martedì 26 luglio 2011

Bosnia Express mercoledì 27 luglio a an Pietro Vernotico (BR), poi in vacanza fino al 30 agosto

Cari,
domani, mercoledì 27 luglio, vi aspetto a SAN PIETRO VERNOTICO (BR), in Piazza del Popolo, alle 21 00, per quella che potrebbe essere considerata come l'ultima presentazione stagionale di "Bosnia Express". L'avventura - bellissima - è cominciata 46 presentazioni fa, il 30 settembre, a Roma, e la Puglia - la regione che ha ospitato più presentazioni del libro - rappresenta la più bella e degna chiusura.
"Bosnia Express" in realtà va solo in vacanza per un mese (l'autore, ahilui!, no) e torna ad Ancona, al Festival Adriatico Mediterraneo, il 30 agosto. Un mese dopo uscirà "Saluti da Sarajevo", che devo riuscire a chiudere entro la fine del mese prossimo. Una corsa contro il tempo.
Poi in realtà ci sarebbero altre enormi sorprese in arrivo, ma per il momento top secret assoluto!

Vi aspetto domani a San Pietro Vernotico, poi martedì 30 agosto ad ANCONA, Festival Adriatico Mediterraneo, Palazzo degli Anziani, Piazza Benvenuto Stracca, ore 18,00.
Buona estate!

Altre date in preparazione.

Dal 30 settembre 2010 a oggi abbiamo presentato il libro 46 volte, ed esattamente a: Albano Laziale (RM), Ancona, Bari, Bologna, Casalecchio di Reno (BO), Catania, Cerignola (Fg), Cisliano (MI), Corato (Ba), Cupra Montana (AN), Firenze, Giulianova, Lecce, Massafra (Ta), Milano (2 volte), Modena (2), Mola di Bari (BA), Molfetta (Ba), Muro Leccese (Le), Nettuno (RM), Padova, Palermo, Parma, Pisa, Pont-Saint-Martin (AO), Roma (7 volte), San Benedetto del Tronto, San Pietro Vernotico (Br), Saronno (VA), Staranzano (GO), Sedriano (MI), Taranto, Tarquinia (VT), Torino, Trieste, Venezia-Mestre, Villa di Serio (BG), Vittorio Veneto.

Per proporre nuove presentazioni:
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facebook: Luca Leone

La “sgrammatica” del teatro di Emma Dante: intervista a Giuseppe Distefano


Oltre a lunghe ed estenuanti prove, dietro ogni spettacolo teatrale c’è – talvolta dimenticato – il talento e la sensibilità di un fotografo, chiamato a immortalare e rendere talvolta eterni istanti comunque irripetibili. Giuseppe Distefano è tra questi grandi protagonisti della macchina fotografa ed è la persona che, negli ultimi anni, ha immortalato in scatti superbi i principali momenti di vita e d’espressione di tutti gli spettacoli della grande regista e autrice palermitana. Il vastissimo repertorio di immagini fotografiche degli spettacoli della Dante – MPalermu, Carnezzeria, La Scimia, Vita mia, Michelle di Sant’Oliva, Cani di bancata, Il festino, Le pulle, Acquasanta – è al centro di un prestigioso e raffinatissimo lavoro dedicato all'opera della regista – una delle rivelazioni più importanti del panorama del teatro contemporaneo, vincitrice per la regia e la drammaturgia di importanti premi – e pubblicato da Infinito edizioni (Giuseppe Distefano, Il teatro di Emma Dante, 2010).
Delle immagini del fotografo siciliano la Dante ha scritto nella prefazione firmata nel libro: “La luce delle foto di Distefano è una luce che svela insopportabili dettagli, nascoste verità che dalla sala non possono vedersi. C’è sempre nei miei spettacoli qualcosa di segreto, qualcosa che non arriva al pubblico e che serve agli attori per mantenere il mistero che nutre parole e gesti. Il mio teatro è, soprattutto, un accadimento; per questo è importante trovare uno sguardo capace di cogliere il lato nascosto delle cose”. A Distefano ho chiesto di rivelare a parole, in questa breve intervista, alcuni di questi dettagli.

Giuseppe, nel tuo “Il teatro di Emma Dante” tratteggi con scatti splendidi la prima fase della carriera di una grande regista, stimata ormai non solo in Italia. Vuoi provare a pennellare ora a voce il teatro di Emma, raccontandolo come lo vede un fotografo che raccoglie in migliaia di scatti l’intrecciarsi di decine di vite con il genio creativo di una grande regista?
Mi interessano, perché credo che siano più vere, le immagini “sgrammaticate”. E il teatro della Dante lo è. È “sgrammaticato” perché rompe e infrange regole linguistiche e canoni scenici tradizionali. È un teatro dove non ci si trucca per andare in scena, anzi, ci si strucca per essere, gli attori, più veri possibile. Nel suo teatro troviamo occhi sbarrati, bocche spalancate, movimenti sgraziati, posture sghembe, danze forsennate. E le foto ritraggono tutto ciò. Tutta questa “grammatica” nasce da un encomiabile lavoro sul e col corpo. Un lavoro duro, faticoso, rigoroso, al quale gli attori sono sottoposti. Un lavoro che rivela l’essenza dell’attore, lo denuda, lo svela. È un lavoro dove è importante non come si muove il corpo, ma cosa lo muove. E questa è la sfida per chi fotografa: riuscire a cogliere in uno scatto la necessità interna di un movimento, di un gesto, di un’espressione.

Come nasce il tuo rapporto professionale accanto a Emma Dante?
Nasce da un incontro, come tutte le cose importanti. Da un avvicinamento graduale scaturito da una lunga e appassionata intervista in due tappe che le feci per il mensile di spettacolo Primafila. Era alle prese con un laboratorio per lo spettacolo Cani di bancata e le chiesi se potevo assistervi e fotografare le varie fasi di lavoro. Da lì in avanti ho cominciato a entrare nelle viscere del suo “fare” teatro. Entrare nello spazio creativo di Emma, nella sua scrittura scenica, significa “sporcarsi”, essere anch’io corpo vivo della scena.

La regista Emma Dante, la grande creativa, e la donna, coincidono o sono, come a volte accade una volta scesi dal palco, persone completamente diverse?
Non conosco la dimensione prettamente privata, intima, personale di Emma, tale da poter di conoscerla. Conosco, un po’, quella artistica per la frequentazione in momenti di prova, di laboratorio, di spettacolo, di incontri pubblici. Credo di poter dire, come impressione, che Emma sia sempre lei, dentro e fuori la scena.

Il teatro di Emma Dante ha una profondissima valenza sociale ed è coraggioso, oltre che splendido e ispirato, teatro di denuncia. Basti pensare ai lavori dedicati dalla regista alla piaga della mafia. Possiamo però definire quello della Dante “solo” teatro sociale o c’è qualcosa – forse addirittura molto – di più?
Nel lavoro di Emma c’è una forte dimensione di denuncia: vedi Cani di bancata, che parla di mafia e politica, o Le pulle, che affronta l’argomento scomodo della prostituzione, del travestitismo, ecc. Ma la definizione di “teatro sociale” non esaurisce il suo teatro. Non credo si possa catalogare e ridurre a questa etichetta restrittiva. Emma racconta, mostra, evoca territori umani aspri e violenti, cerimonie e ritualità (irrituali) che hanno radici in mondi famigliari ancestrali e attualissimi, dove, in fondo, si può leggervi un forte bisogno d’amore. Perché tutto nasce da lì. C’è, in sintesi, una cartografia antropologica dell’anima che ha a che fare con l’essere umano.

Nel testo con cui accompagni le immagini parli del teatro della Dante come di “pane per gli occhi”. È un’immagine di una profondità e di una bellezza difficilmente eguagliabile. Perché “pane per gli occhi”?
Perché gli occhi, per un fotografo, e non solo, sono la fonte di nutrimento. Ci si nutre di immagini. E quando queste ti “parlano”, quando toccano corde intime, emotive, allora fanno parte di te, ti costituiscono. Ti nutrono, appunto. Scrivo che la forza e le potenza delle immagini che Emma crea sono pane per gli occhi, inteso come nutrimento emotivo e conoscitivo di un mondo interiore, psicologico, sociale, che può servire a stimolare, a interrogare e interrogarsi, offrendo allo spettatore suggestioni sommerse e svelamenti di un immaginario personale e comune.

Perché, secondo te, da profondo conoscitore di teatro, il governo di questo Paese sta sistematicamente buttando via questo “pane per gli occhi”? Gli italiani forse non ne hanno bisogno?
L’affermazione emblematica di questo modo di pensare che il governo di questo Paese ha sistematicamente attuato, è stata la dichiarazione di un ministro quando ha sentenziato che la cultura non si mangia. Chi pensa così dimentica che la cultura è nutrimento. È elemento essenziale e insostituibile di conoscenza. In realtà l’aspetto tragico è pensare che le persone debbano soltanto mangiare. Si trattavano così gli schiavi. La cultura invece serve a dire alle persone che la vita ha un senso al di là delle necessità primarie. Oltre il mangiare, che viene senz’altro prima di tutto, c’è anche il fatto che con la mia vita io devo farci qualche cosa e non quello che dice un altro. E che si voglia persone solo a servizio di qualcun altro è esattamente quello che ha in testa proprio chi dice che la cultura non si mangia.

giovedì 21 luglio 2011

Carla Del Ponte, la tv svizzera e domani "Bosnia Express" a Nettuno

Carissimi,
facendo clik qui potete vedere il breve ma significativo speciale dedicato dalla tv svizzera di lingua francese al nostro incontro in Parlamento, lo scorso 11 luglio, con Carla Del Ponte, in occasione del ricordo delle vittime del genocidio di Srebrenica nel sedicesimo anniversario di quello speventoso evento.
Essere ripreso mentre do la mano a Carla Del Ponte, che ho avuto l'onore di presentare e intervistare alla Camera dei Deputati, fa un certo effetto.

Anticipo che sto lavorando alla quarta edizione di "Srebrenica. I giorni della vergogna" (ormai ce ne sono pochissime copie in giro e il lavoro va fatto) e alla terza edizione di "Bosnia Express", altra gioia non indifferente per me.

Confermo l'uscita a ottobre di "Saluti da Sarajevo", cui sto lavorando in questo preciso momento.

E poi vi invito, se passate di lì, a partecipare domani alla 46esima presentazione di "Bosnia Express", a Nettuno, mentre la prossima settimana sarò di nuovo nell'amata Puglia.

Le prossime presentazioni:

Luglio:
- venerdì 22 luglio, NETTUNO (RM), Gran Caffè Italian, via Matteotti 33/35, ore 18,15, nell’ambito del Salotto del Videocorto, presentazione congiunta con il libro “Nema problema” di Eric Gobetti (Miraggi edizioni); organizza Miraggi edizioni, modera Lucilla Colonna;
- mercoledì 27 luglio, SAN PIETRO VERNOTICO (BR), Piazza del Popolo, ore 21 00.

Agosto:
- martedì 30 agosto, ANCONA, Festival Adriatico Mediterraneo, Palazzo degli Anziani, Piazza Benvenuto Stracca, ore 18,00.

Altre date in preparazione.

Dal 30 settembre 2010 a oggi abbiamo presentato il libro 45 volte, ed esattamente a: Albano Laziale (RM), Ancona, Bari, Bologna, Casalecchio di Reno (BO), Catania, Cerignola (Fg), Cisliano (MI), Corato (Ba), Cupra Montana (AN), Firenze, Giulianova, Lecce, Massafra (Ta), Milano (2 volte), Modena (2), Mola di Bari (BA), Molfetta (Ba), Muro Leccese (Le), Padova, Palermo, Parma, Pisa, Pont-Saint-Martin (AO), Roma (7 volte), San Benedetto del Tronto, San Pietro Vernotico (Br), Saronno (VA), Staranzano (GO), Sedriano (MI), Taranto, Tarquinia (VT), Torino, Trieste, Venezia-Mestre, Villa di Serio (BG), Vittorio Veneto.

Per proporre nuove presentazioni:
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Tra scuola e lavoro, i “Cantieri” d’Italia raccontati da un’insegnante-scrittrice: intervista a Elisabetta Galli


I “cantieri” di un’Italia nuova, di un mondo inedito, passano attraverso le migrazioni, le storie personali, gli edifici in costruzione in un quartiere di una grande città – con operai esclusivamente migranti: rumeni, moldavi, nordafricani, italiani meridionali… – ma anche attraverso la scuola come luogo d’incontro e integrazione reciproca.
In “Cantieri” (Infinito edizioni, 2011) Elisabetta Galli, madre e insegnante milanese alla sua seconda prova editoriale, dopo il fortunato “Lettera aperta agli uomini (Infinito edizioni, 2009) racconta i “cantieri” della vita e ne coglie le essenze, riportando in questo libro le storie personali di un popolo di migranti del quale fanno parte non solo africani ed europei dell’Est, ma anche tanti italiani, più di quanti si possa pensare. Di ogni sesso ed età. Perché sia migrare sia accogliere non sono solo le due facce di uno spostamento fisico, ma richiedono coraggio, umiltà e una componente culturale ed etica che non tutti gli italiani sanno cogliere, in un Paese sempre più alla deriva di una xenofobia grassa e immotivata, su cui soffia l’alito pesante di scelte politiche basate sulla costruzione del diverso e del nemico a tavolino.
“I più umili fanno materialmente la storia con il loro lavoro, spesso oscuro e sconosciuto, spesso seppellito nelle mille disgrazie che accompagnano il duro pane da guadagnare e nella migrazione che va alla ricerca di luoghi dove mettere a frutto le proprie mani e la capacità di farle fruttare, guadagnando pane per mettere su famiglia…”, scrive nella prefazione del volume Francesco Cappelli, insegnante anch’egli, milanese come l’autrice.
Vediamo allora questi “cantieri”, parliamone qui di seguito con l’autrice, disgelandone nomi, professioni e visi. Scopriremo che i “cantieri” della vita sono molti più di quelli che pensiamo di conoscere.

Elisabetta, che genere d’umanità hai conosciuto nel cantiere in cui, con le tue figlie, hai vissuto per mesi?
Ho conosciuto un’umanità autentica, vale a dire priva di sovrastrutture e di artifici pur di apparire diversa; esseri umani la cui vita è basata su valori semplici e importanti, essenziali: il lavoro svolto non per sé, ma per le famiglie lontane, per ricambiare la fiducia che era stata riposta in loro, il senso della responsabilità e del dovere, la capacità di affrontare le difficoltà con coraggio, forza di volontà e tanta determinazione, cercando di vedere sempre il bicchiere mezzo pieno, mai mezzo vuoto. Non ho mai incontrato gente che si piangesse addosso, anzi, anche in situazioni che noi giudicheremmo drammatiche, loro avevano la grande capacità di ritenersi fortunati, perché avrebbe potuto andare peggio.

Ci racconti come hai accorciato, un po’ alla volta, le distanze, e come è stato possibile superare quella sorta di barriera invisibile che sempre più spesso divide gli italiani dagli “altri”?
In tutta sincerità, non è stato difficile; non ho mai concepito dentro di me barriere e differenze di valore tra gli esseri umani. La “diversità” tra me e gli altri, se esiste, è quella che distingue chi vive con coscienza, spirito di giustizia e fratellanza e chi sceglie la via dell’esclusione, della differenza, del razzismo. E naturalmente ciò non dipende dall’essere italiano, africano, rumeno o altro. Dipende da ciò che ognuno considera valore, umanità e ricchezza culturale.

Un cantiere edile come modello di convivenza e di superamento della diversità, dunque, o qualcosa di più, se possibile?
In realtà non posso considerare modello di convivenza un cantiere, per il semplice motivo che in un cantiere si lavora, e molto, mentre la convivenza implica una condivisione molto più vasta, quella del tempo libero, degli interessi comuni, delle passioni. Più che altro l’esperienza di vita in un cantiere richiama come significato l’esperienza educativa, di formazione e crescita. Sarebbe utile e istruttivo che le persone gonfie di pregiudizi e di rabbiosa intolleranza potessero davvero conoscere gli stranieri che lavorano con noi e per noi, così la loro crassa ignoranza magari subirebbe qualche ridimensionamento! Un’altra esperienza istruttiva, come dico nel libro, sarebbe quella di attraversare il deserto del Sahara insieme agli africani che lasciano il proprio Paese con la speranza di una vita migliore; certi giovani italiani, nutriti d’odio e pregiudizi, potrebbero lasciarci la pelle oppure cominciare a capire qualcosa.

Che Italia è quel pezzetto di Italia in cui vivi? Che rapporto ha, in particolare, quel pezzetto d’Italia con la “diversità” che viene da fuori?
Io abito nella provincia sud-ovest di Milano, una zona benestante d’Italia, ma anche dove sono frequenti gli episodi di razzismo e di xenofobia. Chi lavora è convinto d’essere l’unico a saperlo fare e chi non trova lavoro spesso dà la colpa agli stranieri; ma quanti ragazzi italiani sarebbero disposti a svolgere mansioni di fatica in uno dei nostri cantieri, per esempio? Io ne ho conosciuti pochissimi. Le comunità straniere, per reazione, si chiudono in se stesse, rinunciano all’integrazione perché non si sentono accettate. Questo vale in linea di massima, ma per fortuna ci sono anche esempi di integrazione riuscita; esistono piccole realtà associative che svolgono attività a favore dell’amicizia tra i popoli e della conoscenza reciproca, in vista di un arricchimento comune.

Come spieghi l’ondata di xenofobia e, non di rado, di razzismo, che sta colpendo l’Italia e, in particolare, certe zone d’Italia, soprattutto “grazie” ad alcune forze politiche che soffiano sull’intolleranza e sulla necessità di scavare fossati tra “noi” e “loro”?
Questo è un discorso lungo e complesso e io non mi sento un’esperta, ma una semplice cittadina; però, secondo me, tutto nasce dalla paura che, a propria volta, ha origine dall’ignoranza. Le forze politiche che soffiano sull’intolleranza sono proprio quelle che raccolgono consensi tra chi non conosce culture, popoli, religioni diverse dalle proprie, tra chi non si è mai posto domande, ma è convinto ugualmente di avere sempre ragione, tra chi non ha nessun genere di capacità umana e professionale per competere con gli altri. Chi cavalca la tigre della paura, si fa forte proprio di questa paura per aumentare il proprio consenso politico, per un discorso di mero potere. “Se tu mi aiuti a cacciare gli stranieri (“che mi portano via il lavoro, che importunano le nostre donne, che occupano il mio Paese, la mia casa, i miei mezzi pubblici ecc ecc…”), io ti voto. Nella zona in cui abito, ma non solo qui, purtroppo, ci sono talmente tanti pregiudizi che verrebbe voglia di scappare, di cambiare addirittura Paese. Invece la cosa più giusta è resistere, portare avanti la propria lotta sul campo, prendere esempio dai Paesi più civili del nostro, quelli dove la democrazia non è una conquista recente e ancora debole, quelli dove la scuola favorisce la conoscenza e la cultura. Ma qui si dovrebbe aprire un altro discorso…

E i tuoi ragazzi, a scuola? Immagino che alcuni di loro arriveranno completamente fradici di pregiudizi, quelli che hanno sentito a casa. Come riesce un insegnante a relazionarsi con questi pregiudizi e a provare a cambiare la prospettiva di chi ne è portatore?
Gli adolescenti non sono ancora rigidi, incattiviti, intolleranti come i propri genitori, così quando cominci a smontare i pregiudizi attraverso i mezzi a disposizione, la storia moderna, la geografia umana ed economica, il meccanismo di causa-effetto, la realtà oggettiva, i documenti e i documentari, le storie di vita come quelle che ho raccolto nel mio libro, i ragazzi cominciano a capire, a dubitare, a riflettere e molti di loro cambiano prospettiva. Sono momenti di grande soddisfazione per un’insegnante, gli unici per cui valga ancora la pena svolgere la professione docente. Certo, non è detto che, nel corso degli anni, questi ragazzi non cadranno più nella trappola del pregiudizio e della xenofobia, visto che oggi la voce della scuola si è indebolita e si fa fatica a farsi ascoltare, ma le basi per la riflessione e l’umanizzazione delle coscienze sono state gettate.

Le classi delle scuole italiane sono sempre più multietniche e multiculturali. Come reagiscono alla convivenza “forzata” i ragazzi e come, invece, i genitori?
In base alla mia esperienza posso dire che nelle classi con un’alta percentuale di ragazzi dal cognome straniero (la maggior parte sono infatti nati in Italia), gli studenti convivono meglio e le differenze si appianano più facilmente rispetto a classi in cui ci sono solo uno o due stranieri. In quest’ultimo caso succede che il “diverso” sia preso di mira quando si tratta di fare qualche scherzo, prendere in giro qualcuno o, nel caso in cui l’insegnante abbia da fare un rimprovero, quasi tutti danno la colpa al compagno straniero. Quando avevo cominciato a insegnare, trent’anni fa, il debole della situazione non era lo straniero, non ce n’erano, ma il figlio dei giostrai di passaggio, sinti italiani, o l’ultimo arrivato dal sud d’Italia o chi aveva un solo genitore. Allora come oggi, però, ho sempre trovato ragazzini capaci di mettersi in discussione e cambiare atteggiamento, nonostante le famiglie, il contesto, il branco dei coetanei. Sono ancora sicura che, se si offrono agli studenti strumenti conoscitivi per comprendere la realtà e la ricchezza rappresentata dalla diversità culturale, è possibile il cambiamento, il dialogo, l’accoglienza.

Nella scuola italiana, secondo te, in generale c’è razzismo? Oppure sono pochi, a volte, che gettano discredito su un corpo docente sempre più angariato da riforme imposte dall’alto e da una sorta di avvilimento di una professione che è anche missione?
Non si tratta di chiederci se a scuola ci sia o no razzismo, anzi, a ben guardare, a scuola ce n’è meno che fuori, oppure potremmo dire che essa rispecchia esattamente quello che vediamo nella realtà quotidiana, solo più frenato, più sottile e ipocrita. Si tratta prima di tutto di una scuola svuotata di senso; le riforme imposte dall’alto e, qua da noi, in una provincia settentrionale, supinamente accettate, costringono gli insegnanti a mansioni di tipo burocratico e tecnico che riducono gli alunni a numeri in codice, il momento valutativo alla compilazione di griglie da crocettare e le competenze a qualcosa di meramente teorico, contenutistico e decisamente parziale. La persona/studente scompare, l’originalità, la creatività, l’individualità non emergono, ma finiscono col diventare elementi di disturbo perché non s’inquadrano nelle schematizzazioni ministeriali. È ciò che di peggiore abbia mai visto. Per fortuna non hanno ancora abolito il lavoro in classe, a tu per tu coi ragazzi, senza l’occhio del “grande fratello” che ti controlla e ti costringe in parametri ristretti e monotematici. Altrimenti farei qualunque cosa pur di scappare dalla scuola e inventarmi una nuova professione.

Ma tu ci torneresti a vivere in un cantiere, se non fossi costretta a farlo?
Certo, è molto più stimolante, persino più divertente rispetto a una qualsiasi assemblea di condominio, dove la gente s’insulta per un nonnulla e questiona all’infinito sul gatto del vicino, sui panni stesi, sulla lavatrice che funziona di notte o sul cancello automatico che si blocca. I lavoratori stranieri che ho conosciuto in cantiere li ho sentiti come figli, fratelli, ma non posso dire la stessa cosa dei vicini di casa, italiani doc. Non ho una grande opinione dei miei “simili”, ma non farmi dire di più…

E, tornassi indietro, faresti sempre l’insegnante o opteresti per altro?
Come ho detto prima, in classe conservo la libertà di essere me stessa e cerco di trasmettere ai miei studenti ciò che so e ciò che ho ricevuto a mia volta da chi è venuto prima di me, dall’esperienza che ho vissuto, dagli incontri che ho avuto. Fuori dalla classe, nei momenti collegiali, vorrei sparire ed essere da tutt’altra parte. È triste, ma le “riforme” hanno ridotto la professione docente a un momento valutativo privo di senso e, soprattutto, lontano anni-luce da tutto ciò che rientra nel concetto di cultura, conoscenza, sapere, responsabilità civile, uguaglianza tra gli esseri umani e senso di giustizia. Nonostante tutto continuo a insegnare perché ho a cuore il futuro del mondo e dell’uomo e non mi arrendo. “Devi resistere, Elisabetta – mi dico alla fine di ogni consiglio di classe o di Collegio docenti – Pensa ai tuoi ragazzi”…

martedì 19 luglio 2011

L’Asia di un grande viaggiatore nelle pagine di “Papà Mekong”: intervista a Corrado Ruggeri


Papà Mekong” (infinito edizioni, 2011), l’ottimo libro di Corrado Ruggeri – capo della cronaca romana del Corriere della Sera e autore di libri di viaggio per i tipi di Feltrinelli, Mondatori e Sitcom, oltre che volto televisivo di Marcopolo – è molte cose: il primo romanzo di un uomo, viaggiatore e giornalista, di immensa umanità; una full immersion in un’Asia sconosciuta ai più; una ricerca di genere nei delicati rapporti tra donna e uomo; una sfida in punta di penna per raccontare, con la delicatezza di una piuma e l’incisività di un pugnale arroventato, un mondo difficile, duro, fatto di sfruttamento e povertà, di sciacalli e vittime, di bambini rinchiusi in poveri orfanotrofi e gente che con immensa difficoltà a fine giornata riesce a mettere insieme un pugno di riso. Un mondo di frustrazione e di rancore che però ha dentro di sé quegli strumenti di catarsi e di rinascita che a noi occidentali sono probabilmente sconosciuti.
Scrive il giornalista Aldo Cazzullo nella sua prefazione al libro, che “Papà Mekong ha il merito non solo di raccontare terre e personaggi lontani, ma anche di aprire la nostra mente e il nostro cuore a popoli che crediamo estranei, a uomini e donne che non abbiamo incontrato e non incontreremo. Corrado Ruggeri ci parla di villaggi e orfanotrofi; ci ricorda che i poveri della terra esistono, e non sono soltanto le migliaia di Lampedusa, ma i miliardi che restano a casa, o cercano di costruirsela sulla propria terra. E ci spiega che loro certo hanno bisogno di noi; ma anche noi abbiamo molto bisogno di loro”.
Ho approfondito questi spunti con Corrado Ruggeri e ne è scaturita l’intervista che riporto di seguito.

Corrado, che cosa rappresenta il fiume Mekong per un grande viaggiatore come te?
Ognuno di noi ha dei luoghi cari in giro per il mondo. Il Mekong è il mio. È insieme la dolcezza e la crudeltà dell’Asia: nasce sul Tibet, e la leggenda dice che chi beve un sorso di quelle acque di montagna conquisterà l’immortalità, magari soltanto quella del ricordo. E poi è stato il fiume della guerra, dei cadaveri che scivolavano e che, secondo una credenza orientale, di notte parlavano. È il grande fiume della speranza, di un futuro migliore per chi ancora oggi, lungo quelle rive cammina a piedi nudi e dorme su una stuoia.

Quando e come nasce l’idea di prendere questo fiume, e l’Asia, quali magici sfondi della storia che narri in “Papà Mekong”?
Forse posso dire di averci sempre pensato. Dopo Roma, e forse Londra e New York, il bacino del Mekong e il sud-est asiatico sono la parte del mondo che conosco meglio. Era naturale che ambientassi lì il mio primo romanzo, dopo averci scritto, peraltro, altri libri di racconti di viaggio. Mekong e quella parte d’Asia sono la mia seconda casa: anzi, non escludo affatto, vorrei dire spero, di andarci a vivere.

La scelta dei temi del libro – l’adozione, l’amicizia, il viaggio, la prostituzione, la diversità, il tradimento, la fiducia, l’ansia di scoprire o riscoprire le proprie radici, ma anche la vendetta e la “rinascita” – rappresentano una sfida non da poco, eppure tutti questi temi sono bilanciati e approfonditi con maestria e sensibilità nel libro, senza mai nascondersi dietro il luogo comune e l’ipocrisia. Ci sono altri temi al centro del libro e quali sono le doti dell’ottimo narratore nel saperli far convivere e nel saperli bilanciare all’interno di un solo libro?
Beh, sono stato fortunato, è andata bene. Diciamo che questo libro, come ha colto benissimo Aldo Cazzullo nella prefazione, è una specie di summa del mio modo di intendere la vita e i rapporti umani, fatti di rispetto, onestà, fiducia. Ma anche di sapiente ferocia, quando c’è da punire chi ha sbagliato o si è comportato male: il perdono è dote che appartiene a Dio, a qualunque dio si creda, per gli uomini è esercizio molto difficile. Come nella complessità della vita, ho messo tutto insieme e se il mix è riuscito, bè, sono contento. Se mancano ipocrisie e luoghi comuni è perché cerco di cancellarli anche dalla mia vita: li detesto, come le persone che invece li adottano come comportamenti abituali.

“Papà Mekong” è un libro molto al femminile, nel quale s’intrecciano i caratteri, le fortune e le tragedie di tre donne incredibilmente diverse, eppure a loro modo ciascuna simbolo di una differente femminilità? Perché questa scelta?
Da uomo mi piaceva raccogliere la sfida di mettere le donne al centro del racconto. Sapevo che sarebbe stato più difficile, perché le reazioni maschili le governo più semplicemente. Raccontare le donne mi ha richiesto un’attenzione maggiore, una fatica aggiuntiva. E mi è piaciuto diversificarle: un’intellettuale borghese italiana, radicata negli affetti, una ex guerrigliera che trasforma la sua ansia di giustizia indirizzata male in attività di solidarietà umana, una prostituta che scopre l’amore e la delusione ed è portatrice di una forza umana, di un sentimento di onore che fanno di lei un gigante di straordinaria ricchezza umana.

E per quale ragione, nella tua narrazione, gli uomini, i maschi, hanno prevalentemente un ruolo secondario (penso al compagno della protagonista italiana e a quello della co-protagonista cingalese) o, addirittura, negativo (penso al trafficante di opere d’arte o, per certi versi, persino al padre della protagonista, che rappresenta poi il magnifico collante dell’intera storia)?
Ecco, una risposta politicamente corretta e dunque ipocrita potrebbe essere che considero le donne migliori degli uomini. Non è così. Ma non è vero neppure il contrario. Credo che ci siano persone, a prescindere dal sesso, che possono essere buone o cattive, valide o insignificanti. In questo romanzo accanto a personaggi femminili molto forti, di spessore, gli uomini impallidiscono un po’, sono più prevedibili, un po’ sgualciti. Se posso essere del tutto scorretto, diciamo che ho descritto le donne come mi piacerebbe che fossero. Ma non sempre sono così.

Che cosa rappresenta per le l’universo femminile e quale spazio intravedi per la donna nel mondo in costruzione, in divenire?
Non sono molto ottimista sui destini del mondo. A meno che non si riesca a dare una sterzata che corregga questa dannata rincorsa solo al lato estetico del vivere: denaro, carriera, potere. I valori veri sono altri, e dovrebbero essere più naturali per una donna, che ha la fortuna di dare la vita. Ecco, quando si diventa genitori, si scopre il valore vero delle cose: e in questo la donna ha una fortuna in più rispetto all’uomo, fa nascere i suoi figli. L’universo femminile è sregolatezza ma fantasia, scarsa affidabilità ma capacità di comprensione: ha quello che manca al pianeta maschile. Rispetto il femminismo, quando è capace di agire non in modo anti, contro qualcuno, ma per costruire regole e sistemi nuovi. E proprio di questo accuso le donne. Il modello maschile è fallito, ma per cercare di affermarsi maggiormente nella vita, come è giusto che sia, le donne stanno facendo gli stessi errori che hanno fatto gli uomini. Dovrebbero provare a imporre un loro modello, utilizzare sistemi diversi. Altrimenti non cambierà niente.

“Papà Mekong” fa venire una voglia incredibile di viaggiare in Asia e di viaggiare l’Asia. Quali luoghi un viaggiatore occidentale non può non visitare, in quelle terre, e con quale spirito dovrebbe accostarsi a quei mondi?
L’Asia sono tanti mondi, ciascuno dei quali ha un fascino straordinario. Oltre al Mekong c’è un altro grande fiume, il Gange, e in India vanni visitate sicuramente Varanasi e anche Calcutta. Non si tratta di fare del turismo spettacolo sulla povertà e la sofferenza: è che soltanto visitando le parti del mondo più difficili, come possono essere Calcutta o la Cambogia, ci si può davvero rendere conto che la nostra condizione di occidentali è oltremodo fortunata. Perché lì c’è chi dorme sotto una busta di plastica o forse non ha nemmeno quella e con un dollaro mangia due giorni. Il viaggio è compartecipazione, è rendersi conto che siamo un mondo di fratelli e quando è possibile – cioè sempre – dovremmo aiutare chi ha avuto di diverso da noi soltanto la sfortuna di nascere in un posto meno comodo. E comunque, visto che poi non ci neghiamo anche un po’ di ristoro sulla spiaggia o a bordo piscina, suggerisco Thailandia, che adoro, Vietnam – il quartiere francese di Hanoi è una delizia – il lungofiume di Phnon Penh, ovviamente Angkor, la sonnolenta Lunag Prabang in Laos, Pagan in Birmania. D’estate diventa splendida l’isola di Redang, in Malesia.

Che cosa ti manca principalmente dell’Asia?
Tutto. Profumi, colori, il caldo umido, le zuppe Pho, vietnamita, e Tom Yum Goong, thailandese, il lemon fresh dello Shangri La di Bangkok, i mercati, le cavallette fritte di Yangoon, i massaggi, un po’ della pigrizia che ti conquista giorno dopo giorno. E il sorriso della gente, la semplicità delle relazioni, l’abbigliamento informale. Sto cercando di convincere mia moglia Carla ad andarci a vivere, tra pochi anni.

E del Mekong?
La luce del tramonto, quando i monaci fanno il bagno, i ragazzini dei villaggi caricano secchi d’acqua sulle spalle, le pentole cominciano a rumoreggiare sul fuoco. Nel delta ci mettono cane, topi o serpenti di fiume, una delle cose più immonde che abbia mai mangiato. Ma quando non hai troppa scelta per le cose da mettere nello stomaco, la bocca non fa troppi capricci. Basta guardare i bambini. Credo che l’espressione “non mi piace” non abbia traduzione da queste parti.

"Enzo", una bellissima esperienza d'incontro e confronto a Cupramontana

Cari Amici,
domenica per la prima volta ho fatto l'esperienza di presentare il mio piccolo "Enzo", racconto che scrissi due anni fa, pubblicato in serie limitata nel 2010 e poi, colpevolmente, abbandonato lì, tra l'altro quasi esaurito in libreria.
Invitato dal Comune di Cupramarina, provincia di Ancona e patria di un Verdicchio stupefacente, grazie alla gentilezza di Stefania, Corrado e Valeria, ho per un po' titubato prima di accettare. Il mio "pane" è la Bosnia, ho pensato a lungo; sono capace di presentare e raccontare i problemi e le esperienze degli altri, ma ignoro se ho questa capacità anche quando devo raccontare una parte della mia vita in pubblico, perché "Enzo" è un lavoro dolorosamente autobiografico.
E invece è andata benissimo. Oltre due ore di incontro, durante le quali le pagine di "Enzo" sono state utili per affrontare tematiche rilevanti quali la seconda guerra mondiale e le nefandezze della colonizzazione italiana in Africa, in particolare nel Corno d'Africa; la colpa di noi italiani di non aver mai saputo e voluto fare i conti con il nostro passato fascista; la crisi di valori nelle famiglie; la televisione; il vino; i rapporti intergenerazionali...
Una chiacchierata bellissima perché, soprattutto, l'incontro non è stato mai a senso unico ma la cinquantina di persone presenti hanno partecipato con grande passione, aprendo alla collettività momenti della vita della loro famiglia.
Veramente bello. Un'esperienza importante che mi porterò dentro a lungo.
Grazie

giovedì 14 luglio 2011

Domenica con "Enzo" a Cupra Montana (AN)

Cari,
vi ricordo l'appuntamento di domenica 17 luglio a Cupra Montana (AN) con la presentazione di ENZO.
Poi si ricomicnia, dal 22 luglio, con le presentazioni di BOSNIA EXPRESS.
In preparazione (ottobre 2011) il nuovo libro: SALUTI DA SARAJEVO, di cui a breve vi mostrerò la copertina.
A presto

domenica 17 luglio, CUPRA MONTANA (AN), nell’ambito di “Musica distesa”, Comune, ore 21,00, presentazione di ENZO.

Le prossime rpesentazioni di BOSNIA EXPRESS:
- venerdì 22 luglio, NETTUNO (RM), Gran Caffè Italian, via Matteotti 33/35, ore 18,15, nell’ambito del Salotto del Videocorto, presentazione congiunta con il libro “Nema problema” di Eric Gobetti (Miraggi edizioni); organizza Miraggi edizioni, modera Lucilla Colonna;
- mercoledì 27 luglio, SAN PIETRO VERNOTICO (BR), Piazza del Popolo, ore 21,00;

Agosto 2011:
- martedì 30 agosto, ANCONA, Festival Adriatico Mediterraneo, Palazzo degli Anziani, Piazza Benvenuto Stracca, ore 18,00.

Altre date in preparazione.

Dal 30 settembre 2010 a oggi abbiamo presentato il libro 44 volte, ed esattamente a: Albano Laziale (RM), Ancona, Bari, Bologna, Casalecchio di Reno (BO), Catania, Cerignola (Fg), Cisliano (MI), Corato (Ba), Firenze, Giulianova, Lecce, Massafra (Ta), Milano (2 volte), Modena (2), Mola di Bari (BA), Molfetta (Ba), Muro Leccese (Le), Padova, Palermo, Parma, Pisa, Pont-Saint-Martin (AO), Roma (7 volte), San Benedetto del Tronto, San Pietro Vernotico (Br), Saronno (VA), Staranzano (GO), Sedriano (MI), Taranto, Tarquinia (VT), Torino, Trieste, Venezia-Mestre, Villa di Serio (BG), Vittorio Veneto.

Per proporre nuove presentazioni:
direzione.editoriale@infinitoedizioni.it
info@infinitoedizioni.it
lu.ne@libero.it
facebook: Luca Leone

lunedì 11 luglio 2011

11 Luglio, abbiamo ricordato il genocidio di Srebrenica alla Camera dei Deputati

Questa mattina, 11 luglio 2011, dalle 11,00 alle 13,30 ci siamo riuniti nella Sala del Mappamondo della Camera dei Deputati per rievocare, nel sedicesimo anniversario, il genocidio di Srebrenica. Eravamo un centinaio di persone, tra relatori e pubblico, e la giornata è stata enormemente ricca di spunti, di riflessioni, di proposte. Ospite d'onore era Carla Del Ponte, donna di grande forza, profonda onestà e altissimi ideali, oltre che simpaticissima commensale all'ora del pranzo.
Pubblico qui di seguito il mio intervento introduttivo, in qualità di moderatore della giornata.
Un ringraziamento speciale va a Enisa Bukvic, all'om. Ando Di Biagio e al suo staff, fondamentali per la riuscita della giornata.

INIZIO DELLA GIORNATA CON UNA LETTURA.

Nela Lučić, ottima attrice bosniaca,
ha letto con partecipazione un drammatico brano tratto dal libro di
Carla Del Ponte dal titolo LA CACCIA. Io e i criminali di guerra.

Dopo questa toccante lettura, in avvio dei lavori invito tutti i presenti a osservare un minuto di silenzio in ricordo delle vittime del genocidio di Srebrenica, trascorso il quale proseguiremo con i molti e importanti interventi in calendario.

MINUTO DI SILENZIO

Buon giorno a tutti voi, mi chiamo Luca Leone e ho il compito e il piacere di moderare questa importante giornata di ricordo delle vittime del genocidio di Srebrenica.

Visti i tempi stretti e gli importanti ospiti oggi presenti, mi limiterò a un breve intervento introduttivo e a chiamare di volta in volta gli ospiti in scaletta, di cui a breve fornirò una panoramica.

Come testé anticipato, siamo riuniti questa mattina, lunedì 11 luglio 2011, nello splendido scenario della Sala del Mappamondo della Camera dei Deputati della Repubblica Italiana, nell’anno dei festeggiamenti per il 150° anniversario della Repubblica, per ricordare le vittime del genocidio di Srebrenica e fare il punto della situazione in materia di giustizia sedici anni dopo il compimento del primo genocidio mai verificatosi in Europa dalla Shoah.

L’incontro odierno è organizzato dalla Camera dei Deputati in collaborazione con l’Università degli Studi Roma Tre, l’Associazione Spes Lazio – acronimo che sta per Centro di Servizio per il Volontariato – e la comunità bosniaca in Italia, di cui sono presenti molti rappresentanti, che quest’anno hanno preferito limitarsi ad ascoltare per fare poi domande alla fine, se avremo tempo.

Prima di cedere la parola agli ospiti odierni, vorrei solo ricordare che il genocidio di Srebrenica è stato commesso tra l’11 e il 21 luglio 1995 dall’esercito serbo bosniaco guidato dal generale Ratko Mladic e dal suo vice, generale Radislav Krstic, otre che dai paramilitari serbi guidati da famigerati mercenari quali, ad esempio, il purtroppo ben noto Arkan.

A Srebrenica c’era un contingente di circa 400 caschi blu olandesi dell’Onu – guidati dal colonnello Ton Kerremans – rimasto spettatore dell’orrore.

Al termine del genocidio, verificatosi dopo tre anni e mezzo circa di assedio della città, hanno perso la vita un numero ancora imprecisato di cittadini bosniaci musulmani, in quasi totalità maschi, di età compresa tra 12 e 72 anni.

I dati iniziali della Croce rossa internazionale parlavano di circa 7.500 vittime, ma oggi è stata già superata quota 8.500 vittime certe mentre i familiari dei morti di Srebrenica sostengono – lo fanno dall’inizio – che manchino 10.701 loro cari all’appello.

D’altronde, molte fosse comuni secondarie e terziarie continuano a essere rinvenute anno dopo anno. Nella sola Kamenica, non lontano da Srebrenica, ne sono state trovate fin qui ben 13, la più grande delle quali con quasi 1.200 tra corpi interi e parti di corpi al suo interno.

Quello di Srebrenica è stato definito per la prima volta GENOCIDIO – parola che ancora oggi in molti faticano, purtroppo, a usare, cercando sinonimi inappropriati – nell’aprile 2004, in occasione del processo di appello contro il generale Krstic.

Il principio è stato ribadito il 26 febbraio 2007 dalla Corte internazionale di giustizia dell’Aja.

Quest’oggi, 11 luglio, a Srebrenica, o meglio nel Memoriale di Potocari, quest’ultimo ex sobborgo industriale della cittadina, stanno per essere sepolti i resti di altre circa 700 persone riconosciute grazie all’esame del Dna. Oggi più di 4.000 persone riposano a Potocari dopo essersi riappropriate del loro nome, ma non siamo neppure a metà del lavoro.

Anche perché, è bene ricordarlo, ancora oggi a Srebrenica come nella Republika Srpska di Bosnia come nella Repubblica di Serbia, girano liberamente il grosso dei massacratori, degli stupratori, dei torturatori di Srebrenica. E sono impuniti.

Vale la pena aggiungere che lo scorso 26 maggio, dopo quasi sedici anni di latitanza, è stato finalmente arrestato Ratko Mladic, che va così a raggiungere all’Aja Radovan Karadzic, ex presidente dell’autoproclamata Repubblica Serba di Bosnia consegnato da Belgrado nell’agosto del 2008.

L’arresto di Mladic ha avuto anche una sgradevole “coda” italiana: Mladic, accusato dal Tpi di genocidio, di crimini di guerra e di crimini contro l'umanità, è stato definito dall’europarlamentare leghista Mario Borghezio un “patriota”, con Borghezio ad auspicare molti Mladic padani, che per l’europarlamentare rappresenterebbero solo “grasso che cola”. Ma con Mladic, in Bosnia, è colato solo sangue, come sanno bene i bosniaci oggi qui presenti. E quel sangue dovrebbe essere rispettato.

In conclusione, va ricordato che il 15 gennaio 2009 il Parlamento Europeo ha approvato la risoluzione denominata P6-TA (2009) 0028 Srebrenica con la quale il Parlamento Europeo chiede ai governi europei e dei Balcani Occidentali di riconoscere ufficialmente il giorno 11 luglio come la Giornata della Memoria del Genocidio di Srebrenica.

Ancora una volta, la comunità bosniaca, e con essa molti molti italiani, chiede al Parlamento italiano di adottare la risoluzione del Parlamento Europeo e di indire anche in Italia, come già successo altrove, la Giornata della Memoria del Genocidio di Srebrenica.

Ciò rapidamente detto, vado ora a presentare gli ospiti di questa giornata. Prima ancora, tuttavia, è un onore e un piacere poter leggere la lettera di saluti fattaci pervenire dal presidente della Camera dei Deputati, on. Gianfranco Fini.

LETTERA

Ascolteremo nell’ordine che segue i brevi saluti di:

Aldo Di Biagio, parlamentare del gruppo di Futuro e Libertà, esperto di Balcani e da anni vicino alle rievocazioni del genocidio proposte dalla comunità bosniaca in Italia;

Tatyana Kuzik, consigliere aggiunto per l’Europa Orientale del Comune di Roma, attivissima nell’organizzazione delle precedenti rievocazioni del genocidio;

Renzo Razzano, presidente del Centro di Servizio per il Volontariato del Lazio;

Roberto Reggi, sindaco di Piacenza, da anni vicino alla comunità bosniaca locale;

Ado Hasanović, regista del film documentario L’ANGELO DI SREBRENICA, di cui, dopo un suo breve saluto, vedremo un significativo contributo di circa sei minuti, solo musica e immagini. Ado è originario di Srebrenica, che ha lasciato nel 1993 all’età di soli sei anni, in pieno assedio. Oggi vive e lavora a Sarajevo.

Faranno seguito ai saluti i brevi interventi di:

Riccardo Migliori, parlamentare del Popolo delle Libertà, nonché Presidente della Delegazione Italiana presso l’Assemblea dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE);

Enisa Bukvic, che ci leggerà la lettera di saluti inviataci dalla vice presidente del Senato, Emma Bonino;

Francesco Guida, Preside della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università Roma Tre e Presidente dell’Associazione Italiana di Studi del Sud-Est Europeo.

In chiusura di lavori, l’atteso intervento di:

Carla Del Ponte, magistrata svizzera, dal 1999 al 2007 Procuratore Capo del Tribunale Penale Internazionale per la ex Jugoslavia, dal gennaio 2008 al febbraio 2011 ambasciatore della Confederazione Elvetica in Argentina.

Tutti ci adopereremo affinché rimanga del tempo per brevi e pacati interventi o domande del pubblico.

Andiamo a cominciare con il saluto dell’on. Aldo Di Biagio, dopo il quale chiamerò Tatyana Kuzik.

Buon lavoro.