giovedì 25 giugno 2009

Federico e la bussola per un mondo migliore


Un diario per un’infanzia da crescere e far diventare un’umanità migliore

Non spaventarti, Federico” è un diario di viaggio, un colorato e affascinante album di fotografie, una struggente raccolta di ricordi, un libro ironico e autoironico e molte, moltissime altre cose ancora. Ed è un libro che non ti stancheresti mai di leggere e che subito ti fa sentire la sua mancanza, appena hai letto e voltato l’ultima pagina.
Di questo piccolo gioiello editoriale – che si giova della prefazione di Stella Pende e dell’introduzione di Marco Scarpati – ristampato dopo solo un mese dall'uscita in libreria, abbiamo parlato con Olivia Molteni Piro, l’autrice.

D. Olivia, il tuo libro è “solo” tutto questo o è anche qualcosa in più?
R. Per me è soprattutto una dichiarazione d’amore alla vita non sussurrata ma gridata con forza. Quella vita che non puoi accettare di vederti passare davanti stando “seduta in panchina”. Quella vita che acquista valore nel momento in cui la gioia e la sofferenza degli altri si legano indissolubilmente alle tue tanto da rendere impossibile stabilire una linea di confine tra te e gli altri esseri umani che camminano al tuo fianco.

D. Federico è tuo nipote, il tuo primo nipote, e rappresenta al contempo un momento di arrivo e una fase di ripartenza. Tu esattamente in quale fase ti senti oggi e come stai affrontando questa nuova avventura da combattiva e inossidabile nonna?
R. Non sono mai riuscita a considerarmi nella fase di arrivo e credo di aver sempre volutamente spostato i traguardi da raggiungere ogni volta che mi ci avvicinavo. Oggi ho scelto di rallentare la corsa per adeguare il mio passo a quello di Federico. Mi entusiasma guardare il mondo con i suoi occhi, condividere il suo stupore, scoprire e imparare ogni giorno qualcosa di nuovo grazie a lui.
Sognare che abbiamo la possibilità di scrivere, insieme, una nuova pagina della storia, non solo nostra, ma delle persone che conosceremo. Sperare che condivideremo gli ideali e i valori che hanno condotto me per mano fino a oggi e che potranno diventare i suoi e poi quelli dei suoi figli e dei suoi nipoti.

D. Di che cosa esattamente non dovrebbe spaventarsi Federico e quanto le storie e i consigli che dedichi a tuo nipote sono, in realtà, bussole per l’infanzia che costituirà l’umanità – speriamo migliore – di domani?
R. Io spero che Federico, come molti altri bambini che si affacciano ora alla vita e che saranno gli adulti di un futuro a noi ancora sconosciuto, non debba avere paura di assumersi la responsabilità di essere testimone di uno stile di vita che mette in primo piano e adotta come priorità il rispetto reciproco, la giustizia sociale, l’uguaglianza di diritti, la convivenza pacifica e lo scambio delle ricchezze che la multiculturalità può offrire. Le bussole che io gli sto offrendo, non solo con le parole, ma con concreti esempi di vita, possono aiutarlo a desiderare di prendere le distanze da tutto ciò che va contro queste priorità per sforzarsi di costruire, come tu dici, un’umanità migliore.

D. Hai speso tanti anni della tua vita soprattutto in Africa. Quali immagini ti sono rimaste più scolpite nella memoria, quali sensazioni? E che cosa vuol dire, secondo te, viaggiare veramente in Africa?
R. Ciò che mi ha sempre colpito dell’Africa e che me l’ha fatta amare è la grande dignità con la quale anche le povertà e le privazioni più estreme vengono vissute e affrontate. L’orgoglio della sua gente che rialza sempre la testa qualunque sia il piede che cerca di calpestarla. Gli occhi dei bambini che riescono a sorridere anche quando la loro vita è appesa a un filo. I visi degli anziani che raccontano le fatiche di un’esistenza all’insegna del duro lavoro. Le strette di mano di uomini e donne che trasmettono energia vitale. La semplicità delle relazioni umane, il naturale istinto all’ospitalità nei confronti di chi è “altro da te”, la solidarietà silenziosa e scontata tra esseri umani…e potrei continuare ancora e ancora. Laddove la contaminazione della società occidentale ha preso il sopravvento e l’identità dell’Africa ha lasciato il posto a un ibrido tentativo di assimilazione alla nostra identità, tutto il suo patrimonio di valori e di onestà relazionale si è trasformato in un costante tentativo di strumentalizzare “l’altro” ai propri fini, con il triste convincimento che ciò possa essere una giusta compensazione a quanto l’Africa ha subìto dal resto del mondo per secoli. E mi fa male assistere a tutto questo perché l’Africa è in grado di mantenersi integra, con una visione positiva di sé e delle proprie risorse e con la capacità di “ricostruirsi” ponendo in atto, con il coraggio e l’onestà che la contraddistinguono, quei cambiamenti imprescindibili che ne favoriscano la crescita. Mi riferisco al rifiuto di aiuti internazionali che pongono vincoli e regole penalizzanti per l’Africa, mi riferisco all’eliminazione di governanti e uomini di potere corrotti, mi riferisco al coraggio di cessare di imitare quello che noi occidentali proponiamo come modelli.
Ecco, credo che viaggiare in Africa significhi sgomberare la propria mente da stereotipi e luoghi comuni lasciando che l’Africa ti entri dentro e si manifesti per quello che è veramente, non per quello che noi riteniamo che sia e vogliamo che continui a essere. Viaggiare in Africa significa saperne cogliere la ricchezza guardando oltre quello che gli occhi vedono.

D. La tua famiglia, i tuoi figli, sono per un terzo italiani e per i restanti due terzi africani o indiani. Come questa composizione ha modificato i rapporti interni alla vostra famiglia e con tuo marito Luciano e, in particolare, come, negli anni, ha modificato l’immagine di te e di voi in una città come Como, nell’opulenta Lombardia leghista?
R. I rapporti interni alla famiglia sono stati costruiti su basi solide, su profonde convinzioni, sulla disponibilità a mettersi sempre in discussione, a dialogare e a confrontarsi. Questo anche prima che la famiglia assumesse la caratteristica che ha oggi di una microsocietà multiculturale! Ogni decisione che presupponesse un cambiamento o una scelta è stata sempre condivisa da tutto il nucleo familiare e il massimo rispetto per il vissuto, i ricordi, la personalità, la cultura di appartenenza e la religione di ogni singolo membro della famiglia è stato presupposto imprescindibile al nostro “essere famiglia”. I miei figli, cittadini italiani di pelle nera, vivono quotidianamente episodi che, se non definibili discriminanti, evidenziano comunque la loro diversità. Ma la situazione buffa è che, appena vengono identificati come nostri figli, la connotazione quasi sempre negativa della diversità improvvisamente scompare. La Lombardia leghista, la Como leghista, è infastidita dai neri per le strade, ma se i neri si chiamano Piro…vi possono camminare…

D. Che cosa cambieresti della tua vita senza pensarci due volte e che cosa rifaresti assolutamente di nuovo?
R. Rifarei assolutamente tutto come l’ho fatto. Anche le esperienze negative (e ce ne sono state tante) mi sono state comunque utili e mi hanno insegnato qualcosa. Non cambierei niente.

D. “Non spaventarti, Federico” è legato a un importante progetto in Burkina Faso, nel quale ti sostiene anche l’associazione lariana Menala onlus. In cosa consiste questa nuova avventura e quali sono gli obiettivi che ti proponi di raggiungere?
R. La nuova avventura è la realizzazione di un centro sanitario con reparto maternità e alloggi per medici e infermieri in un villaggio, Bilogo, i cui abitanti (quasi 5.000) non hanno mai visto un medico perché il dispensario più vicino si trova a 15 chilometri di distanza e il loro villaggio è estremamente decentrato rispetto ai servizi accessibili più vicini. Le donne muoiono di parto, i bambini non raggiungono il primo anno di vita, la popolazione del villaggio non ha accesso a nessun tipo di medicina di base. Sento di dovere a questa gente un aiuto concreto affinché la qualità della loro vita possa migliorare senza esserne stravolta. Il personale del centro sarà burkinabè e i salari saranno pagati dal governo del Paese, che garantirà così la sostenibilità del progetto. Lo devo a Bilogo perché questa gente mi ha accolta, prima persona di pelle bianca a raggiungere il villaggio, come fossi una di loro e mi ha insegnato a vedere “ciò che è invisibile agli occhi” e che, spesso, soltanto il cuore riesce a sentire. Ai miei fratelli, alle mie sorelle di Bilogo voglio regalare la possibilità di essere sani, di lavorare, di continuare a far crescere, nel modo giusto, l’Africa. Vorrei sentirmi in pace con me stessa quando tornerò da loro e gli anziani del villaggio mi diranno “bentornata figlia”.