mercoledì 27 maggio 2009

Il soffio della dea madre


In libreria il primo manuale italiano di danza del ventre


“La danza è il frutto di una poesia segreta. Qualcosa ci è stato raccontato dai mondi dello spirito e noi ascoltiamo. Il corpo comincia a vibrare quando è colmo dell'afflato divino e non si muove a ritmo di emozioni indefinite ma, armonicamente con lo spazio, definisce il tempo…”. Parola di Fabiana Magrelli, maestra di danza orientale, insegnante di educazione fisica e madre forte e coraggiosa. Suo è il primo manuale italiano di danza del ventre, adottato come testo di studio e d’esame da parte della Federazione italiana tecnici danza sportiva (Fitd), membro del Coni, ma scritto come uno splendido e affascinante libro per tutti, in cui musica, poesia e danza si fondono in movenze meravigliose e calde.
“Un giorno di qualche anno fa ho incontrato Fabiana per una lezione di danza del ventre. Mi era stato consigliato per prepararmi a un ruolo di donna piegata e poi rinata. Una donna che aveva ritrovato il sorriso, voglia di vivere. In breve la bellezza. Cominciai a osservare il sorriso di Fabiana. Poi cominciai a muovermi con lei. Prima i fianchi, poi le braccia, le mani e infine il cuore”, racconta in una delle due prefazioni del libro l’attrice Isabella Ferrari (la seconda prefazione è a firma del presidente della Fitd, Walter Santinelli, mentre l’introduzione è stata firmata dal medico Barbara Pesce), che è stata allieva di Fabiana Magrelli.
Di quest’ottimo lavoro, intitolato Il soffio della dea madre. Suono, tecnica e mito della danza del ventre (Infinito edizioni, 2009, 144 pagine patinate con illustrazioni e fotografie del grande fotoreporter di guerra Mario Boccia, a soli 15 €) abbiamo parlato con l’autrice.

D. Fabiana, cominciamo dal titolo: che cosa significa il soffio della dea madre e che richiamo ha con la cultura orientale?
R. In alcuni miti del passato si racconta che l’universo prese vita danzando, grazie a una dea che emise suoni dalla sua bocca; successivamente gli dèi insegnarono agli uomini a ballare. Nel Vangelo di Giovanni è scritto: “In principio era il Verbo e il Verbo era con Dio, e il Verbo era Dio”. La danza orientale è intimamente connessa alla sonorità vocale. Il mito della dea madre ricorre in più culture: la Venere dei romani, Demetra per i Greci e la dea Iside degli egiziani sono diverse rappresentazioni di una stessa figura divina riconducibile alla dea dell’amore e della fertilità della tradizione assiro- babilonese Ishtar, che ancora più anticamente prendeva il nome di Inanna. La pancia della donna, quale simbolo di procreazione, di fertilità, di accoppiamento, di nutrimento, è l’aspetto peculiare della danza del ventre e ci conduce inevitabilmente fino al mistero della vita, all’immagine della donna quale madre, e alla nascita dell’universo.

D. Tu sei insegnante professionista di danza del ventre. Come ti sei avvicinata a quest’arte e al contempo sport e quali sono i benefici psico-fisici per chi la pratica?
R. Ho iniziato a danzare all’età di cinque anni. Ho praticato molti sport e mi hanno sempre appassionato le danze etniche, che mi portavano ad approfondire la cultura dei vari popoli e a scoprire sempre nuovi e diversi ritmi musicali. Mi sono poi laureata all’ISEF. Avvicinandomi alla danza orientale ho sentito che più percorsi potevano incontrarsi. È infatti una danza in cui si ritrovano movimenti provenienti da più culture (India, Africa, Spagna, Grecia, mondo arabo in generale) e quindi ricca anche di musicalità sempre nuove e diverse. Inoltre è una disciplina che, almeno nei princìpi, può affiancarsi alla ginnastica dolce e, se applicata insieme alle dovute conoscenze anatomiche, può essere un valido strumento per migliorare la postura, la mobilità e la forza del rachide (pensiamo all’uso importante che viene fatto dai muscoli addominali e di tutta la muscolatura posteriore paravertebrale, determinanti per il mantenimento della nostra salute). Sono anche sperimentati gli effetti benefici di questa danza sul sistema nervoso, nonché su quelli respiratorio e circolatorio.

D. Esiste un rapporto strettissimo tra la danza del ventre e alcuni strumenti musicali in particolare. Quali sono questi strumenti e qual è questa relazione?
R. Il primo strumento che in passato accompagnava la danza di una ballerina era la voce; poi iniziò a essere accompagnata anche da altri strumenti, come il flauto, il liuto e il tamburo. La musica e la danza hanno la stessa anima e un corpo che balla è poesia vivente quando incarna questo principio. Nell’apprendimento del gesto motorio non si può prescindere dall’esperienza sonora (il musicista e il ballerino – che rappresentano rispettivamente il suono e il movimento – sono anime gemelle unite da un amore innato ed eterno). È una danza ricca di ritmi e influssi musicali appartenenti a varie culture. Per queste ragioni nel libro ho sentito di descrivere i principali movimenti della danza del ventre relazionandoli sia al suono inteso come respiro, alla voce (il linguaggio) e a determinati strumenti musicali (il flauto, il tamburo e il liuto), che appartengono alla tradizione orientale, al fine di esaltare l’intima corrispondenza tra il suono e il movimento.

D. Perché consigliare a una donna di cominciare a praticare la danza del ventre, anche non a livello professionale?
R. Nel mio intento, in questo libro desideravo ricondurre a un’immagine autentica della donna, che balla al di sopra dei limiti temporali – quali ad esempio l’età – e spaziali, libera da modelli precostituiti di bellezza. La danza orientale è le danza delle donne per eccellenza e oltre a essere un valido ausilio per la salute è anche un mezzo che può aiutarci a riscoprire il vero senso del femminile: danzando al di sopra del velo dello spazio e del tempo rimane viva e immortale la magia e la libertà della donna.

D. Come si inserisce il tuo libro nel panorama delle pubblicazioni sull’argomento?
R. Nella bibliografia del mio libro sono elencati alcuni testi che trattano l’argomento e che ho trovato interessanti, tra cui alcuni libri scritti in inglese dei quali, però, non esiste la traduzione in italiano. Di fatto, però, mancava un manuale pratico dove venissero spiegati i principali movimenti della danza del ventre al fine di elevare questa forma di movimento al pari di altre danze riconosciute da tempo in Occidente, così da promuovere un linguaggio comune cui far riferimento durante l’apprendimento e l’insegnamento di questa disciplina e che fosse al contempo premuroso di conservare gli antichi significati spirituali da cui questa danza ha avuto origine. Inoltre credo che l’originalità del testo consista nell’essere non solo un testo di danza del ventre, ma un esempio di come la poesia, la musica e la danza abbiano un’anima in comune: un tempo la poesia, la danza, il teatro e tutte le espressioni artistiche compartecipavano al naturale sviluppo dell’essere umano.

D. Il tuo libro ha il patrocinio della Federazione tecnici danza sportiva e importanti contributi scritti, tra i quali quello di Isabella Ferrari. Per te avere sostegni così importanti deve essere una bella soddisfazione che ti ripaga degli sforzi fatti in passato…
R. Si, a volte penso: tanti e troppi sforzi… Ma per fortuna esistono persone come Walter Santinelli, Isabella Ferrari e Barbara Pesce che, pur avendo conquistato uno spazio importante nella società, sono rimasti puri nel cuore e mi hanno offerto il loro tempo, il loro affetto e il loro sostegno. Il libro è stato approvato dalla Federazione Italiana Tecnici Danza di cui Walter Santinelli è presidente e questo significa che ora, anche riguardo alla danza orientale, esiste un testo d’esame per coloro che aspirano a divenire insegnanti. Isabella Ferrari è una donna non solo di spettacolo, alla quale ho avuto il piacere di impartire lezioni di danza orientale in passato e che, amorevolmente, ha scritto la prefazione del mio libro. Barbara Pesce è un medico di rilievo, è mia allieva, a lei devo l’aver sempre creduto in me anche nei periodi più difficili, e ha scritto l’introduzione del mio libro ponendo l’accento sugli aspetti benefici e salutari della danza del ventre.

D. Un’ulteriore ricchezza del libro è data dalle fotografie, splendide, scattate da Mario Boccia.
R. Mario oltre a essere un grande fotografo si è dimostrato un amico e le belle foto interne al libro lo testimoniano.

D. In definitiva, in una battuta, perché il tuo è un libro da comprare e leggere?
R. Mi piacerebbe rispondere con una poesia di Khalil Gibran: “…E se là verranno i danzatori e i cantanti e i suonatori di flauto, comprate pure i loro doni. Poiché anch’essi sono raccoglitori di frutti e d’incenso, e ciò che vi offrono, benché fatto di sogni, è cibo e veste per la vostra anima…”.

martedì 12 maggio 2009

Rwanda, quando l’informazione uccide


Intervista a Fonju Ndemesah Fausta, autore de “La radio e il machete”, alla vigilia del mini-tour di presentazioni romane

Fonju Ndemesah Fausta, ricercatore storico camerunese plurilaureato forte di un dottorato in Cooperazione Internazionale e Politiche dello Sviluppo Sostenibile, ha scritto per i tipi di Infinito edizioni “La radio e il machete. Il ruolo dei media nel genocidio in Rwanda”, un libro per ricordare, nel suo triste quindicinale, il genocidio rwandese, che nella primavera del 1994 vide perpetrarsi il massacro di 800.000 esseri umani tra le verdi colline del Rwanda. Alla vigilia del breve ciclo di presentazioni che lo vedranno impegnato a Roma oggi, giovedì e venerdì, lo abbiamo incontrato per approfondire le questioni più salienti e largamente dimenticate che portarono al compimento del genocidio rwandese. Questioni ancora oggi insolute, in buona parte del continente africano.

D. Cominciamo dal titolo: perché il focus su radio e machete? Quale ruolo hanno avuto questi due strumenti nel genocidio ruandese?
R. Mentre la radio, e particolarmente la RTLM o Radiotelevisione libera delle mille colline, fu usata per diffondere l’odio contro i Tutsi e tutti gli oppositori degli estremisti Hutu, il machete fu l’arma maggiormente adoperate dagli esecutori dei massacri.

D. Proviamo a ripercorrere brevemente il genocidio in Rwanda. Cause, protagonisti, vittime…
R. Per capire il genocidio rwandese dobbiamo cercare di ricostruire le trasformazioni che hanno subito le parole Hutu e Tutsi dall’epoca coloniale fino al lancio della soluzione finale da parte degli estremisti Hutu. Per essere breve direi che più che “etnico”, il genocidio rwandese può essere definito politico, e trova la sua origine in diversi fattori. Questi ultimi possono essere suddivisi in immediati (politici, economici) e remoti, ovvero risalenti alla storia del Rwanda: prima, durante e dopo la colonizzazione. Ideologie e concetti relativi alla divisione razziale ed etnica delle popolazioni si forma¬rono e si affermarono in una dinamica storica complessa e vennero assunte come fondamenta della politica dello Stato indipendente a partire dalla fine degli Anni ‘50. Dunque, il genocidio rwandese non fu una guerra etnica – simile ai conflitti che caratterizzerebbero il continente africano, secondo le osservazioni prevalenti sui media occidentali, e che, se analizzati tutti, si dimostrerebbero la conseguenza di dinamiche complesse, di cui l’etnicità è solo un’espressione – né fu la conseguenza dell’odio ancestrale tra hutu e tutsi. Non fu nemmeno un raptus d’odio degli estremisti nei confronti del resto del Paese. Fu invece una macchina della morte organizzata dai vertici dello Stato che, accecati dal proprio egoismo e dalla volontà di mantenere il potere, non esitarono a spingere gli estremisti contro un elevato numero di loro concittadini.
Per quello che riguarda i protagonisti del genocidio, li divido in tre gruppi; gli organizzatori del genocidio e gli attori materiali delle uccisioni che troviamo nelle alte cariche del governo e in tutti i suoi sostenitori; poi c’è la comunità internazionale, che avrebbe dovuto dire “no” ma che è rimasta a guardare per non compromettere la posizione di alcune potenze coinvolte. Infine abbiamo i media interni, che hanno creato il nemico e normalizzato l’odio, e quelli internazionali, che hanno facilitato l’evolversi del genocidio con la loro lettura semplicistica dei massacri come odio tribale e guerra etnica, rinforzando la tesi degli organizzatori della soluzione finale che porterà al massacrodi circa 800.000 persone in soli 100 giorni.

D. A posteriori, quali responsabilità internazionali e regionali hanno favorito o addirittura provocato il genocidio?
R. Molte e varie: l’instabilità della regione dei Grandi Laghi, con il colosso della regione, la Repubblica democratica del Congo (Rdc), che stava subendo il declino del dittatore-presidente Mobutu Sese Seko; il problema irrisolto dei rifugiati rwandesi sparsi in varie zone della regione, soprattutto nel Sud Kivu; l’Uganda che appoggiava i ribelli del Fronte patriottico rwandese (Fpr). Come se non bastasse, arrivò anche l’uccisione, il 21 ottobre 1993, del presidente burundese Ndadaye, assassinato da un commando di Tutsi. Insomma, una zona caratterizzata dall’instabilità.
Le responsabilità della comunità internazionale si esemplificano nel completo tradimento della popolazione Tutsi e Hutu moderata, che contava sul sostegno internazionale per fermare e condannare gli organizzatori e gli esecutori dei massacri. Purtroppo questo non avvenne. La comunità internazionale stette lì a guardare mentre migliaia di innocenti venivano uccisi per il semplice fatto di appartenere a un gruppo diverso o solo per il fatto di non aderire all’idea dell’odio etnico propagandata dagli estremisti hutu al potere. Molte potenze pensarono unicamente a evacuare i loro cittadini, lasciando la popolazione che stava chiedendo aiuto nelle mani dei massacratori. Insomma molte potenze erano accecate dal loro egoismo. In tanti continuarono a sostenere il governo estremista anche dopo l’ammonizione di molti studiosi, che segnalavano il piano di sterminio dei Tutsi preparato dal governo estremista al potere.

D. Un capitolo a parte merita il comportamento, nella crisi, dell’Onu. Come lo descriveresti e quali sono state le responsabilità?
R. L’Onu era accecata dall’egoismo di parte delle superpotenze che gestivano la sua agenda e non riuscì a capire, nonostante i molti segnali, che si trattava dell’inizio di un genocidio e non di una “guerra etnica” o di una “guerra civile”, come continuavano a chiamarla i funzionari delle Nazioni Unite in Rwanda. Anche quando comprese quello che stava accadendo e si decise ad agire, il Palazzo di Vetro era ancora ostacolato dalla mancanza di fondi e di interesse a intervenire da parte delle grandi potenze. Dopo la firma dell’Ac¬cordo di Arusha, una delle condizioni per fare rispettare questi accordi era il dispiegamento di un contingente di pace, ma le forze della Minuar erano arrivate molto tardi, contribuendo così al fallimento degli accor¬di. Allorché le forze della Minuar giunsero, non avevano nessun mandato per fermare il massacro. Quando il generale canadese Romeo Dallaire, alla guida della missione, vide la pericolosità della situazione e chiese l’aumento delle sue truppe, l’Onu in tutta risposta ridusse la sua presenza, rendendo i soldati quasi impotenti davanti ai massacri; inoltre il mandato di cui i caschi blu dispo¬nevano non permetteva loro di usare la forza, cosa che li rendeva cani da guardia senza denti mentre migliaia di persone venivano uccise. Quest’impotenza dell’organizzazione che avrebbe dovuto fermare o almeno contrastare i massacri giocò un ruolo molto importante nel facilitare lo svolgimento del genocidio. Per descrivere l’atteggiamento dell’Onu in Rwanda durante il genocidio userò le parole di Gérald Prunier, uno dei massimi studiosi del Rwanda, secondo cui l’atteggiamento delle Nazioni Unite durante il genocidio fu un atto di “abbandono”.

D. In Rwanda è stata fatta giustizia? A che punto siamo?
R. Questa domanda andrebbe rivolta alle decine di migliaia di persone che non avranno più la fortuna di abbracciare i loro cari massacrati, oppure a quelli che girano senza una gamba o un braccio vedendo i loro massacratori liberi. Penso che solo questa gente riesca a definire appieno il livello di giustizia fatta. Detto questo, se per giustizia s’intende l’arresto e la punizione dei responsabili del genocidio, direi che abbiamo ancora molta strada da fare per dare piena giustizia alle famiglie che hanno perso i loro cari.
Poche potenze, inoltre, hanno accertato o ammesso il ruolo da esse giocato nel genocidio. Penso che questo, ovvero ammettere le proprie colpe, sia invece un passo fondamentale verso la giustizia. Purtroppo molte potenze proteggono ancora i principali ideatori della soluzione finale, tutti ricercati dal Tribunale internazionale per i crimini di guerra in Rwanda. Finché questi genocidari saranno liberi e fin quanto le vittime non saranno aiutate concretamente a superare i traumi subiti, oltre che con aiuti finanziari, la giustizia continuerà a essere assente e questo ci dovrebbe spingere a riflettere.

D. Perché hai sentito il bisogno di pubblicare un libro sul genocidio in Rwanda?
R. Per almeno due ragioni. La prima è il dovere morale, che ho avvertito da figlio di quel continente spesso raccontato con superficialità. Credo che il genocidio in Rwanda sia un tema ideale per smantellare questa visione deludente delle vicende che accadono nel continente africano, vista la mancanza di profondità della copertura del genocidio da parte della stampa internazionale. Quest’ultima fu influenzata dall’antropologia evoluzionistica dell’epoca coloniale e da uno sciovinismo geografico che tende a leggere tutto quello che accade nel continente con una griglia etnica. Mentre oggi sarebbe considerato un insulto chiamare un popolo “primitivo”, “pre-logico” o “tradizionale”, come si faceva all’epoca della tratta degli schiavi e del colonialismo, le parole “etnie” e”tribù” sembrano invece essere accettate e addirittura aver sostituito quelle giudicate “politicamente scorrette” nell’indicare, più o meno, i medesimi concetti. È questa “etnicizzazione” di vicende le cui origini andrebbero cercate nelle dinamiche storiche, politiche e globali, che mi ha spinto a scrivere del genocidio, 15 anni dopo.
Il secondo motivo è l’importanza del genocidio rwandese nel leggere le trasformazioni che stanno prendendo corpo nel continente. Quanto democratici sono diventati gli Stati africani per sbarrare la strada ad altri massacri e genocidi simili a quello rwandese? Quanto è cambiata la comunità internazionale dopo l’“abbandono” del 1994? Saprebbe dare una risposta diversa al genocidio costato la vita a circa 800.000 persone in Rwanda? Grosso modo, una visione critica del genocidio in Rwanda ci aiuta a capire le dinamiche presenti del continente. Sono queste ragioni, insieme a molte altre, che mi hanno spinto a scrivere “La Radio e il Machete”.

D. Oggi in Africa vedi conflitti o situazioni a rischio che possano far presagire un nuovo Rwanda?
R. L’Africa è una pentola in ebollizione di cui si parla solo quando salta il coperchio. Sebbene non si possa equiparare la situazione a quella del Rwanda nel 1994, sono comunque presenti in molti Paesi le condizioni che hanno portato alla normalizzazione dell’ideologia dell’odio in Rwanda. Molti giovani africani, ad esempio, non hanno un futuro a causa della disoccupazione crescente e il monopolio della vita politica è detenuto da settuagenari e ottuagenari in un continente in cui la maggioranza della popolazione ha tra i 18 e i 50 anni. Come se non bastasse, la democrazia è diventata “etnocrazia”, nepotismo e corruzione sono diffusamente utilizzati da dittatori che non vogliono lasciare il potere. In molti Paesi africani abbiamo presidenti che si proclamano democratici ma sono al potere da più di trent’anni, sostenuti dall’esercito e da amici occidentali. Queste condizioni di oppressione e di vita precaria della popolazione stanno creano una massa di giovani scontenti e pronti a produrre il cambiamento nonostante i metodi criminali usati dai loro Stati per fermare queste richieste di cambiamento. Parlare di un nuovo Rwanda forse non è il caso, però direi che ci sono conflitti ingiustamente definiti a “bassa intensità” che uccidono e continuano a uccidere in molti parti dell’Africa. Da ricercatore africano proverò una grandissima pena ma non mi stupirei se mi venissero a dire che oggi ci sono 10, 20, 100 e più morti in Gabon, Ciad, Rdc, Togo, Guinea Equatoriale, Zimbabwe, Camerun e così via perché in molti di questi Paesi la comunità internazionale e i mass media hanno sempre confuso l’assenza di guerra con la stabilità. Invece molti di questi Paesi sono afflitti da conflitti politici ed economici di cui le origine sono ben note.

D. Oggi in Africa si parla ancora del genocidio in Rwanda o si tratta di un “episodio” rimosso?
R. Direi che se ne parla, ma pochissimo. Lo si dovrebbe fare di più per scoraggiare quei governi che ambiscono comportarsi come il governo estremista hutu. Molte volte il genocidio rwandese viene richiamato da dittatori post-coloniali e dai neocolonialisti per legittimare e mantenere la loro egemonia del potere, sopprimendo le libertà elementari della popolazione e sventolando una presunta protezione della sicurezza nazionale. Ma l’unico fine è ottundere i cervelli dei cittadini e prolungare la propria permanenza al potere.

venerdì 8 maggio 2009

Nella Birmania dei sorrisi e delle violazioni dei diritti umani

Un libro fotografico di Marco Buemi racconta il Paese asiatico come non mai prima.

Marco Buemi ha appena pubblicato per Infinito edizioni il volume fotografico da titolo “Birmania. Oltre la repressione”. Si tratta di una splendida raccolta di immagini a colori, ciascuna accompagnata da note essenziali per inquadrare il Paese, scattate dall’autore durante i drammatici giorni della rivolta del 2007 dei monaci buddisti, repressa nel sangue dalla reazione smisuratamente violenta dei generali birmani al potere. Quelle di Buemi sono foto di vita comune, di campagna, di grande dolcezza e al contempo durezza, capaci di raccontare spaccati di vita sconosciuti al grande pubblico. Un libro prezioso, quello di Buemi, di grande formato (24x26 centimetri) e basso costo: solo 16 euro.
Qui abbiamo brevemente parlato con l’autore del suo ottimo libro.

D. La Birmania è tristemente nota per la ferrea dittatura che governa il Paese e per le palesi violazioni dei diritti umani. Si parla – le poche volte in cui lo si fa – sovente dei militari, ma quasi mai delle persone. Chi sono e come vivono i comuni cittadini birmani?
R. Chi visita questo Paese non riesce a capire immediatamente quanto sia difficile la vita quotidiana dei birmani. L’impressione è quella di una serenità apparente, le immagini che ricorrono sono quelle di un popolo che sorride e saluta a ogni incontro e spostamento, a piedi, col bus o in risciò, ma più si viaggia all’interno del Paese e più si capisce che dietro i sorrisi delle persone che si incontrano per strada c’è qualcosa di più. La Birmania ha, infatti, una “storia” consolidata di violazione dei principi fondamentali in tema di lavoro forzato, utilizzo di bambini soldato, protezione della condizione delle donne e in genere di tutela di ogni diritto fondamentale.

D. Che cosa ti è rimasto più impresso del tuo viaggio in Birmania e come hai voluto riportarlo nel tuo libro?
R. La cosa che mi è rimasta più impressa fin dal mio arrivo in Birmania è stata la gentilezza e disponibilità della gente incontrata lungo il mio percorso. Nel mio libro cerco di raccontare un popolo dolce e gentile, ricco di etnie, colori, paesaggi, storia, bambini e cose di tutti i giorni. Una delle cose che mi ha colpito di più è che, nonostante le magre risorse del Paese, il regime militare è riuscito a creare un sistema di sorveglianza di ineguagliata intrusione. Bastano un paio di esempi: gli autobus di linea vengono fermati continuamente ai posti di blocco creati appositamente per avere un controllo sugli spostamenti, i passeggeri devono così scendere ed esibire i propri documenti di identità e ogni famiglia in Birmania deve registrare presso l’autorità locale tutti i suoi membri; nessuno può passare la notte in un’altra casa senza il permesso dell’amministrazione locale.

D. Nel volume sono molte le foto di campagna, di vita nei campi. Perché?
R. Circa l’80% della popolazione vive nelle campagne e si occupa di agricoltura. Chiaramente il lavoro non viene retribuito con un salario ma con una percentuale di prodotto raccolto. Sembra impossibile ma mezzo secolo fa, alla vigilia del primo colpo di stato militare del 1962, la Birmania aveva l’agricoltura più fertile del sud est asiatico e superava in ricchezza la Thailandia. Ora, invece, non è più così. Oggi il riso rappresenta il prodotto agricolo più coltivato mentre nelle regioni settentrionali, più aride, si coltivano cereali, patata, legumi e canna da zucchero.

D. Sei stato in Birmania nei giorni della rivolta dei monaci e della brutale repressione governativa. Hai avuto modo di avvicinare dei monaci e di farti raccontare storie?
R. In quei giorni era forte il controllo da parte del regime militare e si notava ovunque, nelle strade, nei monasteri, negli autobus e nei luoghi pubblici. Era difficile avvicinare le persone per farsi raccontare quello che stava succedendo e il reperire informazioni in modo sconsiderato avrebbe potuto mettere in pericolo i monaci. Durante il mio viaggio ho avuto modo di avvicinare alcune persone e da una in particolare mi sono fatto raccontare la storia della piccola Lulù e della sua famiglia. Si erano trasferiti sul lago Inle da Old Baga,n dove la popolazione era stata cacciata verso New Bagan per favorire il turismo. Come la famiglia di Lulù, centinaia di migliaia di persone sono state cacciate dalle loro case e costrette a spostarsi verso le “nuove città”, distanti decine di chilometri dai centri abitati.

D. Nel libro citi Aung San Suu Kyi e la sua lotta per la libertà. A che punto è oggi il regime e come potrà cadere?
R. Difficile prevedere, a oggi, una caduta immediata del regime, ma grazie alle continue missioni degli inviati dell’Onu e alle pressioni dell’Asean (Associazione delle Nazioni dell'Asia Sud-Orientale che ha come scopo principale la promozione, cooperazione e assistenza reciproca fra gli Stati membri per accelerare il progresso economico e aumentare la stabilità della regione) sulla Birmania, si può auspicare che venga rimessa in libertà Aung San Suu Kyi, che vive agli arresti domiciliari da 13 anni, e che siano messe in atto tutte le iniziative necessarie a ottenere che le elezioni del 2010 si realizzino sulla base di standard democratici internazionalmente riconosciuti con garanzia di piena agibilità politica di tutti i partiti e i candidati.

D. Una buona ragione per andare e una per non andare in Birmania…
R. Anche se da parte delle organizzazioni internazionali viene sostenuta una campagna di boicottaggio per visitare la Birmania, bisogna ricordarci che il viaggiare in questo Paese, nel giusto modo, potrebbe portare alla popolazione stessa grandi benefici. Il turismo, infatti, è rimasto per la maggior parte dei cittadini l’unica fonte di risorsa e reddito e rappresenta un modo per comunicare con il mondo esterno.

D. …E per comprare il tuo libro…?
R. Il mio libro ha voluto offrire una prospettiva sconosciuta agli occhi di quanti hanno seguito con ansia e speranza le marce pacifiche dei monaci e della gente birmana, sgomenti e indignati di fronte alla violenza cieca usata dai generali per fermare le manifestazioni democratiche. Le mie fotografie vogliono restituire al popolo birmano immagini semplici ed emozionanti, ritratti della vita di tutti i giorni.