lunedì 27 aprile 2009

Il fascino avvolgente della semplicità


Ne “Il tesoro della salute” l’armonia e la saggezza della Medicina Tradizionale Tibetana

Giuseppe Coco, fisioterapista toscano da anni attivo nello studio delle medicine olistiche, e in particolare di quella tradizionale tibetana, ha scritto con il medico e maestro tibetano Nida Chenagtsang un bel libro dal titolo “Il tesoro della salute. Introduzione alla Medicina Tradizionale Tibetana” (Infinito edizioni, marzo 2009, € 13,00). Il volume si giova della prefazione di Franco Battiato, che il 18 marzo 2009 ha partecipato alla presentazione in anteprima del volume, avvenuta a Firenze (testimonianza ne è il video disponibile on line all’indirizzo http://webtvnews.it/, facendo clik sulla voce “Franco Battiato”), ricordando il suo impegno a favore del Tibet libero, testimoniato tra l’altro dall’omonimo brano.

Giuseppe Coco risponde qui di seguito ad alcune domande e curiosità, partendo da un presupposto prezioso e da molti più o meno volutamente ignorato: “La medicina tibetana propone rimedi semplici e comunque rivolti, con estrema precisione, a considerare tutti gli aspetti della vita”. L’esatto opposto di quella occidentale, come sottolineato anche dallo stesso Battiato nel ricordare che “le medicine olistiche curano un malessere considerandolo coma parte di un tutto. Per noi occidentali, invece, se hai mal di testa si cura solo quello, senza pensare alle cause che lo hanno provocato”.

D. Giuseppe, la medicina tradizionale tibetana è ancora considerata una pratica di nicchia e da molti medici italiani guardata con sospetto. Perché?
R. Probabilmente solo perché non la conoscono: chi si avvicina a questo sistema, se non ha preconcetti, ne rimane affascinato trovando possibili risposte a quesiti a cui, spesso, la medicina ufficiale non riesce a offrire spiegazione; molti medici allopatici seguono infatti con interesse i corsi della IATTM (Accademia Internazionale di Medicina Tradizionale Tibetana). Inoltre molti pensano che sia una medicina praticabile soltanto dai monaci o dai lama guaritori, che possa essere efficace solo se si professa la religione buddista, che si basi quasi esclusivamente su riti magici o si avvalga di pillole misteriose. In realtà si tratta di una disciplina facilmente praticabile ed estremamente fruibile, per tutti: chiunque può trovare indicazioni utili per ripristinare o mantenere la propria salute. La medicina tradizionale tibetana è un metodo d'aiuto che rivolgiamo a noi stessi, dato che essere in buona salute ci permette di aiutare meglio gli altri.


D. Quali sono gli elementi distintivi e maggiormente apprezzabili della medicina tibetana?
R. È una medicina nata dall'osservazione della natura, che si avvale di cure naturali. Propone rimedi semplici e comunque rivolti, con estrema precisione, a considerare tutti gli aspetti della vita.
Per quanto riguarda la prevenzione e la cura di disfunzioni o disturbi di lieve entità si danno indicazioni sulla dieta e sul comportamento o stile di vita da seguire, intese come suggerimenti di buone pratiche di vita quotidiana. Nel caso in cui sia già instaurata una patologia, invece, si consigliano rimedi sistemici e altre forme di terapia, chiamate “terapie esterne”. Una scienza le cui origini sono molto antiche che si dimostra, comunque, estremamente attuale.

D. Esisteranno, come in tutte le cose, anche dei lati oscuri o meno positivi…
R. Certamente non è sempre facile ricondurre alla nostra realtà occidentale alcuni principi della MTT strettamente legati a una cultura e a tradizioni così differenti dalle nostre. Si tratta di adattare, con sensibilità e rispetto, e il più precisamente possibile, usanze e costumi di vita. Personalmente, poi, incontro difficoltà legate alla traduzione dal tibetano: alcuni termini esprimono concetti difficili da rendere nella nostra lingua, si preferisce lasciarli nella lingua di origine e devono essere, come tali, memorizzati e utilizzati. Inoltre, alcune sostanze o alimenti indicati fra i rimedi dalla MTT non sono facilmente reperibili da noi, ma stiamo lavorando, come può essere apprezzato nel libro, per ovviare al meglio a questo problema.

D. Come ti sei avvicinato alla medicina tradizionale tibetana?
R. È da circa 20 anni che, con mansioni e professionalità diverse, mi occupo di malati e malattie: nella mia lunga ricerca di risposte, relative a questi delicati temi dell'esistere e del vivere, mi sono avvicinato al buddismo e in seguito alla medicina tibetana. Ritengo che proponga un'interpretazione del funzionamento del corpo umano (e della vita, più in generale) affascinante, estremamente convincente. Suggerisce inoltre un approccio alla disfunzione o alla malattia facilmente praticabile, rispetto ad altri sistemi di cura.

D. Ormai ti curi solo con le pratiche mediche che la MTT utilizza o hai optato per un mix di cure?
Cerco di utilizzare la MTT nella mia vita il più possibile: più aumenta la mia conoscenza in questo campo e maggiore è la curiosità e la voglia di sperimentare. E forse, tra un po', riuscirò a curarmi basandomi solo su questi principi, se riesco a vincere la mia innata pigrizia!

D. La prefazione di Franco Battiato è stato un grande regalo per te, suo ammiratore da sempre. Che cosa ti ha raccontato del suo rapporto con la medicina tradizionale tibetana e quali commenti ha espresso sul libro?
R. Con Battiato ci conosciamo da diversi anni; sapevo della sua sensibilità riguardo l'importanza dell'igiene alimentare come forma di prevenzione e cura delle malattie, della sua propensione a considerare l'essere umano come un'entità composita e complessa, della sua apertura verso forme di medicina olistica, del suo interesse in pratiche di cura etiche, flessibili e non estremizzate. Così gli ho proposto di leggere il libro sulla MTT, il lavoro che avevo appena finito, insieme con il Dott. Nida Chenagtsang. Conoscendo anche la sua schietta sincerità ero disposto a riceve un rifiuto, invece lo ha apprezzato molto, accettando di scrivere la prefazione. Alla prima presentazione del libro, che si è tenuta a Firenze, ha detto di aver trovato interessante l'importanza che la medicina tibetana pone sull'aspetto energetico dell'individuo, come anche il ruolo fondamentale che in essa riveste l'alimentazione.

D. Come compagno di viaggio in questa avventura editoriale hai uno dei più importanti medici tibetani viventi.
R. Incontrare il Dott. Nida Chenagtsang è stato, per me, di vitale importanza: mi ha trasmesso una disciplina che sento molto affine al mio modo di essere, un metodo per sentirmi in sintonia con la mia modalità di esercitare la professione di cura. Sono davvero contento di aver avuto l'occasione di fare questo libro insieme. Mi affascina sempre per quello che trasmette durante le sue lezioni, oltre alle spiegazioni teoriche: è una persona piena di vitalità, umanità, saggezza... E potrei continuare, ma non vorrei esagerare. Spero che la collaborazione continui...

D. Esiste della musica con la quale accompagnare la lettura del vostro libro?
R. Sicuramente si può iniziare con Tibet di Franco Battiato; per addentrarsi, poi, nella lettura, vanno bene i cd di Lama Gyurme & Jean-Philippe Rykiel, che contengono alcuni mantra cantati, tra cui quello del Buddha della Medicina, molto adatto all'argomento del libro. Oppure si possono ascoltare gli affascinanti lavori fatti da Chöying Drolma & Steve Tibbetts o quelli della cantante tibetana Yungchen Lhamo. Per finire, per riappropriarsi del corpo al termine della lettura, due passi di danza con il cd The Buddhist Monks – Sakya Tashi Ling, dove il suono dei mantra è amalgamato con una base dance.

D. Un consiglio per i nostri lettori?
R. Cerchiamo di mangiare meno. Proviamo, durante le nostre faticose giornate, a fermarci un attimo: respiriamo profondamente, sentiamo quanta tensione abbiamo addosso e chiediamoci se è proprio necessaria. Riflettiamo, prima di andare a dormire, se siamo riusciti ad accettare le cose successe. Per la medicina tibetana la salute è data dall'equilibrio di corpo, mente ed energia.

venerdì 17 aprile 2009

Sarajevo sempre traviata

Foto Helga Bernardini e Luca Leone

“C’è un tempo per correre al riparo / c’è un tempo per baciare e dirlo in giro / c’è un tempo per colori diversi / diversi nomi che trovi difficili da pronunciare. / C’è un tempo per la prima comunione / un tempo per gli East 17 / c’è un tempo per voltarsi verso la Mecca / c’è un tempo per essere una regina di bellezza. Eccola, la bellezza gioca a fare il clown / eccola, surreale con la sua corona”…
Era il 1995 e il gruppo irlandese degli U2 scriveva in collaborazione con il giornalista Usa Bill Carter una delle canzoni più famose e dolorose della musica rock degli Anni ’90, Miss Sarajevo. Bono e gli altri coinvolsero “Big Luciano” Pavarotti e il 12 settembre 1995, da Modena, il mondo ascoltò dal vivo una delle esecuzioni più toccanti e vive della storia della musica contemporanea. Sia gli U2 sia Pavarotti si erano già spesi a vario titolo per far sentire la voce della Bosnia aggredita e oltraggiata, dei 100.000 morti, del genocidio. Ciò nonostante, la Sarajevo di cui parlavano quegli eroi del canto, oggetto del più lungo assedio della storia bellica europea (più di 1.300 giorni), era una città/donna esattamente opposta a quella che tanta stampa cercava di far passare sulle pagine dei giornali e nei notiziari televisivi. La Sarajevo dei 10.000 e più morti, la capitale in cui cattolici, musulmani, ortodossi, ebrei e tanti altri avevano combattuto uniti contro l’aggressione ultranazionalista serba e serbo-bosniaca era una città diversa da come te l’aspettavi. Una città come la descriveva Paolo Rumiz: “La cosa più affascinante di Sarajevo è questa testarda urbanità che sopravvive agli inverni, ai cannoni, alle restrizioni alimentari, all’assenza di luce, acqua e gas. Non capisco davvero perché le grandi televisioni mondiali siano andate laggiù a cercare immagini di morte. Non hanno capito nulla. In guerra, la vera immagine di Sarajevo era la vita. Il suo centellinare ogni residuo comfort, il suo attaccamento testardo ai riti di un’antica vita borghese. A due passi dal rancido delle trincee, i teatri funzionavano, la gente sapeva di sapone, le donne mettevano il rossetto e facevano la messa in piega…”. Per Rumiz, Sarajevo era “un signore in giacca e cravatta che esce perfettamente sbarbato da un rudere che è casa sua”; per Bono/Pavarotti era, forse più realisticamente, Miss Sarajevo: perché Sarajevo è profondamente donna, nella sua dignità forte e impossibile da piegare, nel suo ordine assoluto anche e soprattutto nel caos, nella sua bellezza intangibile, nella sua fragilità così sensuale ma solo apparente. A poco più di 13 anni dalla fine della guerra del 1992-1995, che cosa rimane di te, Sarajevo, e a cosa assomigli oggi?

Vivo e soffro da anni per Sarajevo, che considero una delle città della mia vita. Nella mia testa. Perché Sarajevo è Bosnia e la Bosnia è un luogo che ti accoglie con calore, ti offre il caffè, ti affascina e culla, ma non ti fa mai entrare nella sua vita profonda, in quella che si consuma oltre il salotto di casa. È così raro che ti permetta di arrivare alle stanze più in fondo, o addirittura alle fondamenta. C’è sempre una porta chiusa, nella vita dei bosniaci e dei sarajevesi. E non sai mai che cosa possa contenere la stanza dietro quell’uscio. Certo, custodisce gli aspetti più intimi della loro vita. Che i sarajevesi non ti raccontano. E che probabilmente – quasi certamente – noi neppure saremmo in grado di capire.
Sarajevo oggi, quasi tre lustri dopo, è così: arrivi in aeroporto e ti trovi in una struttura moderna e accogliente. Se non conosci la città e non sai come percorrere a piedi quei due chilometri che ti separano dal “trolleibus” del quartiere di Dobrinija – quello che per primo cadde sotto i colpi dei cetnici serbi – così da non farti derubare di una ventina di euro dai tassisti, quella che si disvela chilometro dopo chilometro lungo la ex “sniper alley”, il “viale dei cecchini”, è una città in costruzione, una specie di Berlino dei Balcani, in cui le case bucate dalle mitragliatrici e sventrate dai colpi di granata diminuiscono man mano che ci si appropinqua al centro per lasciare posto a grattacieli, moschee, palazzi in vetro e acciaio, super centri commerciali, banche. Tante banche. Troppe per una città povera. Ma le banche vanno dove c’è il denaro. E nella povera Sarajevo ce n’è tanto. Sporco. Ma basta andare, in verità solo poco, in profondità, per capire che, qui come altrove, è tutto o quasi falso l’oro che luccica.
Allora – ti do del tu perché dopo tanti anni spero di meritarmelo – come ti sei ridotta, Miss Sarajevo, quasi tre lustri dopo? I 300.000 sarajevesi che ti hanno tenuta libera durante l’assedio oggi sono diventati circa mezzo milione e si accingono a raggiungere quota 600.000, quella immediatamente precedente alla guerra. I tuoi politici hanno auto potenti e stipendi importanti (i tuoi parlamentari se lo sono recentemente raddoppiato, arrivando a circa 3.000 euro al mese, contro i 300 di uno stipendio medio – ma il 50% della popolazione bosniaca non ha un lavoro…); soprattutto, sono riusciti a completare il lavoro sporco avviato da Slobodan Milošević, Radovan Karadžić e Ratko Mladić – i tuoi boia, i signori del Male assoluto – e spaccato città e Paese in tre nazionalità, di fatto trasformandoti in un fantoccio nazionalista dal quale i tuoi giovani onesti, la stragrande maggioranza ancora, sognano di fuggire, per cercare scampo e futuro all’estero. I tuoi poliziotti sono sempre più corrotti. Le fondamenta dei tuoi grattacieli meravigliosi sono non di rado sporche di droga, prostituzione, sangue, e quei giganti agili e lucenti – quasi sempre vuoti – hanno lo scopo precipuo di facilitare il lavaggio del denaro sporco della mafia sarajevese, belgradese, kosovara. I tuoi teatri sono sempre pieni ma i fondi per l’arte e la cultura sono vieppiù drasticamente ridotti: e dire che proprio i tuoi attori hanno aiutato per tre anni e mezzo – ogni notte che Iddio e Allah mandavano, nelle tenebre di un assedio senza gas, elettricità e acqua potabile – a mantenere in vita il lumicino della speranza, in attesa che il sole tornasse a sorgere e la neve, prima o poi, si sciogliesse. Perché non poteva essere inverno in eterno. No.

Che dolore vederti, oggi, Sarajevo: con i tuoi tanti, troppi poveri costretti a vivere in periferia, i tuoi tanti orfani in strutture sconosciute ai più, le tue decine di migliaia di traumatizzati lasciati a se stessi e rimossi dal ricordo, e i campanili e i minareti sempre più alti, numerosi e “lontani”. Il vescovo cattolico ausiliare Pero Sudar un paio d’anni fa mi confessò, nel chiuso di un bel salottino dalle poltrone rosse, mentre sorseggiavamo un ottimo tè: “Quando, all’inizio della guerra, mi hanno chiesto che cosa temessi di più, ho risposto che temevo di più che la logica di Pale – la piccola città vicina a Sarajevo in cui i dirigenti serbi avevano fissato la capitale dell’auto-proclamata Repubblica serba di Bosnia – venisse accolta anche dagli altri. Purtroppo questo è successo…”. È successo, Sarajevo, e oggi sei una città spaccata. In quanti pezzi, difficile dirlo. Ci sono i pezzi dei tre partiti/nazione/religione, poi quelli della comunità internazionale, che ha fatto e continua a fare danni, quindi quelli delle potenze esterne che guadagnano, anno dopo anno, millimetro dopo millimetro, pezzi del tuo asfalto e del tuo cuore; e quelli lasciati dalle organizzazioni internazionali e non governative che, finiti i soldi, ti hanno tradita per andare a sposare una causa nuova, e più remunerativa. Ma mai bella quanto te. Le lacrime della tua gente non bastano per unire questi pezzi, per fare da collante. E allora, ecco il rifugio: ecco la rimozione collettiva dei traumi non curati, che un giorno torneranno; ecco gli estremismi politico-religiosi fare spese d’anime a pagamento, ecco i cinesi al mercato delle mogli e della cittadinanza, ecco i nuovi miti farsi strada ed ergere a modello dei ragazzi che ambiscono diventare, sempre più numerosi, mafiosi e malavitosi, ecco i tuoi cittadini morire del cancro e delle leucemie lasciate dalla guerra, e farlo in segreto, nel chiuso delle loro case, per non disturbare. Ecco il turismo sessuale e quello delle comitive tutte contente perché “McDonald’s e Benetton sono arrivati anche qui”. Questa, per molti, è la pace.

Il tuo abito è più lucido ma in realtà ti è rimasto poco, Miss Sarajevo, e quel poco te lo stanno rubando, te lo stanno portando via. Ti è rimasta la dignità, quella sì. Quella l’hai avuta sempre e nessuno te la potrà mai rubare. È impossibile. Non ci sono riusciti i paramilitari fascisti serbi e non ci riuscirà neppure il capitalismo sfrenato che ti stringe alla vita con le sue mani mafiose e vuole fare l’ultimo ballo con te. L’ultimo? No. Passerà anche questa, Sarajevo. Passerà anche questa nuova notte. Si scioglierà anche questo gelo. L’importante è che tu rimanga ben salda tra le tue montagne e resista, resista ancora, a questa guerra che non accenna a passare. Ma che non farà sfiorire la tua bellezza. Mai.

mercoledì 15 aprile 2009

Viaggiatori responsabili, non Indiana Jones


Come viaggiare in qualsiasi parte del mondo, fare vere esperienze, risparmiare e tornare felici

Se siete Indiana Jones alla ricerca disperata dell’ultimo popolo antropofago da sfidare, quest’intervista non fa per voi. State perdendo tempo. Se siete viaggiatori – responsabili e non, perché diventarlo è possibile (e facile) in qualsiasi momento – siete invece arrivati sul link giusto. Qui si parla di turismo responsabile e di rispetto dei luoghi e delle persone in cui e verso cui si viaggia, partendo da un semplice presupposto: viaggiare non vuol dire mettersi anima e corpo (e portamonete) in mano ad aziende turistiche che curano ogni dettaglio della tua vita a pagamento per un certo numero di giorni ma lasciare la propria terra per incontrarne e conoscerne un’altra sotto vari aspetti, dagli odori ai sapori, dalle usanze alla lingua, dai mezzi pubblici ai ristoranti veri (non quelli dei resort in cui trovare persino gli spaghetti) fino a quei panorami magari non da cartolina ma comunque assolutamente caratteristici e pur tuttavia non “degni” di finire nel tour preconfezionato spacciato di solito come “unico” al turista-cliente (a volte “pollo”).

Di turismo responsabile e dei suoi diversi aspetti parliamo con Roberto Dati, fondatore dell’associazione Retour e autore da poco (gennaio 2009) di un ottimo, divertente e ricco manuale – Il viaggiatore responsabile. Un altro turismo in Africa, Asia, Medio Oriente e America Latina (Infinito edizioni, pagg. 208, € 14,00) – in cui, dettaglio non risibile, vengono riportati non solo i contatti delle associazioni italiane che si occupano di turismo responsabile ma anche di quelle attive nei Paesi in cui si viaggia.

D. Roberto, qual è, dal titolo del tuo libro, il ritratto del viaggiatore responsabile tipo?
R. È una persona – in prevalenza donna – curiosa di altre culture e di altri popoli; è mediamente di buona cultura; è un consumatore attento (ad esempio, spesso acquista prodotti del commercio equo o biologici); viaggia molto e ha fatto diverse esperienze di viaggio.

D. Quale potrebbe essere, dunque, una definizione di viaggiatore responsabile?
R. È un po’ arduo fornire una definizione univoca… Comunque, possiamo dire che il viaggiatore responsabile è chi cerca di coniugare vacanza e “impegno”, inteso sotto più profili: culturale (il viaggiatore responsabile vuole conoscere bene il Paese che visita), ambientale (cerca di ridurre il più possibile il proprio impatto), sociale (contribuisce, per quanto può, a progetti di solidarietà incontrati in viaggio).

D. Nel tuo libro si legge di viaggi splendidi. Quali sono i vantaggi di un “viaggiare diverso”, tanto per il viaggiatore quanto per le comunità che visita e per l’ambiente?
R. Beh, per il turista si tratta di compiere un’esperienza più interessante di quelle proposte generalmente dall’industria turistica, perché visitare un Paese in accordo con gli esponenti della sua società consente una profondità e una autenticità che nessun tour organizzato può garantire. Questo vale anche per chi fosse interessato anche soltanto agli aspetti naturalistici o balneari, perché il contatto con i locali avviene comunque, e più genuino è il rapporto con costoro, meglio è per il viaggiatore.
Quanto alle cosiddette comunità locali, la scommessa del turismo responsabile è di apportare loro il massimo beneficio possibile sia in termini economici, perché i turisti utilizzano servizi forniti da piccole imprese locali, sia in termini di impatto culturale, perché i turisti sono preparati all’incontro con una realtà molto diversa dalla loro e vengono “educati” prima di partire a interagire in modo corretto con chi li ospiterà.

D. Quando e come è cominciata la tua avventura nel turismo responsabile?
R. Nel 1999, quando ho partecipato, da turista, a un viaggio organizzato da RAM, creatura di Renzo Garrone, il “pioniere” del turismo responsabile in Italia. Ero in cerca di qualcosa che mi permettesse di unire la mia passione per il viaggio al desiderio di dare una mano ai popoli più svantaggiati: il turismo responsabile era ciò che cercavo, e ho subito iniziato a collaborare con Garrone, ma anche con altre organizzazioni e progetti, fino a dar vita, nel 2005, a un’associazione del tutto nuova, Retour, con cui ho continuato a promuovere il turismo responsabile.

D. Il viaggio più bello che hai fatto e perché.
R. Difficile scegliere… Forse il primo viaggio a Cuba, perché era la prima volta nella tanto sognata isola della revolución, perché ho incontrato tante persone impegnate a salvaguardare la parte migliore di quella revolución, perché abbiamo girato l’isola in lungo e in largo, arrivando a guadare un torrente sulla Sierra Maestra a bordo dell’auto noleggiata, e perché tra i compagni di viaggio c’era quella che poi è diventata mia moglie!

D. E quello che ricordi invece come un incubo (se c’è stato)?
R. No, incubi non ne ho fatti – per fortuna! Semmai qualche momento difficile, come in Vietnam, quando sono stato preso in mezzo da alcuni loschi individui che gestivano in modo mafioso il business delle escursioni sul delta del Mekong (ne parlo nel libro), o come in Russia, nel corso del viaggio in Transiberiana, quando una sera, dopo una cena in un ristorante di Krasnojarsk, la cameriera ci ha suggerito di non prendere il taxi perchè molti passeggeri erano stati derubati dai tassisti…

D. È così difficile diventare viaggiatori responsabili, o quella che ci manca è, innanzitutto, buona volontà?
R. Il viaggiatore responsabile non è una specie di santo, semplicemente bisogna accettare di dedicare una parte del proprio tempo e delle proprie energie a chi si incontra nel corso del viaggio, insomma bisogna mettersi un po’ in gioco anche se si è in vacanza.

D. Quelli che proponi e di cui parli nel libro sono viaggi per tutti?
R. Direi proprio di sì. Non credo nel turismo estremo o d’avventura, in cui il viaggiatore deve trasformarsi in una sorta di Indiana Jones. Parafrasando un noto cantautore, qui l’impresa eccezionale è essere normale: possiamo tradurlo con “consapevole”, “sostenibile”, “rispettoso”, per l’appunto “responsabile”, parola che non deve spaventarci perché si tratta di una responsabilità in primo luogo verso noi stessi, verso il nostro diritto a fare un’esperienza bella, utile e quindi migliore di quelle spacciate su cataloghi patinati come vacanze da sogno.

mercoledì 8 aprile 2009

E se Fuad avesse avuto la dinamite?


Nel nuovo libro di Elvira Mujcic le vicende di Visegrad, di una famiglia, di un intero popolo dilaniato e inebetito dalla guerra

“E se Fuad avesse avuto la dimamite?”: sono in molti, soprattutto coloro che hanno vissuto sulla loro pelle la guerra, a chiederselo ancora oggi. “Se quella diga, quella maledetta diga di Visegrad, fosse stata fatta saltare? Che cosa sarebbe successo? Quale ritmo, un simile atto, avrebbe impresso alla guerra in Bosnia Erzegovina?”.
A queste domande, naturalmente, non esiste una risposta ma solo ipotesi, valutazioni, supposizioni, suggestioni. Affascinanti e intense, come questo nuovo libro di Elvira Mujcic, intitolato appunto “E se Fuad avesse avuto la dinamite?”, seconda prova letteraria di un’autrice assai promettente, che ancora una volta, dopo l’ottimo esordio firmato con “Al di là del caos”, torna nella “sua” Bosnia (Elvira da poco è cittadina italiana) per inquadrare e rileggere con rara arguzia e sensibilità uno di quegli episodi storici da molti rimossi, ma decisivi per quelli che furono i destini di un Paese brutalmente aggredito senza che il mondo muovesse mano per proteggerlo.
Centro della vicenda raccontata da Elvira Mujcic nel suo ottimo “E se Fuad avesse avuto la dinamite?” è un paesino sulla Drina. Una minaccia terribile, gli echi di un genocidio, il tempo lungo e indefinito del dopoguerra bosniaco fanno da sfondo al racconto, in cui un nipote e suo zio si districano tra passato e presente, s’inoltrano nei terreni dei rancori famigliari, intrecciano guerra e amore, verità e dubbio, passeggiano attraverso le follie di un popolo inebetito, cristallizzato nell’incubo del conflitto. I due protagonisti del libro, camminando sul filo incerto che divide il nazionalismo e la memoria, sulle tracce di eroi costruiti, menzogne celate e vite stroncate, scavano per trovare risposte al loro bisogno di Storia e di verità.
Un libro intenso, forte, vibrante, quello di Elvira, che qui risponde ad alcune nostre domande su questo suo nuovo sforzo letterario.

Elvira, sono passati due anni dal tuo precedente libro, “Al di là del caos”. Che cosa è cambiato dentro di te, come donna e come scrittrice?
In me in quanto donna è difficile dire quanto e che cosa sia cambiato, visto che non riesco a vedermi da fuori. Sono certa, però, di avere acquistato una maggiore consapevolezza di me e del mio vissuto.
Come scrittrice sono maturata, il mio linguaggio, la capacità espressiva e quella tecnica si sono evoluti. Sono passata da un libro che era una sorta di diario a un’opera più complessa da gestire, almeno a livello strutturale. Ma senza “Al di là del caos”, che è stato allo stesso tempo una terapia e una guarigione, non sarei riuscita a fare dei passi avanti né come donna né come scrittrice.

“E se Fuad avesse avuto la dinamite” ti porta a parlare di nuovo della Bosnia, e in particolare di un episodio pressoché rimosso della guerra, che si svolse a Visegrad. Puoi raccontarcelo. E, in particolare, il Fuad del libro è davvero esistito nella realtà?
Visegrad è una cittadina collocata sulla Drina e, come tutte le città che hanno la sfortuna di trovarsi affacciate su quel confine naturale che separa la Bosnia e la Serbia, è stata luogo di una feroce pulizia etnica. A Visegrad è iniziato e si è concluso tutto nei primi mesi di guerra: dall’aprile al luglio del 1992. Alla fine del mese di luglio la città era etnicamente pulita a danno dei mussulmani. Quasi tutto il lavoro è stato svolto dall’esercito paramilitare serbo, anche se l’iniziale bombardamento sulla città è da imputare all’esercito jugoslavo. Il principale responsabile della pulizia etnica è Milan Lukic, catturato nel 2005 in Argentina. Visegrad è una delle prime città dove inizia la tattica dello stupro etnico e tale pratica non consiste in episodi sporadici, bensì in un’operazione ben organizzata.
Fuad è una persona realmente esistente. Si chiama Murat Sabanovic e l’episodio della diga che avrebbe dovuto far esplodere è assolutamente reale. Infatti il libro si apre con un prologo che è l’esatta trascrizione di un telegiornale bosniaco dell’8 aprile 1992.


Protagonista del libro è in realtà Zlatan, un giovane che decide di tornare sui suoi passi, dall’Italia in Bosnia, per capire. Co-protagonista è lo zio di Zlatan, mentre sullo sfondo aleggia un Paese in crisi, dilaniato, e la figura di Fuad. Puoi descrivere i due personaggi principali del libro e relazionarli con la realtà dei bosniaci odierni?
Zlatan e lo zio sembrano essere agli antipodi, però lo sono uno agli occhi dell’altro e non in realtà. Zlatan è figlio di due nostalgici della Jugoslavia, lo zio è la pecora nera della famiglia, bollato come nazionalista. In realtà Zlatan è un ragazzo che fa fatica a prendere parte, tende a impegnarsi per capire ogni posizione. In realtà anche lo zio fa fatica a prendere le parti però reagisce cercando, scoprendo, indagando e facendosi domande sul macello jugoslavo. Questi due personaggi sono le due parti contrastanti di me stessa, perché conoscendo la Jugoslavia e avendo un po’ di spirito critico non mi sono mai accontentata di una sola verità. In questa Bosnia odierna dove bisogna scegliere con chi stare, i miei due protagonisti si innalzano verso qualcosa di molto più difficile, ma molto più puro.

La figura della nonna, ora comica ora straziante, è l’unica figura femminile delineata profondamente in un libro molto al maschile.
La nonna è un personaggio quasi surreale, eppure è una nonna esistente. Surreale è il dolore che le è stato inflitto e che non ha saputo superare. La figura della nonna è molto importante perché è essa stessa una sorta di rappresentazione della Bosnia, della sua storia e dell’incapacità di rimarginare le ferite, ma solo di lasciarsi abbandonare alla follia.

È stato difficile scrivere al maschile e perché questa scelta?
Certo, è stato difficile perché non sono un uomo e riuscire a non pensare da donna è davvero dura. Ho scelto di scrivere al maschile perché volevo distaccarmi dal mio libro precedente, non volevo che le persone si affezionassero all’autrice perché attraverso quel libro l’hanno conosciuta appieno.

In realtà quanto di Elvira Mujcic c’è, in questo lavoro?
Ovviamente c’è moltissimo di me. Sono convinta che non si possa scrivere altro se non quel che si conosce. Si possono leggere trattati sulle emozioni ma se non le si prova non le si può raccontare. Per scrivere questo libro ho dovuto fare ricerca, scoprire, andare a toccare con mano cose che non conoscevo, ho dovuto farle diventare mie per poterle dire e allora non posso non dire che moltissimo in questo libro e in questi protagonisti è mio.

La Bosnia per te continuerà a essere fonte di ispirazione o nei prossimi anni ti misurerai con altre realtà?
Quando penso a scrivere non penso di voler scrivere di Bosnia. Dopo “Al di là del caos” non volevo scrivere di guerra, volevo fare qualcos’altro. Il fatto è che è stata la Bosnia stessa a impormisi, perché non è la mia ispirazione ma il mio enigma esistenziale da risolvere. Credo, quindi, che fino a quando la Bosnia vorrà turbarmi con i suoi dubbi, io non potrò scrivere di altro.

Come vive oggi Elvira in Italia e come vivono tanti come te che, arrivati ormai da più di dieci anni in questo Paese, continuano a essere trattati da una politica cieca e ignorante ora come ingombri, ora come pericoli, ora, semplicemente, come numeri?
Dopo 16 anni di vita in Italia, giusto il mese scorso sono stata premiata con la cittadinanza italiana. Un lungo iter di burocrazie e pregiudizi e paure sembra essersi concluso. Vivere in Italia da straniero diventa sempre più difficile, spesso anche insopportabile. Il problema più grande è il fatto di essere sempre usati come capro espiatorio di ogni emergenza sociale, politica o economica e la questione più urgente sarebbe riconoscere che oltre ad avere doveri, dovremmo anche avere dei diritti, perché è difficile vivere per 16 anni in un Paese, dare il proprio contributo economico, sociale e culturale ed essere comunque trattati come cittadini di serie B.

Un sogno nel cassetto?
Mi piacerebbe in un futuro vicino riuscire a concludere due lavori ai quali tengo: uno è una raccolta di poesie e l’altro un saggio sull’informazione nella Jugoslavia dal 1943 ai giorni nostri.