mercoledì 20 gennaio 2010

Erose forze d’eros: quando la volgarità umana consuma persino la roccia


Gianluca Paciucci è uno dei più grandi e sensibili intellettuali italiani viventi. In quanto tale, in Italia è quasi sconosciuto al grande pubblico. Accade ai grandi. Accade, in questo “Paese”, ai “diversi”, a quelli che non si adeguano alla “cultura” dominante. Differente magari sarebbe se partecipasse a trasmissioni della tv spazzatura pubblica e privata. Ma la televisione è interessata solo ai finti intellettuali urlatori, alla gente più da stadio che da studio.

Poeta vibrante ed evocativo, saggista solido e colto, autore di graffianti articoli di giornale, perfettamente bilingue (italiano e francese, quasi trilingue se non si schernisse quando gli viene fatto notare l’alto livello del suo serbo-croato) Paciucci ha firmato per Infinito edizioni lo splendido “Erose forze d’eros”, raccolta di versi concepiti e nati a Sarajevo, in uno dei cuori della multiforme e ferita Europa: di questa ferita la sua poesia porta il segno della spossatezza (che è l'esatto contrario della rassegnazione). Versi marrani, quelli di Paciucci, che popolano l'attesa, la formano, la tengono desta per quando il momento verrà; e versi liberi, tecnicamente, o costretti nell'endecasillabo, in sonetti e quartine: in ogni caso forme che premono da dentro il foglio e da dentro la gola, prive d'immaterialità. Sono fortiniane “poesie ad alta voce”, e solo a tratti sopportano la lettura silenziosa. In attesa del momento in cui "la verità abbandonerà il campo dei vincitori" (Simone Weil), questi versi si aprono alla forza di tutti coloro che “la vittoria contestano e cercano di sabotare”.

Del libro e della sua potente poetica ho parlato nell’intervista che segue con Gianluca Paciucci. La Bosnia, la guerra, la crudeltà umana e la resistenza, la poesia, e ancora Rieti e Nizza sono al centro di questa appassionante conversazione.

D. Gianluca, partiamo dal titolo: perché “Erose forze d’eros” e, secondo te, che cosa dà questa forza evocativa al titolo del tuo libro?
R. Il titolo parla di una devastazione in corso, non di un “declino” o di una “catastrofe” (termine peraltro a me caro, quest'ultimo, nell'uso di Walter Benjamin), ma di uno scavo lentissimo: la roccia-eros viene consumata dalla violenta volgarità di vènti e acque convogliati da perverse divinità. Nel titolo vi sono una finta figura etimologica, allitterazioni e un'assonanza tonica a tenere insieme le parole: le forze scavate della roccia-eros, pur avvizzite e smunte, vengono sorrette dalla potenza della parola poetica: sorrette, sostenute, come da reti che trattengono pareti a strapiombo su strade. E conservate/preservate, infine, ad allestire l'attesa dell'interruzione messianica. Qui introduco il tema del “marrano” nell'interpretazione che ne dà il filosofo francese Daniel Bensaïd in “La patience du marrane”, un saggio del 2001: come quegli ebrei formalmente convertitisi al cattolicesimo, dopo la “reconquista” cattolica della Spagna, ma che in realtà “giudaizzavano” in segreto, oggi il marrano è chi finge d'aver ceduto al presente e ne accoglie le apparenze, pur nascostamente lavorando alla costruzione di un altro mondo...

D. Il tuo lavoro, maturo e appassionante, nasce a Sarajevo e si sviluppa tra la capitale bosniaca, Rieti e Finale Ligure. Quali influenze hanno avuto e hanno su di te queste tre città e quale importanza riveste per il tuo completamento d’uomo e poeta il lungo periodo di lavoro e di studio trascorso in Bosnia Erzegovina?
R. Finale Ligure è un luogo ancora sconosciuto, per me, mentre Rieti è l'origine (“sangui dell'origine sabina”), è il luogo di partenza e di ritorni incessanti, è l' “umbilicus Italiae”, il luogo in cui, come ormai ovunque nel nostro Paese, la Piazza e il Palazzo hanno stretto accordi e sviluppato complicità: il Palazzo protegge e utilizza la Piazza (ogni singolo componente della Piazza, guardato negli occhi dal sindaco nelle dirette in tv locali), meschini e avviliti entrambi, con la cultura ridotta a “intrattenimento” o movida, senza più carica sentimentale e politica, e con le Banche (che prestavano soldi alla banda della Magliana e ad altri uomini illustri) a dominare. Provammo a spezzarne le trame, trenta, venticinque anni fa, e ne fummo spezzati: con sgarbo, soprattutto dai “nostri”... Qualcuno andò via subito, altri aspettarono anni, altri si sono “marranizzati”...
Luogo d'elezione è invece Sarajevo, e la Bosnia Erzegovina tutta intera con tutte le sue contraddizioni lancinanti (guerra e dopoguerra – ancora in corso, estenuante), ma anche con vicende umane e ricchezze impensabili: offese ai corpi e sensualità, lucidità e fanatismi, miserie e strati di coraggio a costruire un futuro imprevedibile – tutto questo è la Bosnia Erzegovina, piantata nel cuore dei Balcani ovvero nel cuore dell'Europa. A Sarajevo ho capito la storia del Novecento, quale significato abbia la parola “colpa”, quale fine abbia fatto il volontarismo politico e perché sia forse possibile intravvedere l'inizio di qualcosa che prima o poi verrà/avverrà. Qualcosa di decisivo per tutte e tutti noi, anche qui da noi. Infine c'è Nizza, ad incantare, la Nizza di Jean Vigo, e non quella ipermoderna mafiosa e fascistizzata, sotto la cappa del sole ingannatore; la Nizza dei giardini degli affetti, e dei sentieri che salgono allontanandosi dal mare, di cui canterò più a lungo in altra occasione.

D. Sapresti descrivere che cosa hanno lasciato in te, e che cosa ti hanno portato o strappato via, la Bosnia e i bosniaci?
R. Solo un lungo, grande vuoto, mi hanno lasciato, avendoli io lasciati tre anni fa, dopo cinque anni di permanenza per ragioni di lavoro. Un vuoto di cui mi vergogno e che non riesco a colmare con i surrogati della posta elettronica. E il ricordo di una fisicità che l'igienismo e l'asetticità brutale delle città dell'Unione europea hanno bandito dalle piazze e da ogni luogo pubblico, per riproporla come corpi in vendita. In Bosnia Erzegovina vi sono ancora tracce di una vita non del tutto inquinata dai rapporti mercantili: vi domina il denaro, come ovunque (siamo spacciati, in questo senso, e minacciati dall'invasività di questo dio), ma c'è anche il sogno del dono, appena smossi i primi strati di terreno. Ma insomma: ho volti in cuore di persone conosciute a Sarajevo come a Banja Luka, a Mostar come a Bihać, persone che non dimentico.

D. Quali difficoltà hai incontrato nell’imparare il bosniaco? Ma poi, in definitiva, possiamo parlare davvero di una lingua bosniaca o semplicemente dovremmo parlare di una sorta di “interpretazione” bosniaca della lingua serbo-croata, in una regione in cui il nazionalismo ottuso e aggressivo sta recuperando arcaismi e introducendo neologismi talvolta ridicoli solo per differenziare tra loro lingue che in realtà sono una cosa sola?
R. Non l'ho imparato come avrei voluto, per pigrizia (tipicamente italica, questa, per le lingue straniere) e per frenesia di vita nei cinque anni di Sarajevo. Potrebbe risponderti molto meglio di me Danilo Capasso, docente di Italiano presso l'Ateneo di Banja Luka. Certo, una lingua “bosniaca” autonoma non esiste, come non esiste il serbo-croato: ma tutte e tre sono varianti regionali di un'unico ceppo, varianti riconoscibili e che peraltro non corrispondono ai confini “etnici” delle nuove entità. Certo, il nazionalismo si serve anche delle fratture linguistiche per separare le nazioni: per fondare nuove mitologie, prima passano i cannoni e poi i linguisti (i più lungimiranti tra questi anticipano e armano i cannoni: l'Accademia delle Scienze di Belgrado negli anni Ottanta, e certi intellettuali musulmani o cattolici, uguali nella follia). A benedire il tutto ecco i pope i preti gli imam: gesto più violento di un uomo di fede che benedice le armi dei “suoi” non riesco a immaginarlo (anche i nostri cappellani militari...).

D. Credi che avere imparato il bosniaco abbia cambiato in qualche modo, in te che già avevi nel francese una seconda lingua d’adozione, il tuo modo di scrivere e di fare poesia?
R. La mia conoscenza della lingua non è stata così approfondita da permettermi un contatto diretto con i testi degli scrittori bosniaci, soprattutto con i più complessi. Li ho letti in traduzione, e ne ho conosciuti e frequentati molti: ho ricordi incancellabili di Marko Vešović, Ferida Duraković, Senadin Musabegović (amico fraterno, di me molto più giovane, intellettuale di prim'ordine), Nikola Kovač (scomparso due anni fa, francesista e italianista, antifascista autentico). Ho conosciuto anche Abdullah Sidran: ricordo una serata – che organizzai con i miei collaboratori, il 27 giugno del 2006 – nel piccolo Kamerni Teatar di Sarajevo, con Moni Ovadia e Miki Trifunov a recitare parte dell'opera teatrale “A Zvornik il mio cuore ho lasciato” di Sidran, presente l'autore: questi nel dopo spettacolo disse ad alta voce uno dei suoi poemi, ed Ivana P., una studentessa di italiano di Banja Luka, ci guardò con gli occhi gonfi di emozione per quel piccolo e gigantesco poeta dalla voce insicura e potente come un antico cantore... Poi entrarono gli amici triestini della Maxmaber Orkestar con un “Bella ciao” in versione klezmer, e tutte e tutti cantammo. C'erano anche Ivana Varunek e Nadira Šehović, a tradurre dalle e nelle due lingue, Silvio Ferrari (traduttore, con Nadira, di tutto Sidran), l'editore Piero Del Giudice, c'era Beba che, a Milano anni prima, aveva collaborato con Moni Ovadia, c'erano l'Ambasciatore italiano Alessandro Fallavollita, uomo di cultura squisita, e sua moglie Fusun, di Izmir/Smirne, con il suo “teatro delle ombre”... Ecco la lingua che ho imparato: quella degli affetti profondi, della materia cruda dell'arte. In questo senso anche ciò che ho scritto negli ultimi anni è diventato altro: più responsabile, più denso di terra, meno utopistico e più messianico.

D. Nel libro un ampio capitolo è dedicato alla figura di Luigi Bonalumi. Vuoi parlarci di quest’uomo?
R. Di Luigi ricorre il quinto anniversario della morte: nel testo, che ho lasciato volutamente ibrido (una serie di note e appunti, e poi la lunga poesia “Luigi, Sarajevo”), non vi è celebrazione ma solo un impegno preso con questa figura di artista e di intellettuale a noi così cara: un impegno a continuare nel suo nome. A Luigi traduttore, “interprete”, mediatore tra due mondi (Italia e Francia) si devono, tra l'altro, la traduzione in francese di Gadda, Primo Levi, Anna Maria Ortese, Carlo Coccioli, e tanti altri; è stato segretario di Jean Cocteau, pittore, uomo dal multiforme ingegno: giacciono inediti, non so più dove e c'è da graffiarsi le guance dalla rabbia, un suo saggio sulla lingua degli etruschi (impressionante per profondità e intuizioni), uno scritto sulla percezione nelle arti visive, e l' “Inferno” con parti del “Purgatorio” di Dante genialmente tradotti in francese. Giacimenti: ma l'oro che ci ha lasciato – parlo del gruppo dei suoi amici più stretti, Fiorella e Francesco Improta, Enzo Barnabà... – è l'inestimabile gentilezza che emana dalle sue parole e dai suoi gesti, dalle sue riflessioni e dai suoi disegni, dalle sue battute impertinenti e dal rigore, anch'esso impertinente, del suo pensiero. Non toccato dai ripetuti “tradimenti dei chierici” cui ormai siamo assuefatti, nel suo corpo portava il senso del Novecento, e i luoghi (Monaco, Parigi, la Budapest di sua moglie...). L'ufficialità della cultura italiana lo ha ignorato in vita – in Francia un qualche maggior rispetto gli veniva portato – e lo sta disprezzando in morte, ignorandolo.

D. Colpisce assai il titolo della postfazione al tuo volume: “Incapace di vendetta”. È un titolo che spiazza e lascia senza fiato, perché viviamo in un mondo che, politicamente e televisivamente, si nutre coscientemente e voracemente di vendetta. Come può, oggi, un uomo essere privo di vendetta? Che cosa vuol dire?
R. La parola “vendetta” va intesa in senso arcaico (e dantesco) come “giustizia”, oppure come veniva utilizzata nella canzone politica socialista, comunista e anarchica (“noi la farem vendetta” di “Figli dell'officina”, canto degli Arditi del Popolo, 1921, e titolo di un bel romanzo di Paolo Nori, del 2007): è quindi termine positivo. Essere “incapace di vendetta” vuol dire non aver la forza erotica di mutare il corso delle cose, di rimettere il mondo a testa in su, o sui suoi cardini. Mi trovavo a Sarajevo in questa condizione, ancor più drammatica perché le ferite della guerra erano aperte, e lo sono ancora: una guerra, quella che ha devastato i Balcani occidentali, condotta contro i civili con un accanimento e una brutalità che, in Europa, non vedevamo da tempo. Il fascismo militarista dei serbo-bosniaci, spalleggiato da fior di intellettuali passati rapidamente da Marx a Goebbels, trovò sponda adeguata in quello dei militari e paramilitari cattolici croati e di certe milizie musulmane (come racconta anche Jovan Divjak nel suo “Sarajevo, non amour”). Uno dei più chiari criminali di questa guerra, Šešelj, insegnava marxismo-leninismo all'Università di Sarajevo, per diventare rapidamente uno dei più violenti nazionalisti pan-serbi. Questo mondo di mostri riposava (e, in fondo, riposa) indisturbato nel letto preparato dall'Europa di allora, pavida nei suoi leader e oggettivamente alleata degli aggressori. Cos'è un atto morale? Eliminare il male quand'esso assuma forme limpide e non vi siano altre vie. Non farlo significa mettere la propria firma in calce agli ordini di fucilazione o di cecchinaggio: questo ho capito d'esser diventato, un complice, e l'ho capito a Sarajevo. Ma anche tornato in Italia, l'incapacità di produrre vendetta/giustizia mi perseguita: e firmo, firmo ogni giorno atti innominabili! Altro atto morale sarebbe interrompere la catena di queste firme: ogni giorno se ne presenta la possibilità, ogni giorno lo evitiamo, lo evito.

D. La tua poesia ha salde radici fortiniane. Chi altro pensi, tra i poeti, che ti ispiri e in qualche modo guidi le tue rime?
R. Il mio canone novecentesco (lasciamo gli esempi antichi, e padre Dante...) vede diverse linee convergere: una è quella che va da Rebora a Fortini, appunto, espressionismo da favola, forme a volte aperte e a volte chiuse, con echi di Brecht (le traduzioni fortiniane di Brecht sono grandiose); a due poeti sono particolarmente legato, Antonio Porta (che sento vicinissimo in tutto l'arco della sua produzione: il cui cattolicesimo estremistico si esprime in versi che reputo tra i più importanti di tutto il secolo scorso) e Vittorio Sereni (soprattutto “Gli strumenti umani” e, in quest'opera del 1965, il poemetto “Una visita in fabbrica”); poi Patrizia Valduga (le sue quartine di endecasillabi mi lasciano a bocca aperta per tecnica e profondità). Ma non so quanto tutte e tutti questi siano entrati nei miei versi. Negli ultimi tempi mi sento attratto da due modelli opposti: Paul Celan (scavo nella pietra, “svolta nel respiro”, inimitabili essenzialità, e gonfio vuoto di Auschwitz, infine l'urna della Senna ad accoglierne il corpo suicida) e Jack Hirschman (erede della tradizione beat, poesia sempre ad alta voce, eppure così intima, così politicamente intima, come nel canto funebre – kaddish – o per la morte di suo padre).

D. Sei tra i fondatori degli “Incontri internazionali di poesia di Sarajevo”. Qual è la loro genesi e quale la loro importanza?
R. Aver conosciuto Jack è un altro regalo di Sarajevo, e degli amici della “Casa della Poesia” di Baronissi (in provincia di Salerno) con i quali abbiamo creato gli “Incontri internazionali di poesia” che ogni anno a fine settembre si tengono nella capitale bosniaca. Nel maggio del 2002 ero appena sbarcato a Sarajevo quando uno dei maggiori poeti della città e che già avevo avuto modo di conoscere, Izet Kiko Sarajlić, morì in seguito a una crisi cardiaca. Poeta e resistente, comunista, innovatore della poesia jugoslava in cui immise i toni della prosaicità e della malinconia (la pioggia, “la sottile pioggia di Sarajevo”, che cade senza sosta...), egli era molto legato all'Italia e a Salerno, in particolare, anche grazie a un'antica frequentazione con Alfonso Gatto. In poco tempo nacque l'idea di onorarne la memoria con un festival, da tenere ogni anno a cui far partecipare i più importanti poeti del momento: onorare, in Sarajlić, la città che egli porta nel suo nome, e onorare la pace ritrovata, propagandare l'odio per le guerre e per le ingiustizie, far uscire da Sarajevo alto il canto della rinascita. Gli amici di Salerno, Raffaella Marzano e Sergio Iagulli, e l'Ambasciata d'Italia in Bosnia Erzegovina – devo dire: mai nessun condizionamento politico mi è venuto dalle istituzioni – permisero il miracolo, che ancora continua: nel settembre 2009 siamo alla Ottava edizione... Hanno letto i loro versi per e con Sarajlić, tra gli altri, Carmen Yanez, Giancarlo Majorino, Serge Pey, Senadin Musabegović, i compianti Ante Zemljar e Ken Smith, e ancora Tony Harrison, Jack Hirschman, Agneta Falk, Vojo Šindolić, Giuseppe Conte, Marko Vešović, Biancamaria Frabotta, Janine Pommy Vega, Josip Osti, Sinan Gudžević – questi ultimi due, presenze costanti, anime del Festival... E poi le fotografie di Mario Boccia, i film di Paul Polansky (un documentario sulla situazione dei rom in Kosovo...), e riflessioni sull'arte con Artaud, Neruda, Pasolini, le pellicole di Vesna Ljubić presentati dalla stessa regista e da Nihad Čengić... Ogni tanto qualcosa di buono accade, fuori dalla monotonia degli “eventi culturali” e dal circuito della mercificazione dell'arte.

D. Che cosa ha rappresentato e rappresenta per il popolo bosniaco la poesia?
R. Non so come risponderti: anche qui le mie conoscenze sono piuttosto limitate a quanto ho potuto vedere e ascoltare durante la mia permanenza in Bosnia Erzegovina. C'è sete di avvenimenti, di incontri, di “luoghi comuni”: gli antichi cantori (aedi e rapsodi: in fondo siamo in area odissiaca...) e il ruolo svolto dalla poesia e dalla letteratura nell'epoca arcaica, poi ottomana, asburgica e infine titoista, hanno fatto di questo popolo, e di tutte le genti dei Balcani occidentali, un popolo amante della parola detta o cantata, per le strade, da un palco o in un'accademia. Il rispetto che i passanti hanno per chi recita e suona in strada ha del commovente: giovani e meno giovani “ringraziano” con l'offerta di una bottiglia (d'acqua, di coca-cola...) chi suona o dice testi o fa spettacolo in senso lato. Ne sanno qualcosa gli amici fraterni di Zeroteatro – con i quali abbiamo ristrutturato il Kino Teatar Prvi Maj (Cinema Teatro Primo Maggio), luogo di sogni e di costruzioni, abitato dalla gente migliore che abbia conosciuto in questi ultimi anni, e forse in assoluto – e quelli della Maxmaber orkestar. Al tempo stesso c'è una grande delusione, c'è spossatezza, c'è rinuncia: tutto costa, caro, carissimo, un libro, un giornale... Pochi leggono, molti lo ritengono un lusso assurdo, dopo la cultura pressoché gratuita diffusa nei decenni del secondo dopoguerra. La poesia è nelle vene di queste genti: ne sono testimonianza l'amore di popolo verso uno dei suoi cantori, quel Sidran sopra citato, e la generale attrazione per l'inutilità dell'arte, anche tra i giovanissimi. Le urgenze sembrano però altre: la domanda heideggeriana/holderliniana “a che i poeti in tempo di carenza?” qui assume il suo vero volto, carenza come assenza delle voci divine, ma soprattutto come privazione, stanchezza dei corpi, prigionia in uno Stato in cui si soffoca e da cui, per il regime dei visti, è difficilissimo uscire.

D. Gianluca, secondo te la Bosnia è destinata a essere finalmente pacificata e a restare unita o qualcos’altro accadrà?
R. I popoli, tutti i popoli della Bosnia Erzegovina, come non hanno meritato la guerra, così non meritano questo osceno dopoguerra. Ma sul futuro del Paese, pochi scommettono. Ci sarà la Bosnia Erzegovina tre dieci, venti, trent'anni? Molti, e tra i più lucidi, temono di no. Forse perché il Paese verrà integrato in una struttura prima economica e poi statuale più vasta (ma l'Unione Europea è ancora lontana...), o forse perché qualche tensione ancora nascerà: non una guerra, ma allontanamenti progressivi delle entità, i serbi verso Belgrado (che in fondo non li vuole...), i croati verso Zagabria (che in fondo non li vuole...), e una mini-Bosnia come staterello musulmano nel cuore dei Balcani, nel cuore dell'Europa. In ogni caso l'Europa non deve distrarsi: lo ha già fatto una volta, e tutti i popoli jugoslavi, anche per le irrisolte frizioni interne, l'hanno pagata cara!

D. La guerra è stata per la Bosnia ed è in termini assoluti qualcosa di ineluttabile o invece di profondamente legato ai capricci di pochi? Cos’è, per te, ineluttabile e che cosa ti ha insegnato la Bosnia rispetto a questo termine così forte e incontrovertibile, definitivo, spaventoso?
R. “La guerre n'est qu'une boucherie”, la guerra non è che un macello, diceva una canzone antimilitarista francese: questo abbiamo rivisto nei Balcani occidentali, guerra dall'alto o di trincea, identificazione “etnica”, stupri di guerra, deportazioni di massa, massacri ignobili (Srebrenica, ma non solo), mutilazioni, fosse comuni, campi di concentramento... Ma giustamente tu introduci il termine di “ineluttabilità”: vi sono meccanismi, economici/politici/religiosi, che crescono, saldano tra loro genti che non sapevano di essere “uguali” e che vengono scagliate contro chi non si pensava fosse “diverso”, uniforme contro uniforme; se questo si innesta in una crisi economica gravissima (quella della decomposizione della Jugoslavia socialista) non può che produrre, ineluttabilmente, guerra e odio, saccheggio e offesa permanente, desiderio d'annientare chi, si pensa, sta per farlo nei tuoi confronti. Il ruolo dei “chierici”, qui, è delicatissimo: giornalisti, fabbricanti d'opinioni, scrittori, accademici, possono “decidere” cosa accadrà, e spingere uomini e donne in crisi verso una soluzione di conciliazione, cioè di conflitto governato, o di scontro frontale. Quando quest'ultimo si è scatenato, non si torna indietro. Dentro questo conflitto poi si apre un'altra crisi: come fermare la follia bellica? Solo con le armi della non-violenza o con interventi armati? Il tema della giusta violenza, cioè (torniamo a quanto detto sopra) della “vendetta”, si impone: occorre ragionare su chi debba muoversi, e se chi ha contribuito all'accensione delle polveri possa anche essere colui che le spegne (può l'untore coincidere con il medico chiamato a sanare la peste?...). Nel mondo triste e inquieto in cui siamo, dominato dalle guerre economiche/ecologiche, e da quelle guerreggiate con metodi tradizionali, non possiamo scegliere la non violenza assoluta: è il dubbio dell'ultimo Langer, pochi mesi prima del suicidio, è il dubbio che ci portiamo dietro tutti. Per non essere ipocriti e poi solidali con le “vittime” (che ci piacciono tanto, fin quando non si ribellano, perché possiamo coccolarcele), occorre dare a queste ultime la possibilità di trasformarsi in combattenti – seguo un bel ragionamento di Emanuel Terray. Spagna 1936, ghetto di Varsavia, la Resistenza valgono ancora oggi, in situazioni analoghe (e Sarajevo penso ancora che lo fosse), come modello. Su questo insiste Francis Bueb, caro amico che a Sarajevo nel 1992 ha fondato su questo nesso il centro culturale “André Malraux”. Le canagliate di Bush in Iraq e di Putin in Cecenia sono altra cosa: sono violenza ingiusta e infinita, contro i popoli e contro la nostra civiltà.

Erose forze d’eros: quando la volgarità umana consuma persino la roccia

Gianluca Paciucci è uno dei più grandi e sensibili intellettuali italiani viventi. In quanto tale, in Italia è quasi sconosciuto al grande pubblico. Accade ai grandi. Accade, in questo “Paese”, ai “diversi”, a quelli che non si adeguano alla “cultura” dominante. Differente magari sarebbe se partecipasse a trasmissioni della tv spazzatura pubblica e privata. Ma la televisione è interessata solo ai finti intellettuali urlatori, alla gente più da stadio che da studio.

Poeta vibrante ed evocativo, saggista solido e colto, autore di graffianti articoli di giornale, perfettamente bilingue (italiano e francese, quasi trilingue se non si schernisse quando gli viene fatto notare l’alto livello del suo serbo-croato) Paciucci ha firmato per Infinito edizioni lo splendido “Erose forze d’eros”, raccolta di versi concepiti e nati a Sarajevo, in uno dei cuori della multiforme e ferita Europa: di questa ferita la sua poesia porta il segno della spossatezza (che è l'esatto contrario della rassegnazione). Versi marrani, quelli di Paciucci, che popolano l'attesa, la formano, la tengono desta per quando il momento verrà; e versi liberi, tecnicamente, o costretti nell'endecasillabo, in sonetti e quartine: in ogni caso forme che premono da dentro il foglio e da dentro la gola, prive d'immaterialità. Sono fortiniane “poesie ad alta voce”, e solo a tratti sopportano la lettura silenziosa. In attesa del momento in cui "la verità abbandonerà il campo dei vincitori" (Simone Weil), questi versi si aprono alla forza di tutti coloro che “la vittoria contestano e cercano di sabotare”.

Del libro e della sua potente poetica ho parlato nell’intervista che segue con Gianluca Paciucci. La Bosnia, la guerra, la crudeltà umana e la resistenza, la poesia, e ancora Rieti e Nizza sono al centro di questa appassionante conversazione.

D. Gianluca, partiamo dal titolo: perché “Erose forze d’eros” e, secondo te, che cosa dà questa forza evocativa al titolo del tuo libro?
R. Il titolo parla di una devastazione in corso, non di un “declino” o di una “catastrofe” (termine peraltro a me caro, quest'ultimo, nell'uso di Walter Benjamin), ma di uno scavo lentissimo: la roccia-eros viene consumata dalla violenta volgarità di vènti e acque convogliati da perverse divinità. Nel titolo vi sono una finta figura etimologica, allitterazioni e un'assonanza tonica a tenere insieme le parole: le forze scavate della roccia-eros, pur avvizzite e smunte, vengono sorrette dalla potenza della parola poetica: sorrette, sostenute, come da reti che trattengono pareti a strapiombo su strade. E conservate/preservate, infine, ad allestire l'attesa dell'interruzione messianica. Qui introduco il tema del “marrano” nell'interpretazione che ne dà il filosofo francese Daniel Bensaïd in “La patience du marrane”, un saggio del 2001: come quegli ebrei formalmente convertitisi al cattolicesimo, dopo la “reconquista” cattolica della Spagna, ma che in realtà “giudaizzavano” in segreto, oggi il marrano è chi finge d'aver ceduto al presente e ne accoglie le apparenze, pur nascostamente lavorando alla costruzione di un altro mondo...

D. Il tuo lavoro, maturo e appassionante, nasce a Sarajevo e si sviluppa tra la capitale bosniaca, Rieti e Finale Ligure. Quali influenze hanno avuto e hanno su di te queste tre città e quale importanza riveste per il tuo completamento d’uomo e poeta il lungo periodo di lavoro e di studio trascorso in Bosnia Erzegovina?
R. Finale Ligure è un luogo ancora sconosciuto, per me, mentre Rieti è l'origine (“sangui dell'origine sabina”), è il luogo di partenza e di ritorni incessanti, è l' “umbilicus Italiae”, il luogo in cui, come ormai ovunque nel nostro Paese, la Piazza e il Palazzo hanno stretto accordi e sviluppato complicità: il Palazzo protegge e utilizza la Piazza (ogni singolo componente della Piazza, guardato negli occhi dal sindaco nelle dirette in tv locali), meschini e avviliti entrambi, con la cultura ridotta a “intrattenimento” o movida, senza più carica sentimentale e politica, e con le Banche (che prestavano soldi alla banda della Magliana e ad altri uomini illustri) a dominare. Provammo a spezzarne le trame, trenta, venticinque anni fa, e ne fummo spezzati: con sgarbo, soprattutto dai “nostri”... Qualcuno andò via subito, altri aspettarono anni, altri si sono “marranizzati”...
Luogo d'elezione è invece Sarajevo, e la Bosnia Erzegovina tutta intera con tutte le sue contraddizioni lancinanti (guerra e dopoguerra – ancora in corso, estenuante), ma anche con vicende umane e ricchezze impensabili: offese ai corpi e sensualità, lucidità e fanatismi, miserie e strati di coraggio a costruire un futuro imprevedibile – tutto questo è la Bosnia Erzegovina, piantata nel cuore dei Balcani ovvero nel cuore dell'Europa. A Sarajevo ho capito la storia del Novecento, quale significato abbia la parola “colpa”, quale fine abbia fatto il volontarismo politico e perché sia forse possibile intravvedere l'inizio di qualcosa che prima o poi verrà/avverrà. Qualcosa di decisivo per tutte e tutti noi, anche qui da noi. Infine c'è Nizza, ad incantare, la Nizza di Jean Vigo, e non quella ipermoderna mafiosa e fascistizzata, sotto la cappa del sole ingannatore; la Nizza dei giardini degli affetti, e dei sentieri che salgono allontanandosi dal mare, di cui canterò più a lungo in altra occasione.

D. Sapresti descrivere che cosa hanno lasciato in te, e che cosa ti hanno portato o strappato via, la Bosnia e i bosniaci?
R. Solo un lungo, grande vuoto, mi hanno lasciato, avendoli io lasciati tre anni fa, dopo cinque anni di permanenza per ragioni di lavoro. Un vuoto di cui mi vergogno e che non riesco a colmare con i surrogati della posta elettronica. E il ricordo di una fisicità che l'igienismo e l'asetticità brutale delle città dell'Unione europea hanno bandito dalle piazze e da ogni luogo pubblico, per riproporla come corpi in vendita. In Bosnia Erzegovina vi sono ancora tracce di una vita non del tutto inquinata dai rapporti mercantili: vi domina il denaro, come ovunque (siamo spacciati, in questo senso, e minacciati dall'invasività di questo dio), ma c'è anche il sogno del dono, appena smossi i primi strati di terreno. Ma insomma: ho volti in cuore di persone conosciute a Sarajevo come a Banja Luka, a Mostar come a Bihać, persone che non dimentico.

D. Quali difficoltà hai incontrato nell’imparare il bosniaco? Ma poi, in definitiva, possiamo parlare davvero di una lingua bosniaca o semplicemente dovremmo parlare di una sorta di “interpretazione” bosniaca della lingua serbo-croata, in una regione in cui il nazionalismo ottuso e aggressivo sta recuperando arcaismi e introducendo neologismi talvolta ridicoli solo per differenziare tra loro lingue che in realtà sono una cosa sola?
R. Non l'ho imparato come avrei voluto, per pigrizia (tipicamente italica, questa, per le lingue straniere) e per frenesia di vita nei cinque anni di Sarajevo. Potrebbe risponderti molto meglio di me Danilo Capasso, docente di Italiano presso l'Ateneo di Banja Luka. Certo, una lingua “bosniaca” autonoma non esiste, come non esiste il serbo-croato: ma tutte e tre sono varianti regionali di un'unico ceppo, varianti riconoscibili e che peraltro non corrispondono ai confini “etnici” delle nuove entità. Certo, il nazionalismo si serve anche delle fratture linguistiche per separare le nazioni: per fondare nuove mitologie, prima passano i cannoni e poi i linguisti (i più lungimiranti tra questi anticipano e armano i cannoni: l'Accademia delle Scienze di Belgrado negli anni Ottanta, e certi intellettuali musulmani o cattolici, uguali nella follia). A benedire il tutto ecco i pope i preti gli imam: gesto più violento di un uomo di fede che benedice le armi dei “suoi” non riesco a immaginarlo (anche i nostri cappellani militari...).

D. Credi che avere imparato il bosniaco abbia cambiato in qualche modo, in te che già avevi nel francese una seconda lingua d’adozione, il tuo modo di scrivere e di fare poesia?
R. La mia conoscenza della lingua non è stata così approfondita da permettermi un contatto diretto con i testi degli scrittori bosniaci, soprattutto con i più complessi. Li ho letti in traduzione, e ne ho conosciuti e frequentati molti: ho ricordi incancellabili di Marko Vešović, Ferida Duraković, Senadin Musabegović (amico fraterno, di me molto più giovane, intellettuale di prim'ordine), Nikola Kovač (scomparso due anni fa, francesista e italianista, antifascista autentico). Ho conosciuto anche Abdullah Sidran: ricordo una serata – che organizzai con i miei collaboratori, il 27 giugno del 2006 – nel piccolo Kamerni Teatar di Sarajevo, con Moni Ovadia e Miki Trifunov a recitare parte dell'opera teatrale “A Zvornik il mio cuore ho lasciato” di Sidran, presente l'autore: questi nel dopo spettacolo disse ad alta voce uno dei suoi poemi, ed Ivana P., una studentessa di italiano di Banja Luka, ci guardò con gli occhi gonfi di emozione per quel piccolo e gigantesco poeta dalla voce insicura e potente come un antico cantore... Poi entrarono gli amici triestini della Maxmaber Orkestar con un “Bella ciao” in versione klezmer, e tutte e tutti cantammo. C'erano anche Ivana Varunek e Nadira Šehović, a tradurre dalle e nelle due lingue, Silvio Ferrari (traduttore, con Nadira, di tutto Sidran), l'editore Piero Del Giudice, c'era Beba che, a Milano anni prima, aveva collaborato con Moni Ovadia, c'erano l'Ambasciatore italiano Alessandro Fallavollita, uomo di cultura squisita, e sua moglie Fusun, di Izmir/Smirne, con il suo “teatro delle ombre”... Ecco la lingua che ho imparato: quella degli affetti profondi, della materia cruda dell'arte. In questo senso anche ciò che ho scritto negli ultimi anni è diventato altro: più responsabile, più denso di terra, meno utopistico e più messianico.

D. Nel libro un ampio capitolo è dedicato alla figura di Luigi Bonalumi. Vuoi parlarci di quest’uomo?
R. Di Luigi ricorre il quinto anniversario della morte: nel testo, che ho lasciato volutamente ibrido (una serie di note e appunti, e poi la lunga poesia “Luigi, Sarajevo”), non vi è celebrazione ma solo un impegno preso con questa figura di artista e di intellettuale a noi così cara: un impegno a continuare nel suo nome. A Luigi traduttore, “interprete”, mediatore tra due mondi (Italia e Francia) si devono, tra l'altro, la traduzione in francese di Gadda, Primo Levi, Anna Maria Ortese, Carlo Coccioli, e tanti altri; è stato segretario di Jean Cocteau, pittore, uomo dal multiforme ingegno: giacciono inediti, non so più dove e c'è da graffiarsi le guance dalla rabbia, un suo saggio sulla lingua degli etruschi (impressionante per profondità e intuizioni), uno scritto sulla percezione nelle arti visive, e l' “Inferno” con parti del “Purgatorio” di Dante genialmente tradotti in francese. Giacimenti: ma l'oro che ci ha lasciato – parlo del gruppo dei suoi amici più stretti, Fiorella e Francesco Improta, Enzo Barnabà... – è l'inestimabile gentilezza che emana dalle sue parole e dai suoi gesti, dalle sue riflessioni e dai suoi disegni, dalle sue battute impertinenti e dal rigore, anch'esso impertinente, del suo pensiero. Non toccato dai ripetuti “tradimenti dei chierici” cui ormai siamo assuefatti, nel suo corpo portava il senso del Novecento, e i luoghi (Monaco, Parigi, la Budapest di sua moglie...). L'ufficialità della cultura italiana lo ha ignorato in vita – in Francia un qualche maggior rispetto gli veniva portato – e lo sta disprezzando in morte, ignorandolo.

D. Colpisce assai il titolo della postfazione al tuo volume: “Incapace di vendetta”. È un titolo che spiazza e lascia senza fiato, perché viviamo in un mondo che, politicamente e televisivamente, si nutre coscientemente e voracemente di vendetta. Come può, oggi, un uomo essere privo di vendetta? Che cosa vuol dire?
R. La parola “vendetta” va intesa in senso arcaico (e dantesco) come “giustizia”, oppure come veniva utilizzata nella canzone politica socialista, comunista e anarchica (“noi la farem vendetta” di “Figli dell'officina”, canto degli Arditi del Popolo, 1921, e titolo di un bel romanzo di Paolo Nori, del 2007): è quindi termine positivo. Essere “incapace di vendetta” vuol dire non aver la forza erotica di mutare il corso delle cose, di rimettere il mondo a testa in su, o sui suoi cardini. Mi trovavo a Sarajevo in questa condizione, ancor più drammatica perché le ferite della guerra erano aperte, e lo sono ancora: una guerra, quella che ha devastato i Balcani occidentali, condotta contro i civili con un accanimento e una brutalità che, in Europa, non vedevamo da tempo. Il fascismo militarista dei serbo-bosniaci, spalleggiato da fior di intellettuali passati rapidamente da Marx a Goebbels, trovò sponda adeguata in quello dei militari e paramilitari cattolici croati e di certe milizie musulmane (come racconta anche Jovan Divjak nel suo “Sarajevo, non amour”). Uno dei più chiari criminali di questa guerra, Šešelj, insegnava marxismo-leninismo all'Università di Sarajevo, per diventare rapidamente uno dei più violenti nazionalisti pan-serbi. Questo mondo di mostri riposava (e, in fondo, riposa) indisturbato nel letto preparato dall'Europa di allora, pavida nei suoi leader e oggettivamente alleata degli aggressori. Cos'è un atto morale? Eliminare il male quand'esso assuma forme limpide e non vi siano altre vie. Non farlo significa mettere la propria firma in calce agli ordini di fucilazione o di cecchinaggio: questo ho capito d'esser diventato, un complice, e l'ho capito a Sarajevo. Ma anche tornato in Italia, l'incapacità di produrre vendetta/giustizia mi perseguita: e firmo, firmo ogni giorno atti innominabili! Altro atto morale sarebbe interrompere la catena di queste firme: ogni giorno se ne presenta la possibilità, ogni giorno lo evitiamo, lo evito.

D. La tua poesia ha salde radici fortiniane. Chi altro pensi, tra i poeti, che ti ispiri e in qualche modo guidi le tue rime?
R. Il mio canone novecentesco (lasciamo gli esempi antichi, e padre Dante...) vede diverse linee convergere: una è quella che va da Rebora a Fortini, appunto, espressionismo da favola, forme a volte aperte e a volte chiuse, con echi di Brecht (le traduzioni fortiniane di Brecht sono grandiose); a due poeti sono particolarmente legato, Antonio Porta (che sento vicinissimo in tutto l'arco della sua produzione: il cui cattolicesimo estremistico si esprime in versi che reputo tra i più importanti di tutto il secolo scorso) e Vittorio Sereni (soprattutto “Gli strumenti umani” e, in quest'opera del 1965, il poemetto “Una visita in fabbrica”); poi Patrizia Valduga (le sue quartine di endecasillabi mi lasciano a bocca aperta per tecnica e profondità). Ma non so quanto tutte e tutti questi siano entrati nei miei versi. Negli ultimi tempi mi sento attratto da due modelli opposti: Paul Celan (scavo nella pietra, “svolta nel respiro”, inimitabili essenzialità, e gonfio vuoto di Auschwitz, infine l'urna della Senna ad accoglierne il corpo suicida) e Jack Hirschman (erede della tradizione beat, poesia sempre ad alta voce, eppure così intima, così politicamente intima, come nel canto funebre – kaddish – o per la morte di suo padre).

D. Sei tra i fondatori degli “Incontri internazionali di poesia di Sarajevo”. Qual è la loro genesi e quale la loro importanza?
R. Aver conosciuto Jack è un altro regalo di Sarajevo, e degli amici della “Casa della Poesia” di Baronissi (in provincia di Salerno) con i quali abbiamo creato gli “Incontri internazionali di poesia” che ogni anno a fine settembre si tengono nella capitale bosniaca. Nel maggio del 2002 ero appena sbarcato a Sarajevo quando uno dei maggiori poeti della città e che già avevo avuto modo di conoscere, Izet Kiko Sarajlić, morì in seguito a una crisi cardiaca. Poeta e resistente, comunista, innovatore della poesia jugoslava in cui immise i toni della prosaicità e della malinconia (la pioggia, “la sottile pioggia di Sarajevo”, che cade senza sosta...), egli era molto legato all'Italia e a Salerno, in particolare, anche grazie a un'antica frequentazione con Alfonso Gatto. In poco tempo nacque l'idea di onorarne la memoria con un festival, da tenere ogni anno a cui far partecipare i più importanti poeti del momento: onorare, in Sarajlić, la città che egli porta nel suo nome, e onorare la pace ritrovata, propagandare l'odio per le guerre e per le ingiustizie, far uscire da Sarajevo alto il canto della rinascita. Gli amici di Salerno, Raffaella Marzano e Sergio Iagulli, e l'Ambasciata d'Italia in Bosnia Erzegovina – devo dire: mai nessun condizionamento politico mi è venuto dalle istituzioni – permisero il miracolo, che ancora continua: nel settembre 2009 siamo alla Ottava edizione... Hanno letto i loro versi per e con Sarajlić, tra gli altri, Carmen Yanez, Giancarlo Majorino, Serge Pey, Senadin Musabegović, i compianti Ante Zemljar e Ken Smith, e ancora Tony Harrison, Jack Hirschman, Agneta Falk, Vojo Šindolić, Giuseppe Conte, Marko Vešović, Biancamaria Frabotta, Janine Pommy Vega, Josip Osti, Sinan Gudžević – questi ultimi due, presenze costanti, anime del Festival... E poi le fotografie di Mario Boccia, i film di Paul Polansky (un documentario sulla situazione dei rom in Kosovo...), e riflessioni sull'arte con Artaud, Neruda, Pasolini, le pellicole di Vesna Ljubić presentati dalla stessa regista e da Nihad Čengić... Ogni tanto qualcosa di buono accade, fuori dalla monotonia degli “eventi culturali” e dal circuito della mercificazione dell'arte.

D. Che cosa ha rappresentato e rappresenta per il popolo bosniaco la poesia?
R. Non so come risponderti: anche qui le mie conoscenze sono piuttosto limitate a quanto ho potuto vedere e ascoltare durante la mia permanenza in Bosnia Erzegovina. C'è sete di avvenimenti, di incontri, di “luoghi comuni”: gli antichi cantori (aedi e rapsodi: in fondo siamo in area odissiaca...) e il ruolo svolto dalla poesia e dalla letteratura nell'epoca arcaica, poi ottomana, asburgica e infine titoista, hanno fatto di questo popolo, e di tutte le genti dei Balcani occidentali, un popolo amante della parola detta o cantata, per le strade, da un palco o in un'accademia. Il rispetto che i passanti hanno per chi recita e suona in strada ha del commovente: giovani e meno giovani “ringraziano” con l'offerta di una bottiglia (d'acqua, di coca-cola...) chi suona o dice testi o fa spettacolo in senso lato. Ne sanno qualcosa gli amici fraterni di Zeroteatro – con i quali abbiamo ristrutturato il Kino Teatar Prvi Maj (Cinema Teatro Primo Maggio), luogo di sogni e di costruzioni, abitato dalla gente migliore che abbia conosciuto in questi ultimi anni, e forse in assoluto – e quelli della Maxmaber orkestar. Al tempo stesso c'è una grande delusione, c'è spossatezza, c'è rinuncia: tutto costa, caro, carissimo, un libro, un giornale... Pochi leggono, molti lo ritengono un lusso assurdo, dopo la cultura pressoché gratuita diffusa nei decenni del secondo dopoguerra. La poesia è nelle vene di queste genti: ne sono testimonianza l'amore di popolo verso uno dei suoi cantori, quel Sidran sopra citato, e la generale attrazione per l'inutilità dell'arte, anche tra i giovanissimi. Le urgenze sembrano però altre: la domanda heideggeriana/holderliniana “a che i poeti in tempo di carenza?” qui assume il suo vero volto, carenza come assenza delle voci divine, ma soprattutto come privazione, stanchezza dei corpi, prigionia in uno Stato in cui si soffoca e da cui, per il regime dei visti, è difficilissimo uscire.

D. Gianluca, secondo te la Bosnia è destinata a essere finalmente pacificata e a restare unita o qualcos’altro accadrà?
R. I popoli, tutti i popoli della Bosnia Erzegovina, come non hanno meritato la guerra, così non meritano questo osceno dopoguerra. Ma sul futuro del Paese, pochi scommettono. Ci sarà la Bosnia Erzegovina tre dieci, venti, trent'anni? Molti, e tra i più lucidi, temono di no. Forse perché il Paese verrà integrato in una struttura prima economica e poi statuale più vasta (ma l'Unione Europea è ancora lontana...), o forse perché qualche tensione ancora nascerà: non una guerra, ma allontanamenti progressivi delle entità, i serbi verso Belgrado (che in fondo non li vuole...), i croati verso Zagabria (che in fondo non li vuole...), e una mini-Bosnia come staterello musulmano nel cuore dei Balcani, nel cuore dell'Europa. In ogni caso l'Europa non deve distrarsi: lo ha già fatto una volta, e tutti i popoli jugoslavi, anche per le irrisolte frizioni interne, l'hanno pagata cara!

D. La guerra è stata per la Bosnia ed è in termini assoluti qualcosa di ineluttabile o invece di profondamente legato ai capricci di pochi? Cos’è, per te, ineluttabile e che cosa ti ha insegnato la Bosnia rispetto a questo termine così forte e incontrovertibile, definitivo, spaventoso?
R. “La guerre n'est qu'une boucherie”, la guerra non è che un macello, diceva una canzone antimilitarista francese: questo abbiamo rivisto nei Balcani occidentali, guerra dall'alto o di trincea, identificazione “etnica”, stupri di guerra, deportazioni di massa, massacri ignobili (Srebrenica, ma non solo), mutilazioni, fosse comuni, campi di concentramento... Ma giustamente tu introduci il termine di “ineluttabilità”: vi sono meccanismi, economici/politici/religiosi, che crescono, saldano tra loro genti che non sapevano di essere “uguali” e che vengono scagliate contro chi non si pensava fosse “diverso”, uniforme contro uniforme; se questo si innesta in una crisi economica gravissima (quella della decomposizione della Jugoslavia socialista) non può che produrre, ineluttabilmente, guerra e odio, saccheggio e offesa permanente, desiderio d'annientare chi, si pensa, sta per farlo nei tuoi confronti. Il ruolo dei “chierici”, qui, è delicatissimo: giornalisti, fabbricanti d'opinioni, scrittori, accademici, possono “decidere” cosa accadrà, e spingere uomini e donne in crisi verso una soluzione di conciliazione, cioè di conflitto governato, o di scontro frontale. Quando quest'ultimo si è scatenato, non si torna indietro. Dentro questo conflitto poi si apre un'altra crisi: come fermare la follia bellica? Solo con le armi della non-violenza o con interventi armati? Il tema della giusta violenza, cioè (torniamo a quanto detto sopra) della “vendetta”, si impone: occorre ragionare su chi debba muoversi, e se chi ha contribuito all'accensione delle polveri possa anche essere colui che le spegne (può l'untore coincidere con il medico chiamato a sanare la peste?...). Nel mondo triste e inquieto in cui siamo, dominato dalle guerre economiche/ecologiche, e da quelle guerreggiate con metodi tradizionali, non possiamo scegliere la non violenza assoluta: è il dubbio dell'ultimo Langer, pochi mesi prima del suicidio, è il dubbio che ci portiamo dietro tutti. Per non essere ipocriti e poi solidali con le “vittime” (che ci piacciono tanto, fin quando non si ribellano, perché possiamo coccolarcele), occorre dare a queste ultime la possibilità di trasformarsi in combattenti – seguo un bel ragionamento di Emanuel Terray. Spagna 1936, ghetto di Varsavia, la Resistenza valgono ancora oggi, in situazioni analoghe (e Sarajevo penso ancora che lo fosse), come modello. Su questo insiste Francis Bueb, caro amico che a Sarajevo nel 1992 ha fondato su questo nesso il centro culturale “André Malraux”. Le canagliate di Bush in Iraq e di Putin in Cecenia sono altra cosa: sono violenza ingiusta e infinita, contro i popoli e contro la nostra civiltà.

domenica 10 gennaio 2010

100 ottime ragioni per non amare Roma: una ragione in regalo ai miei lettori


In questi giorni di pioggia, con il Tevere che torna a minacciare esondazioni, nulla di meglio che regalare ai miei pochi ma sinceri lettori un capitolo (il 68esimo!) tratto dal mio nuovo libro 100 ottime ragioni per non amare Roma...e almeno due per adorarla alla follia, nelle migliori librerie d'Itala e Canton Ticino (oltre che sul web e sul portale della casa editrice Infinito edizioni) dalla prima metà di gennaio 2010.
Buona lettura e, spero di cuore, buon divertimento.

Pioggia

…Nel cielo, le bambine
ai fili luminosi della pioggia
si toccano i capelli, vanno sole
ridendo con le labbra screpolate…
(Alfonso Gatto, Inverno a Roma)


Canta quer caciarone de Venditti Antonello da Roma:
Sotto la pioggia batte forte il cuore
ma la pioggia non ci bagna
e due ragazzi con il loro amore
stan cercando una speranza
sotto la pioggia, stanno scaldando
quella colomba.

Colomba, piccione o merlo a parte, che qualcuno potrebbe anche scaldare in forno, la canzone il sommo menestrello deve averla scritta in vacanza ai Caraibi.
Perché a Roma la pioggia non solo ti bagna, Antone’: te fracica!
Dalla testa ai piedi. Nun ce sta scampo!
E la città va a rotoli. Anzi, a rapide!
Roma non è città acquatica, altrimenti l’avrebbero costruita sulle palafitte e si chiamerebbe Venezia.
È, all'opposto, metropoli “terrigna” in cui piove poco. Ma quando precipita…apriti cielo!
Basta mezza giornata di pioggia che le cantine mutano istantaneamente in voluminose cisterne e i garage in piscine a saracinesca per i tuffi di sorci acrobatici (la pantegana o zoccola di fiume romana, ohibò!...).
Con un giorno di pioggia, le strade divengono fiumi in piena, per rientrare a casa in macchina servono i remi e il doppio del tempo, in autobus manco a parlarne e ai pompieri vengono occhiaie che paiono solchi di carro, manco gli avessero messo in caserma la porno pay tv.
Al secondo giorno, al Tevere già gli girano di traverso e i romani principiano a ricoprirsi di muschi e licheni. Naturalmente – manco fosse fatto apposta – scatta lo sciopero dei mezzi pubblici e viene in visita qualche rompicoglioni straniero. Città bloccata, Cuppolone incrinato dalle bestemmie di credenti e miscredenti. Stato di crisi per pizzardoni e casalinghe in cerca di cibi da stipare per l’imminente ma non ancora certa fine del mondo. I cartomanti e i ciarlatani loro pari mietono soldi siccome grano il villico nel campo.
Al terzo giorno, il Tevere comincia a spedire lettere minatorie e la gente s’affaccia sempre più spesso dagli argini pe’ vede’ che fa er Bionno. Lo sciopero è finito ma succede di sicuro qualcos’altro. Basta avere un po’ d’immaginazione. Ai bambini in carrozzina cominciano a spuntare branchie e pinne dorsali a forma di ciuccio, quelli che camminano paiono tante rane che zompano da un sampietrino all’altro, sempre che qualche macchina non zompi in testa a loro o il blocchetto di pietra non finisca risucchiato in qualche mini-voragine.
Al quarto giorno di pioggia – rarissimo – per il Tevere è allarme rosso, i sommozzatori infilano la tuta e scoprono che la zip – maledetta zip! – non scorre, i pompieri sono spompati e i topi fanno surf con la camicia hawaiana. Razzia al supermercato causa certezza ormai conclamata della fine del mondo. Le sette – sataniche e non – di Roma e Castelli fanno razzia di creduloni e ripuliscono loro il portafoglio. I cartomanti sono fuggiti, ormai ricchi, alle Bermuda. Il prezzo della benzina, naturalmente, aumenta, mentre scatta l’allerta dei produttori agricoli: troppa pioggia, stato di crisi. Ravanelli e zucchini costano quanto una Lamborghini, spuntano cassette di bieda o bieta (a seconda delle ortofrutticole interpretazioni cittadine) nelle vetrine delle oreficerie e la lattuga supera ogni record mai segnato prima. I finocchi rischiano l’annegamento, ma non si capisce mai se ci si riferisca al caratteristico ortaggio o a qualche altrettanto peculiare essere umano.
Al quinto giorno non s’arriva per decreto, anche perché so’ dumila anni che aspettamo quarcheduno che sappia apri’ n’antra vorta l’acque. Ma qua, ar massimo, dar Cupolone co’ ‘sto papa ponno apri’ du’ bottije de bira. E l’unto de Palazzo Chigi sta sempre in Russia a apri’ matriosche…

Vivere a Roma senza fissa dimora: intervista a Gabriele Del Grande sul suo nuovo libro

Il viaggiatore Gabriele Del Grande – per intenderci, l’autore dell’ottimo “Mamadou va a morire” – torna in libreria con un nuovo lavoro. Ancora un viaggio, ma questa volta davvero dove non te lo aspetti: nelle viscere sociali della capitale, della Roma che esclude, in mezzo agli oltre 6.000 homeless che, nell’indifferenza generale, la vivono e la patiscono sulla loro pelle.
Del Grande ha vissuto venti giorni con loro, gli homeless, e tra loro, dividendo tutto: pezzi di strade per dormire, rare docce, il poco cibo, violenza, freddo, paura. Il risultato è “Roma senza fissa dimora. Un viaggio nella città degli emarginati”: un libro che tocca fino in fondo all’anima. E apre uno spaccato inedito e imprevedibile sulla città più bella del mondo e sui suoi limiti e drammi più profondi. Un reportage, semplicemente, da non perdere che, come spiega nella prefazione il giornalista Stefano Trasatti, secondo cui questo libro “restituisce identità, storie e ‘corporeità’ a chi, pur non avendole perdute, è come se non le avesse più. Il libro di Del Grande dimostra che un giornalismo umano e del tutto privo di cinismo è possibile”.

D. Gabriele Del Grande, quale sentimento prevale quando si vive per strada, da homeless?
R. Bisognerebbe chiederlo a un homeless. Non a un giornalista. Solitudine, frustrazione, rabbia? E perché invece non anche amore, gratitudine? Di sicuro freddo, d’inverno. Davvero non credo ci sia una risposta. Dipende dalle persone e dalle situazioni, dalle storie. La strada è un luogo, non è una categoria sociale. Una periferia abitata da tante umanità. Il mio andare sulla strada è stato un viaggiare verso quell’umanità, per incontrarla e raccontarla. Io non sono mai stato un homeless, al massimo un houseless. Perché la differenza non la fa la mancanza del tetto, ma quella del focolare.

D. Quali sono i pericoli insiti in questa vita?
R. La strada non è un luogo facile da abitare. È violenta, come del resto lo è la città che esclude, quella che abitiamo noi, ma è una violenza più cruenta, più fisica. Rischi di essere accoltellato per un posto letto, di essere menato da un ubriacone o derubato da uno che si deve fare una dose. Eppure come la disperazione genera una sorta di lotta per la sopravvivenza, allo stesso modo genera anche una sua socialità, un rifiorire degli affetti. Io stesso ho fatto esperienza di entrambe. In venti giorni per strada mi sono preso una testata sul setto nasale e allo stesso tempo sono stato accolto come ospite da tre vecchi lupi di mare del primo binario della stazione Termini che a loro modo mi hanno protetto e guidato per tutto il mio viaggio.

D: Perché e come, improvvisamente, una persona – a volte una famiglia – si ritrova a vivere da “barbone”?
R: Improvvisamente mica tanto. La prima riflessione che viene da fare è legata alla solitudine. All’allentarsi delle reti di solidarietà familiari, amicali. La perdita del lavoro è l’ultimo problema. Il problema è quando non si ha più un luogo dove tornare, una porta a cui bussare. E questo è sempre più vero nelle nostre città, dove il caro affitti rende spesso la solidarietà un lusso. Al resto basta aggiungere un momento di debolezza, di depressione. Quanti cinquantenni separati sono a rischio? Poi c’è il capitolo più drammatico di chi soffre di dipendenza. Di nuovo per problemi nati a monte della strada. Dipendenze da alcol, da droghe legali o illegali, che prima o poi ti fanno fare tabula rasa dei legami sociali e ti ritrovi seduto sull’asfalto senza sapere bene come. Comunque sulla strada non ci nasce nessuno.

D: E tu? Perché?
R: Bé lo faccio di mestiere. Di viaggiare. Come diceva Calvino, se c’è un inferno è quello dei viventi, ed è quello che viviamo tutti i giorni. Sta a noi cercare tutto ciò che non è inferno e farlo durare il più a lungo. Ecco, per me l’umanità che ho trovato nell’inferno della strada è ciò che non è inferno, e l’unico mezzo che ho per farla durare è la parola scritta. Ero affascinato da quel mondo da quando, durante l’università, lavoravo come operatore sociale in un dormitorio di Bologna. Perché è guardando i margini che si scopre il centro. E attraversando l’altrove che si scopre il proprio dove. Ed è raccontando la città esclusa che magari si capisce qualcosa della città che esclude.

D: Oggi rifaresti una simile esperienza o credi sia stata l’avventatezza della gioventù ad averti spinto a fare una simile scelta, per quanto breve?
R: A giudicare dalle esperienze che continuo a cercarmi direi che non è un problema di età. Insisto sul punto. È stato un viaggio. Un raccontare la città dai suoi scantinati. E oggi come allora continuo a viaggiare. Anzi quello è stato uno dei miei primi viaggi col taccuino in tasca!

D: Vedi ancora i tuoi compagni d’avventura di cui parli nel libro o li hai persi di vista?
R: Purtroppo li ho persi tutti di vista. Anche perché da due anni non vivo più a Roma.

D: Nella postfazione del libro lo scrittore di strada Maksim Cristan scrive: “Gabri è diventato un barbone, anche se se l’è cercata. (…) Gabri è rimasto un barbone, perché è così che funziona e questo non glielo leva più nessuno…”. Che cosa c’è di vero?
R: Bisognerebbe chiederlo a Cristan… A parte l’arte di arrangiarsi, che però era precedente a questo viaggio… di sicuro mi è rimasto lo sguardo da barbone. Talvolta la lentezza. Ricordo ore intere passate su una panchina a guardare la gente passare. A osservare dei particolari. Oppure l’ascolto. La sera, dopo la cena alle diciotto alla mensa, rimanevamo fino all’una di notte a raccontare storie di vita. Ecco quell’ascoltare, quel guardare, quell’aspettare me li porto dietro anche nel lavoro che faccio oggi come giornalista.

D: Che cosa ha cambiato questa esperienza da barbone nella tua vita?
R: Non ha cambiato molto. Voglio dire non è stata una caduta sulla via di Damasco. Paradossalmente è stato un passaggio di continuità. E al tempo stesso una sperimentazione. Di come si potesse passare dal lavoro nel sociale, ovvero dalla mia formazione professionale come operatore sociale, a un lavoro narrativo che però partiva dal sociale, in quel caso dalla strada. Già lo avevamo sperimentato a Bologna con una mostra fotografica sulle vite di strada l’anno prima del mio viaggio. Poi decisi di partire con il sacco a pelo. Oggi continuo sulla stessa via. Incontrare l’altro, lontano o vicino che sia, e restituirgli la parola.

D: Prossimi progetti?
R: Sto lavorando a un libro molto impegnativo sul Mediterraneo. Che racconta la Storia (con la esse maiuscola) di questi ultimi anni attraverso un ricchissimo intreccio di storie. Storie di padri e di pescatori, di esuli e di sindacati, di gabbie e di cinema, di spionaggio e di telefonini, di contrabbandieri e di turisti, di arance e di pomodori, di mare e di deserto. In poche parole di una stessa generazione che abita le due rive e del mare che ci sta in mezzo.