Per loro infatti tutto è da analizzare come relazione di scambio di conoscenze tra persone. Se qualcosa non va, allora, è perché una o più persone non sanno comunicare come si deve. Cosicché il rimedio starebbe nell’aiutare questo sapere innato, di cui ogni persona sarebbe geneticamente dotata, semplicemente favorendo lo scambio di informazioni. Nel caso poi che questo aiuto fosse inefficace o addirittura rifiutato, allora la persona stessa andrebbe degradata e trattata come individuo ritardato, egoista o fanatico di qualche ideologia.
Non è forse questo il ragionamento supposto da qualsiasi recente discorso politico, legge, regolamento pubblico e privato, talk-show televisivo, in qualunque angolo della cosiddetta Comunità internazionale? In effetti, il cognitivismo non è un’ideologia, in quanto sospetta di ogni idea riducibile ai valori (detti “etici”) della sua presunta logica naturale. Si tratta piuttosto di una sensibilità. La sensibilità che domina le opinioni del nostro tempo, come mai è accaduto in precedenza. Il suo trionfo ha avuto come condizione non solo la cosiddetta rivoluzione informatica e la globalizzazione dei mercati, ma soprattutto il crollo delle patrie della classe operaia e quindi delle ideologie classiste che, vere o false che fossero, consigliavano ai governanti pubblici e privati una qualche prudenza in materia di politiche sociali.
Questo senso comune cognitivista, godendo di una sorta di monopolio sui modi di pensare, impone una visione quanto mai ristretta della realtà sociale. Così, mentre inneggia alla conoscenza, in realtà diffonde ignoranza su tutti i maggiori problemi sociali. Problemi sociali che di fatto sono sempre essenzialmente impersonali, nel senso che nessuna persona in quanto tale vi può nulla.
Porsi “fuori della società della conoscenza” è dunque necessario per far ricerca su tutte le incognite che essa crea e nasconde. Quella vastissima zona d’ombra in cui sono calate tutte le popolazioni che non hanno potere né di governo, né di comunicazione, né di informazione, eppure con la loro fatica e sofferenza rendono possibile la realtà sociale. Per conoscere tale realtà, non c’è che da interpellare queste stesse popolazioni, per potere istruirsi alle loro parole e pensare il loro pensiero. Il risultato così certo sarà una conoscenza, ma certo più specifica e profonda di quelle riducibili a informazioni vincenti sul piano della comunicazione.

D. Lei invita a un approccio diverso nello studio delle scienze sociali. Qual è questo approccio e come sta lavorando per metterlo in atto?
R. L’etnografia del pensiero si situa ovviamente nei paraggi di quelle che si chiamano le scienze sociali qualitative. Quelle che fanno ricerche non sulle popolazioni, per ricavarne dati quantitativi e panoramici, ma tra le popolazioni, incontrando direttamente campioni limitati di esse.
Quattro si può dire siano le principali peculiarità del nostro approccio.
La prima sta nel supporre che la realtà sociale non è fatta anzitutto di persone più o meno evolute, ma è fatta di due popolazioni ben distinte: da un lato, quelle che hanno il potere di decidere della vita di molti altri; dall’altro, quelle che soffrono e fanno fatica a rendere possibile la propria esistenza. È quest’ultimo il tipo di popolazione cui dedichiamo le nostre ricerche, con l’obiettivo di proporre delle prescrizioni atte a migliorare le condizioni di lavoro o di fruizione di servizi fondamentali.
La seconda sta nell’interpellare sempre sul luogo (all’interno dei luoghi di lavoro o di fruizione di servizi) questo tipo di popolazione, facendo lunghe interviste con un campione limitato di soggetti e poi elaborando un rapporto finale d’inchiesta destinato a pubblicazioni scientifiche, ma anche a discussioni sulle politiche sociali operanti in quello stesso luogo.
La terza, è che l’analisi del contenuto delle interviste viene concepita come incontro tra due pensieri: da un lato, quello degli intervistati che hanno diretta esperienza del luogo, dall’altro, il nostro stesso, di ricercatori che intendiamo conoscere come questa esperienza viene pensata dai diretti interessati.
La quarta è evitare ogni metalinguaggio. Così escludiamo ogni logica (di “sistema”, “struttura”, “funzione”, “relazioni”, “percezioni”, “comportamenti”…) tramite il cui filtro solitamente si cerca di decodificare il linguaggio delle popolazioni incontrate. Noi ergiamo le parole di chi incontriamo a fonte primaria di quanto vogliamo conoscere. Così, nei nostri rapporti d’inchiesta le parole chiave, a volte pure lo stesso titolo, sono citazioni alla lettera di quanto ci è stato detto nell’intervista.

D. Ha fondato un gruppo denominato Grep. Di che cosa si occupa, con quali mezzi e perché?
R. Il Gruppo di Ricerca di Etnografia del Pensiero esiste da circa sette anni, è riconosciuto dal Dipartimento di Discipline Storiche (prossimamente anche Antropologiche e Geografiche) dell’Università di Bologna e ha al suo attivo una ventina di inchieste: alcune pubblicate nel libro precedente Etnografia del pensiero. Ipotesi e ricerche, del 2005, altre pubblicate su riviste, mentre le più recenti sono quelle che compaiono in Fuori della società della conoscenza. Questo gruppo è formato soprattutto da giovani. I sostegni alle nostre ricerche vengono oltre che, in parte limitata, dall’Università, da varie istituzioni e imprese interessate dalle ricerche stesse. Recentemente abbiamo goduto di un finanziamento dell’ex ministero della Solidarietà sociale.
In termini generali, si può dire che il suo obiettivo scientifico sta nel provare, tramite lo studio di casi concreti, che il pensiero dei governati, di quelli che solitamente non contano, è un’inesauribile e ancora ampiamente inesplorata fonte di conoscenze della realtà sociale. Il Grep ha però anche un duplice obiettivo politico, sia pur perseguito in scala ridotta, quasi minimale: da un lato, contribuire alla conoscenza reciproca e quindi alla possibilità di nuovi modi di unione tra lavoratori e popolazioni disagiate. Siamo infatti convinti che con la fine delle ideologie classiste lavoratori e popolazioni disagiate sono quanto mai soggettivamente divisi e dispersi tra svariate identità personali o comunitarie, le quali hanno come conseguenza maggiore di aggravare i problemi della realtà sociale. Dall’altro, contribuire a che i governanti pubblici o privati abbiano occasioni di conoscere il pensiero delle popolazioni che governano e quindi di adottare politiche che siano effettivamente, e non solo formalmente, democratiche.

D. Il mondo accademico come ha accolto le sue teorie e il suo nuovo approccio? Con quale genere di resistenze si trova a doversi confrontare?
R. Quando si parla di antropologia ed etnografia, si pensa quasi sempre a ricerche di contorno, che danno un po’ di colore alle scienze sociali, il cui nocciolo duro starebbe sempre nelle statistiche. Salvo poi riconoscere la relativa affidabilità del dato puramente numerico. Temi privilegiati dalle scienze sociali qualitative sono comunque quasi sempre le “motivazioni”, i “racconti di vita”, le “aspettative”, le “percezioni” o i “comportamenti” delle popolazioni indagate. Queste ultime sono dunque interpellate su quel che si ricordano del loro passato, su quel si immaginano del loro avvenire o su come reagiscono di fronte a un contesto di relazioni che si suppone dato. Così, a essere eluso è il presente stesso della realtà sociale, ossia come esso venga condizionato dalle parole e dai pensieri di chi ne fa esperienza diretta. È proprio questo invece a interessare soprattutto il Grep. Anziché interpellare i nostri intervistati sul “prima”, sul “poi” o sui loro adattamenti ambientali, ciò che puntiamo a conoscere è proprio come la realtà di un luogo di lavoro o di servizio viene presentata dalle parole e dal pensiero di chi ne fa esperienza diretta.

D. Professore, perché in Italia è necessario avere i capelli bianchi per farsi prendere in considerazione da qualcuno e i giovani continuano a essere trattati comunemente – dal mondo accademico, dalla politica, da molti altri ambienti – come dei perfetti imbecilli?
R. C’è una parte della mia Introduzione a Fuori della società della conoscenza dedicata proprio all’Italia. In una battuta dico che la società di questo Paese merita la qualifica di società “delle conoscenze”. Delle conoscenze personali, intendo. Delle conoscenze che implicano una famigliarità diretta. Così, ovunque, ci vuole sempre la raccomandazione di un padrino o di una madrina. Padrino e madrina che prendono sul serio solo altri padrini e madrine. La disoccupazione giovanile, per di più dei giovani meglio istruiti, è proprio un tratto caratteristico del nostro Paese. Già si investe poco nell’università e quindi nella creazione di esperti, ma quelli che già ci sono vengono ampiamente inutilizzati. Siamo dunque in un Paese “vecchio” a più titoli. Anche nelle difficoltà di aprirsi a quei lavoratori stranieri che rappresentano una preziosa opportunità di ringiovanimento e diversificazione. Se tra gli italiani finora permane un certo benessere, deriva dalla tradizione delle imprese di stazza artigianale, conosciute nel mondo, ma esse stesse fondate su conoscenze famigliari e personali. Di qui anche la notevole ignoranza riguardo alla realtà sociale che in Italia caratterizza la politica e le istituzioni. Preti e organi di polizia sono sempre i meglio informati. Il fatto è che le scienze sociali, già a suo tempo impedite dal fascismo, nel dopoguerra sono state compresse dalla chiesa e dai partiti i quali avevano le loro dottrine sociali da difendere.
Per tutto ciò tra i risultati del Grep mi pare ci sia da annoverare anche quello di essere fatto soprattutto di giovani appassionatisi alle scienze sociali e convinti che esse possano servire a rinnovare il Paese.

D. Esiste una ricetta per un Paese e per un mondo un po’ migliore?
R. Ce ne è un’infinità. Esse stanno tra chi fatica e soffre per rendere possibile la propria esistenza e quindi la realtà sociale. Il problema è che nessuno o quasi le cerca tra queste popolazioni, ma sempre e solo tra i vari esperti. Esperti, che peraltro sono meno vari, proprio perché la stragrande maggioranza di loro condivide l’opinione che tutto si riduce a informazione e comunicazione. Uno dei dogmi cruciali della presunta “società della conoscenza” è proprio questo: che il mondo gira seguendo le conoscenze ridotte ad informazioni e quindi utili a vincere sul piano della comunicazione. Qui, in questo tipo di sensibilità cognitivista, sta una delle più profonde cause dell’attuale crisi che rischia di essere infinita se non si trovano delle alternative. Esse non scenderanno mai dal cielo, ma vanno cercate tra le parole e i pensieri che brulicano nell’immensa popolazione dei governati, di quelli che non contano. Ma da sole, queste ricette alternative, non vengono fuori. Ci vogliono approcci e metodi adeguati per individuarle e farle conoscere. Il che, sia chiaro, non significa ridurle ancora una volta a informazioni, ma, tutto al contrario, renderle pensabili e ripensabili da chiunque. È a questo che il Grep dedica tutti i suoi sforzi di ricerca.