giovedì 21 luglio 2011

Tra scuola e lavoro, i “Cantieri” d’Italia raccontati da un’insegnante-scrittrice: intervista a Elisabetta Galli


I “cantieri” di un’Italia nuova, di un mondo inedito, passano attraverso le migrazioni, le storie personali, gli edifici in costruzione in un quartiere di una grande città – con operai esclusivamente migranti: rumeni, moldavi, nordafricani, italiani meridionali… – ma anche attraverso la scuola come luogo d’incontro e integrazione reciproca.
In “Cantieri” (Infinito edizioni, 2011) Elisabetta Galli, madre e insegnante milanese alla sua seconda prova editoriale, dopo il fortunato “Lettera aperta agli uomini (Infinito edizioni, 2009) racconta i “cantieri” della vita e ne coglie le essenze, riportando in questo libro le storie personali di un popolo di migranti del quale fanno parte non solo africani ed europei dell’Est, ma anche tanti italiani, più di quanti si possa pensare. Di ogni sesso ed età. Perché sia migrare sia accogliere non sono solo le due facce di uno spostamento fisico, ma richiedono coraggio, umiltà e una componente culturale ed etica che non tutti gli italiani sanno cogliere, in un Paese sempre più alla deriva di una xenofobia grassa e immotivata, su cui soffia l’alito pesante di scelte politiche basate sulla costruzione del diverso e del nemico a tavolino.
“I più umili fanno materialmente la storia con il loro lavoro, spesso oscuro e sconosciuto, spesso seppellito nelle mille disgrazie che accompagnano il duro pane da guadagnare e nella migrazione che va alla ricerca di luoghi dove mettere a frutto le proprie mani e la capacità di farle fruttare, guadagnando pane per mettere su famiglia…”, scrive nella prefazione del volume Francesco Cappelli, insegnante anch’egli, milanese come l’autrice.
Vediamo allora questi “cantieri”, parliamone qui di seguito con l’autrice, disgelandone nomi, professioni e visi. Scopriremo che i “cantieri” della vita sono molti più di quelli che pensiamo di conoscere.

Elisabetta, che genere d’umanità hai conosciuto nel cantiere in cui, con le tue figlie, hai vissuto per mesi?
Ho conosciuto un’umanità autentica, vale a dire priva di sovrastrutture e di artifici pur di apparire diversa; esseri umani la cui vita è basata su valori semplici e importanti, essenziali: il lavoro svolto non per sé, ma per le famiglie lontane, per ricambiare la fiducia che era stata riposta in loro, il senso della responsabilità e del dovere, la capacità di affrontare le difficoltà con coraggio, forza di volontà e tanta determinazione, cercando di vedere sempre il bicchiere mezzo pieno, mai mezzo vuoto. Non ho mai incontrato gente che si piangesse addosso, anzi, anche in situazioni che noi giudicheremmo drammatiche, loro avevano la grande capacità di ritenersi fortunati, perché avrebbe potuto andare peggio.

Ci racconti come hai accorciato, un po’ alla volta, le distanze, e come è stato possibile superare quella sorta di barriera invisibile che sempre più spesso divide gli italiani dagli “altri”?
In tutta sincerità, non è stato difficile; non ho mai concepito dentro di me barriere e differenze di valore tra gli esseri umani. La “diversità” tra me e gli altri, se esiste, è quella che distingue chi vive con coscienza, spirito di giustizia e fratellanza e chi sceglie la via dell’esclusione, della differenza, del razzismo. E naturalmente ciò non dipende dall’essere italiano, africano, rumeno o altro. Dipende da ciò che ognuno considera valore, umanità e ricchezza culturale.

Un cantiere edile come modello di convivenza e di superamento della diversità, dunque, o qualcosa di più, se possibile?
In realtà non posso considerare modello di convivenza un cantiere, per il semplice motivo che in un cantiere si lavora, e molto, mentre la convivenza implica una condivisione molto più vasta, quella del tempo libero, degli interessi comuni, delle passioni. Più che altro l’esperienza di vita in un cantiere richiama come significato l’esperienza educativa, di formazione e crescita. Sarebbe utile e istruttivo che le persone gonfie di pregiudizi e di rabbiosa intolleranza potessero davvero conoscere gli stranieri che lavorano con noi e per noi, così la loro crassa ignoranza magari subirebbe qualche ridimensionamento! Un’altra esperienza istruttiva, come dico nel libro, sarebbe quella di attraversare il deserto del Sahara insieme agli africani che lasciano il proprio Paese con la speranza di una vita migliore; certi giovani italiani, nutriti d’odio e pregiudizi, potrebbero lasciarci la pelle oppure cominciare a capire qualcosa.

Che Italia è quel pezzetto di Italia in cui vivi? Che rapporto ha, in particolare, quel pezzetto d’Italia con la “diversità” che viene da fuori?
Io abito nella provincia sud-ovest di Milano, una zona benestante d’Italia, ma anche dove sono frequenti gli episodi di razzismo e di xenofobia. Chi lavora è convinto d’essere l’unico a saperlo fare e chi non trova lavoro spesso dà la colpa agli stranieri; ma quanti ragazzi italiani sarebbero disposti a svolgere mansioni di fatica in uno dei nostri cantieri, per esempio? Io ne ho conosciuti pochissimi. Le comunità straniere, per reazione, si chiudono in se stesse, rinunciano all’integrazione perché non si sentono accettate. Questo vale in linea di massima, ma per fortuna ci sono anche esempi di integrazione riuscita; esistono piccole realtà associative che svolgono attività a favore dell’amicizia tra i popoli e della conoscenza reciproca, in vista di un arricchimento comune.

Come spieghi l’ondata di xenofobia e, non di rado, di razzismo, che sta colpendo l’Italia e, in particolare, certe zone d’Italia, soprattutto “grazie” ad alcune forze politiche che soffiano sull’intolleranza e sulla necessità di scavare fossati tra “noi” e “loro”?
Questo è un discorso lungo e complesso e io non mi sento un’esperta, ma una semplice cittadina; però, secondo me, tutto nasce dalla paura che, a propria volta, ha origine dall’ignoranza. Le forze politiche che soffiano sull’intolleranza sono proprio quelle che raccolgono consensi tra chi non conosce culture, popoli, religioni diverse dalle proprie, tra chi non si è mai posto domande, ma è convinto ugualmente di avere sempre ragione, tra chi non ha nessun genere di capacità umana e professionale per competere con gli altri. Chi cavalca la tigre della paura, si fa forte proprio di questa paura per aumentare il proprio consenso politico, per un discorso di mero potere. “Se tu mi aiuti a cacciare gli stranieri (“che mi portano via il lavoro, che importunano le nostre donne, che occupano il mio Paese, la mia casa, i miei mezzi pubblici ecc ecc…”), io ti voto. Nella zona in cui abito, ma non solo qui, purtroppo, ci sono talmente tanti pregiudizi che verrebbe voglia di scappare, di cambiare addirittura Paese. Invece la cosa più giusta è resistere, portare avanti la propria lotta sul campo, prendere esempio dai Paesi più civili del nostro, quelli dove la democrazia non è una conquista recente e ancora debole, quelli dove la scuola favorisce la conoscenza e la cultura. Ma qui si dovrebbe aprire un altro discorso…

E i tuoi ragazzi, a scuola? Immagino che alcuni di loro arriveranno completamente fradici di pregiudizi, quelli che hanno sentito a casa. Come riesce un insegnante a relazionarsi con questi pregiudizi e a provare a cambiare la prospettiva di chi ne è portatore?
Gli adolescenti non sono ancora rigidi, incattiviti, intolleranti come i propri genitori, così quando cominci a smontare i pregiudizi attraverso i mezzi a disposizione, la storia moderna, la geografia umana ed economica, il meccanismo di causa-effetto, la realtà oggettiva, i documenti e i documentari, le storie di vita come quelle che ho raccolto nel mio libro, i ragazzi cominciano a capire, a dubitare, a riflettere e molti di loro cambiano prospettiva. Sono momenti di grande soddisfazione per un’insegnante, gli unici per cui valga ancora la pena svolgere la professione docente. Certo, non è detto che, nel corso degli anni, questi ragazzi non cadranno più nella trappola del pregiudizio e della xenofobia, visto che oggi la voce della scuola si è indebolita e si fa fatica a farsi ascoltare, ma le basi per la riflessione e l’umanizzazione delle coscienze sono state gettate.

Le classi delle scuole italiane sono sempre più multietniche e multiculturali. Come reagiscono alla convivenza “forzata” i ragazzi e come, invece, i genitori?
In base alla mia esperienza posso dire che nelle classi con un’alta percentuale di ragazzi dal cognome straniero (la maggior parte sono infatti nati in Italia), gli studenti convivono meglio e le differenze si appianano più facilmente rispetto a classi in cui ci sono solo uno o due stranieri. In quest’ultimo caso succede che il “diverso” sia preso di mira quando si tratta di fare qualche scherzo, prendere in giro qualcuno o, nel caso in cui l’insegnante abbia da fare un rimprovero, quasi tutti danno la colpa al compagno straniero. Quando avevo cominciato a insegnare, trent’anni fa, il debole della situazione non era lo straniero, non ce n’erano, ma il figlio dei giostrai di passaggio, sinti italiani, o l’ultimo arrivato dal sud d’Italia o chi aveva un solo genitore. Allora come oggi, però, ho sempre trovato ragazzini capaci di mettersi in discussione e cambiare atteggiamento, nonostante le famiglie, il contesto, il branco dei coetanei. Sono ancora sicura che, se si offrono agli studenti strumenti conoscitivi per comprendere la realtà e la ricchezza rappresentata dalla diversità culturale, è possibile il cambiamento, il dialogo, l’accoglienza.

Nella scuola italiana, secondo te, in generale c’è razzismo? Oppure sono pochi, a volte, che gettano discredito su un corpo docente sempre più angariato da riforme imposte dall’alto e da una sorta di avvilimento di una professione che è anche missione?
Non si tratta di chiederci se a scuola ci sia o no razzismo, anzi, a ben guardare, a scuola ce n’è meno che fuori, oppure potremmo dire che essa rispecchia esattamente quello che vediamo nella realtà quotidiana, solo più frenato, più sottile e ipocrita. Si tratta prima di tutto di una scuola svuotata di senso; le riforme imposte dall’alto e, qua da noi, in una provincia settentrionale, supinamente accettate, costringono gli insegnanti a mansioni di tipo burocratico e tecnico che riducono gli alunni a numeri in codice, il momento valutativo alla compilazione di griglie da crocettare e le competenze a qualcosa di meramente teorico, contenutistico e decisamente parziale. La persona/studente scompare, l’originalità, la creatività, l’individualità non emergono, ma finiscono col diventare elementi di disturbo perché non s’inquadrano nelle schematizzazioni ministeriali. È ciò che di peggiore abbia mai visto. Per fortuna non hanno ancora abolito il lavoro in classe, a tu per tu coi ragazzi, senza l’occhio del “grande fratello” che ti controlla e ti costringe in parametri ristretti e monotematici. Altrimenti farei qualunque cosa pur di scappare dalla scuola e inventarmi una nuova professione.

Ma tu ci torneresti a vivere in un cantiere, se non fossi costretta a farlo?
Certo, è molto più stimolante, persino più divertente rispetto a una qualsiasi assemblea di condominio, dove la gente s’insulta per un nonnulla e questiona all’infinito sul gatto del vicino, sui panni stesi, sulla lavatrice che funziona di notte o sul cancello automatico che si blocca. I lavoratori stranieri che ho conosciuto in cantiere li ho sentiti come figli, fratelli, ma non posso dire la stessa cosa dei vicini di casa, italiani doc. Non ho una grande opinione dei miei “simili”, ma non farmi dire di più…

E, tornassi indietro, faresti sempre l’insegnante o opteresti per altro?
Come ho detto prima, in classe conservo la libertà di essere me stessa e cerco di trasmettere ai miei studenti ciò che so e ciò che ho ricevuto a mia volta da chi è venuto prima di me, dall’esperienza che ho vissuto, dagli incontri che ho avuto. Fuori dalla classe, nei momenti collegiali, vorrei sparire ed essere da tutt’altra parte. È triste, ma le “riforme” hanno ridotto la professione docente a un momento valutativo privo di senso e, soprattutto, lontano anni-luce da tutto ciò che rientra nel concetto di cultura, conoscenza, sapere, responsabilità civile, uguaglianza tra gli esseri umani e senso di giustizia. Nonostante tutto continuo a insegnare perché ho a cuore il futuro del mondo e dell’uomo e non mi arrendo. “Devi resistere, Elisabetta – mi dico alla fine di ogni consiglio di classe o di Collegio docenti – Pensa ai tuoi ragazzi”…