mercoledì 20 aprile 2011

“Il Natale di Roma e gli esodi di massa festivi”: un capitolo in regalo da “100 ottime ragioni per non amare Roma”

Cari,
in vista del Natale di Roma numero 2.764 – che quest’anno coincide con un folto numero di eventi: Pasqua e Pasquetta, 150° dell’Unità d’Italia, inizio degli esodi primaverili visto l’ormai definitivo arrivo della bella stagione… - mi permetto di regalarvi un capitoletto tratto dal mio arrabbiato e vagamente dissacratorio 100 OTTIME RAGIONI PER NON AMARE ROMA e almeno due per adorarla alla follia, sperando gradiate. Il libro (come altri sull’argomento) è in questi giorni in offerta sul portale della casa editrice a un prezzo speciale visto l’importante anniversario.
Buona lettura e...buon Natale, Roma! (finché dura...)

Esodi di massa festivi


Quella di cui parliamo è una tragedia.
L’apocalisse.
Le sette piaghe d’Egitto. Con una preferenza per le cavallette.
D’altronde, sono gusti.
È venerdì pomeriggio. Una stagione qualunque, ma preferibilmente da
aprile a ottobre.
Il tempo è bello. Fa caldo. A Roma fa sempre caldo.
Il venerdì sera è una tragedia.
Mica vorrai restare a casa?
Si esce.
O magari si parte.
In Italia ci sarà la crisi degli alloggi, ma se qualcuno requisisse un po’ di seconde, terze e quarte case ne avremmo fin troppe a disposizione e ci potremmo ospitare anche i marziani.
E il romano, nel fine settimana, se non inquina rigorosamente in macchina l’aria della sua città, che fa?
Va a inquinare altrove.
I luoghi deputati allo scorrazzamento del romano sono molti, ma preferibilmente la costa tirrenica, tra Civitavecchia a nord e Lavinio a sud; la montagna, nel quieto Abruzzo; i laghi, ovvero Martignano, Bracciano o Albano e Nemi. Qui, poi, c’è la porchetta. E il romano, amici miei, magna.
Ammazza si magna!
Se in codesti luoghi il romano ha dimora, parte, rimane parzialmente stanziale, magna come un orso dopo il letargo e la domenica sera si rimette in coda, come ha fatto all’andata, per rientrare – insieme ad altre decine di migliaia di energumeni suoi pari – nell’odorosa Urbe, dove continuerà a sporcare esattamente come ha fatto nel fine settimana. Le vecchie, sane, rassicuranti abitudini.
Se invece il romano non ha il “pregio” d’essere stanziale, si trasforma in migrante. Ogni giorno del fine settimana, dunque, egli e gli altri del branco si spostano percorrendo anche molti ma molti chilometri per esperire eccezionali incarichi, di difficoltà estrema, tra i quali: mangiare la pizza; divorare carne arrosto; gustare pesce; prendere un gelato; ordinare caffè; passeggiare mano nella mano; litigare e mandarsi a cagare in pubblico; farsi scippare oppure compiere a propria volta, come forma di vigliacco “autofinanziamento”,
codesto estremo atto di maschio coraggio, magari ai danni di forzute e pericolose novantenni; fumare o farsi le canne; guardare i negozi; fare lo struscio in piazza; sedere su una panchina; rialzarsi dalla panchina: scriverci sopra col pennarello indelebile cazzate di mocciana ispirazione; gettare cicche di sigarette e fazzolettini fuori dal cestino, che è lì a un metro ma pare debba essere conservato vergine; accoppiarsi in macchina (ma col preservativo portato da Roma: del profilattico “burino” meglio non fidarsi, si sa…) o escogitare la variante dell’andare a mignotte (in effetti, secondo Radio Putantour le schiave nigeriane scarseggiano in città e non a tutti possono piacere le europee orientali, che invece tra le mura amiche hanno attecchito 96 100 ottime ragioni per non amare Roma bene). Tutte cose che, evidentemente, il romano non può esperire nell’Urbe, dove non esistono pizzerie e ristoranti, non vi sono notoriamente strade o piazze in cui passeggiare, mancano panchine, sono del tutto assenti negozi e prostitute, è vietatissimo e punito con pene corporali insozzare le strade o accoppiarsi laddove hanno dato estrema prova di valore generazioni e generazioni di suonatori d’arpa lor simili.
Simpatico è che coloro che, impunemente, vivono nello spazio compreso tra l’inizio e la fine di detta transumanza ogni fine settimana debbano respirarsi le gassose feci delle vetture di cotanti partenti eroi del famo quarcosa pise’, sinnò m’annoio e sclero!, chiedendosi senza mai avere risposta: perché?
Forse per solidarietà coi petrolieri?

lunedì 18 aprile 2011

Psiconazionalismo in Bosnia: quando la verità sconcerta

Carissimi,
vi regalo la prefazione che ho avuto il piacere e l'onore di scrivere per il libro di un caro amico, lo storico e scrittore Angelo Lallo, autore dello splendido e documentatissimo IL SENTIERO DEI TULIPANI. PSICONAZIONALISMO IN BOSNIA ERZEGOVINA (Infinito edizioni, aprile 2011), un libro che vi consiglio assolutamente.
Buona lettura (spero...)!


Angelo Lallo è un ottimo ricercatore storico sebbene egli preferisca definirsi “atipico”. È – caratteristica comune agli studiosi, rari, del suo stampo – uomo paziente e ricco di fede. Non specificamente di fede religiosa, che in Bosnia Erzegovina – di cui ottimamente scrive – è mezzo e scorciatoia in mano a nazionalisti furbi e corrotti, non di rado con le mani ancora grondanti del sangue dei civili morti nel conflitto del 1992-1995. No, la sua è incrollabile fede nella capacità umana di ricercare la verità, passo dopo passo, granello dopo granello, e di fronte a essa stupirsi, ancora una volta. E indignarsi, genuinamente.
Il sentiero dei tulipani è in effetti anche più che un atto di fede. È, forse prim’ancora, professione d’amore. Per la Bosnia Erzegovina, per la sua gente meravigliosa e ferita – ma direi, vincendo una sorta di tabù, traumatizzata, individualmente e collettivamente. Ed è una professione d’amore per la Storia, le sue cause, i nessi, gli effetti. Mai casuali. Sempre determinati dall’uomo, dunque da ciascuno di noi. A volte col voto. Altre con l’indifferenza. Altre ancora con l’azione.
Anni di ricerche sapienti e di profonda immedesimazione nell’orrore del conflitto bosniaco hanno portato Lallo, mai schierato, a studiare col piglio non solo dello storico di professione ma finanche dello storico della psichiatria le cause profonde e da molti non coffessabili del macello balcanico di fine secolo.
Documenti e testimonianze alla mano, l’autore dimostra qui, per la prima volta, che non solo la guerra bosniaca non ha avuto alcuna causa etnico-religiosa – come anche altri hanno cercato di spiegare, cozzando continuamente contro il muro di gomma di un giornalismo ottuso e superficiale e della propaganda ideologizzata – ma che il Paese è stato laboratorio prescelto fin dagli anni Ottanta del cosiddetto Secolo breve di folli speculazioni teoriche che hanno portato un gruppo di psichiatri, psicologi e biologi, preceduti e poi guidati da Jovan Rašković, a saccheggiare a loro piacimento la filosofia, la teologia, la genetica per creare a tavolino le basi teoriche di un nazionalismo senza precedenti, che ha fatto scempio di ogni valore per raggiungere lo scopo di mettere gli appartenenti di un unico popolo gli uni contro gli altri. È stata la cricca guidata nelle terre di cultura serbo-ortodossa da Slobodan Milošević e dal sanguinario“poeta” Radovan Karadzić, in quelle croate da Franjo Tuđman, a carpire a piene mani dall’ideologia distorta e razzista coniata da Rašković gli strumenti essenziali per creare artefattamente un odio sociale che – nutrito dei traumi mai curati della seconda guerra mondiale e della riscoperta malata e strumentale di miti rivisti a tavolino, e basato sulla forzata unione tra identità, etnia e religione, divenuti sfacciatamente sinonimi – ha finito col dividere in tre parti un sol corpo, portandolo all’autodevastazione dell’identità comune, della cultura ampiamente condivisa, di una società fondata su un rispetto reciproco non di facciata.
Il libro di Lallo è illuminante e al contempo sconcertante. Ed è sconcertante perché spiega, con parole di una chiarezza esemplare che solo un ottimo scrittore può essere capace di vergare, come un gruppo di ipocriti assassini, assistiti dalle gerarchie religiose e sostenuti da alcuni circoli politici ed economici internazionali, abbia saputo non solo creare a tavolino e poi realizzare le basi per un genocidio umano e culturale, ma persino spacciare tanto ai loro concittadini quanto al mondo intero per certezze accertate quelle che altro non sono se non sanguinose bugie, tragiche mistificazioni, volgari strumentalizzazioni. Non sono i bosniaci a non poter vivere insieme. Sono stati costoro – e altri come loro – a essere per scelta dei furbi, vigliacchi, volgari assassini e profittatori, mescitori di zizzania, profittatori di dolore.
Il sentiero dei tulipani dovrebbe essere letto e studiato in tutte le scuole bosniache. Questa è la verità. Quelle stesse scuole in cui, tuttavia, vige un sistema non di rado di apartheid tra gli studenti appartenenti alle diverse nazionalità che compongono il Paese e in cui i ragazzi studiano su libri di storia bugiardi scritti e stampati non con la logica di insegnare la Storia ma con il fine di inculcare la propaganda. Anche in Italia, tra i politici più potenti, c’è chi ritiene che la scuola debba inculcare. Meglio non dimenticarlo. Meglio non rimuovere i parallelo tra “noi” e “loro”, che non sono pochi e non sono poco preoccupanti.
La Bosnia ha bisogno di questo libro e di conoscere la verità sull’esperimento folle di cui è stata ignara vittima. In attesa che questo sia possibile – e verrà il giorno in cui i nazionalisti verranno cacciati dal potere e finalmente la cortina di menzogna che aleggia sul Paese potrà cominciare a essere strappata – è bene che il pubblico italiano legga con attenzione Il sentiero dei tulipani poiché la deriva della politica nostrana ci sta conducendo non lontani da una balcanizzazione ben diversa da quella raccontata dai nostri media e dai nostri politicanti ma, purtroppo, assai vicina a quella che qui Angelo Lallo racconta e in cui la Bosnia ha perso se stessa.
A volte fa bene svegliarsi di soprassalto dai brutti sogni. Ebbene, l’autore ci spiega qui che la Bosnia, che tutti noi, non abbiamo vissuto un incubo bensì una dolorosa e devastante realtà, peggiore di ogni cattivo sogno che possa averci angosciati da bambini. È giunto il momento di farcene una ragione e di comprendere a fondo le cause di questo realissimo incubo, affinché davvero quanto accaduto nei Balcani non si ripeta più, nonostante il mondo e l’Italia stessa siano popolati di gente che giorno dopo giorno segue, più o meno coscientemente, le orme raggrumate di sangue che hanno percorso mostri dalle fattezze umane come quelli che la recente storia dei Balcani ci ha consegnato.
Oltre che un originale libro di Storia, con incursioni nella storia della psichiatria, questo lavoro di Angelo Lallo è anche un fondamentale monito a tutti noi a mantenere alta l’attenzione e ad aprire gli occhi. Perché non c’è nulla di peggio che credere acriticamente ai guru e ai falsi profeti che, di tanto in tanto, la vita ci mette davanti. A nessuno possiamo cedere il controllo del nostro cervello e delle nostre vite. Perché poi, al risveglio, potremmo scoprire di esserci consegnati a dei mostri. O, e questo è il peggio del peggio, di esserlo diventati noi stessi.

giovedì 14 aprile 2011

"Dietro le quinte", un piccolo inedito per chi ha tre minuti da perdere

Ciao cari,
mi permetto di regalarvi un breve testo che ho scritto dopo la bella esperienza durata cinque puntate con Tv2000, nell'ambito della trasmissione "Mentre" di Maurizio Di Schino.
Ignoro se il racconto sia bello o brutto, se valga o non valga la pena leggerlo. Aspetto che siate voi, nel caso, a dirmelo.
Questo racconto nasce non dal desiderio di sviluppare una tematica in particolare ma da un insieme di stimoli ricevuti durante le puntate di “Mentre”. L’ispirazione non è un qualcosa a tenuta stagna ma si abbevera dell’enormità di stimoli che in un certo momento giungono a chi, dovendo o volendo scrivere, ha attivato tutti i suoi canali di ricezione. Nel mio caso, catalizzatore è stata una frase – “All’Africa stanno già rubando anche il sole” – ascoltata durante una delle puntate della scorsa settimana,. Da quella frase, e da un insieme di stimoli ricevuti, nasce questo breve e semplice racconto, che spero potrà rappresentare pochi minuti di piacevole lettura per chi avrà la pazienza di cimentarsi. Grazie.


L’uomo con la barba stava in piedi, leggermente curvo su un lato perché appoggiato a una colonna, un bell’appoggio a filo piuttosto sottile ma decisamente resistente se riusciva a sorreggere senza accusarne il peso, la ponderosa anta, incardinata in alto e in basso tramite due lunghe staffe.
Un acrocoro di nuvole, algide e lente, forse più semplicemente eteree e soavi come i sogni belli dei bambini, gli scorreva alle spalle, proscenio morbido e grato, quasi forse solo sospinto da battiti di ciglia.
Muoveva, lentamente, su e giù le palpebre, il barbuto, fasciato di cotone grezzo e fine pazienza, svelando ora, celando adesso, iridi ispirate al contrasto azzurro del cielo, sgusciato nella processione serena dei nembi.
Roteava, al di sotto di quei cerchi di cielo attoniti, un grosso mazzo di chiavi. Che però – curioso a dirsi, ora che ci penso – non producevano né nota né tanto meno tintinnio o acuto stridore.
Ricordo come fosse ora – ma sto imparando che in questa fetta di cosmo lo è sempre e non lo è mai – come se avessi ancora la scena a me davanti, il secondo uomo, quello che non ho incontrato più.
Parlava, costui. Ore e ore a perorare cause. Le sue, da quel che s’intuiva. Si giustificava, adduceva ragioni. E io, seduto nel mio angolino di spettatore silente e confuso, quasi mi divertivo ad assegnare ogni ragione addotta a ciascuna nuvola di passaggio, colmando il cielo terso di un giorno spensierato di cumuli di ragioni gettate al vento di quelle palpebre.

Infine sbottò, il secondo uomo:
“Credi non l’abbia capito? – ricordo fece con tono che allora mi parve amaro, ma oggi credo di sfida – Tu vuoi che mi penta!”.

Si fermò un istante, quasi folgorato da unj’idea che represse, da un’illuminazione che s’affrettò a spengere.
Si lisciò il mento incolto, con ambo le mani si massaggiò le guance scavate e grinze.
L’altro, per un solo immenso istante, parve rallentare la rotazione delle chiavi.

“Ma confessare, poi, che cosa mai?! – riprese quello allargando le braccia da vecchio gracile avvoltoio – Tutto ciò che ho preso, non l’ho mai tenuto per me. Mai. Tutto è sempre andato alla mia collettività. Tutto è sempre stato fatto nel nome dei miei.
Ero lautamente remunerato, come negarlo? Ma non ho mai, mai e poi mai rubato nulla ai miei. Che ancora oggi mi ricordano come un giusto. Un probo.
E io era ai miei che dovevo rendere ragione. Mica agli altri.
Partivo, sacrificando l’affetto dei cari, e al mio ritorno le mie mani erano colme di doni per la mia gente. Il necessario per non rinunciare a nulla e mantenere elevato il nostro stile di vita, le prospettive della nostra collettività di donne, uomini, bambini.
Sono stato un benefattore.
Mi hanno dedicato, ancora in vita, strade, piazze, persino palazzi, poi un’intera città.
Sono stato un benefattore del mio popolo. Della mia gente.
Ho portato petrolio per la nostra mobilità, gas per il nostro tepore, carbone per il nostro ludo e per dare luce al nostro mondo, coltan per far viaggiare dapprima la voce senza la schiavitù dei fili, poi i nostri stessi visi, diamanti per rendere ancor più splendenti le nostre donne, legname pregiato per i nostri palazzi, pelli e zanne per monili e pavimenti, braccia per le nostre campagne, godimento a poco prezzo per i nostri sodali soli…
E tanto, tanto, tanto ancora…
Sono stato un benefattore…
Poi…
Poi… certo… sì…- ora era visibilmente corrucciato e le braccia gli pendevano lungo i fianchi – a un certo punto ho forse perso…la misura. Ecco: la misura… ma rifiuto di essere condannato per questo. Solo per questo. Non potete!
L’ho fatto per amore… Ecco, sì…per amore… E, invero, ci ho provato in tutti i modi, prima di prendere quella decisione…
È stato dopo aver portato ai miei anche tutta l’acqua da bere, il cibo per mangiare e le erbe per curarci. Allora non mi era rimasto altro da fare, e ho provato a portare ai miei anche il sole! Sì, il sole!
D’altronde, lì ce n’era così tanto…
E loro, quelli…, beh, non sapevano che farsene, come di tutte le altre cose…che ho portato ai miei…
Ci ho provato in tutti i modi: ho cercato di inscatolarlo, spostarlo, trascinarlo con grandi funi, affettarlo, bucarlo per portarne via un foro alla volta, aspirarlo… Ma il maledetto non si spostava. Pareva non voler davvero venire con me. Eppure mi mancava solo quello, da portare ai miei… Il mio fiore all’occhiello, a fine carriera…
Allora, non potendoglielo neanche spegnere, gliel’ho oscurato, il sole, costruendo un’enorme tenda nera, immensa, che ho alzato su in cielo. E ho oscurato tutto.
Ora tu mi stai dicendo che mi sono accanito contro… ma non capisci? È stato il sole ad accanirsi contro di me! È stato lui a volersi opporre, a non voler venire via con me. Dai miei…
E tu, per questo, ora non vuoi lasciarmi passare…
Come puoi respingere uno che ha solo voluto il bene dei suoi?... La colpa, vedi… La colpa non è stata mia. La colpa è sua! Lo è sempre stata. La colpa è dell’Africa!”.

Il primo uomo socchiuse un’ultima volta le palpebre. Smise di roteare le chiavi. Congiunse le mani e si voltò.
Le nubi, che ora ammirava in tutto il loro morbido incanto, ingrigirono e, come per celeste comando, mutò lo scenario, s’incupì il palcoscenico, quasi si spense la luce, e io mi feci piccolo, nel mio cantuccio, ora spettatore terrorizzato.
Tramutò, d’improvviso, ancora lo scenario, e ora una quinta rigata di pioggia calda convertì quel luogo in sordo, denso dolore.
Il secondo uomo scomparì, d’improvviso.
Ma un istante prima che quest’ultimo inatteso evento si compisse, come per magia, la quinta bagnata s’aprì.
Dietro, comparve Dio.
Piangeva.

sabato 9 aprile 2011

Cari amici,
alla fine di un bellissimo week-end di presentazioni di Bosnia Express (e di Srebrenica. I giorni della vergogna, di cui tra breve uscirà la seconda ristampa della terza edizione) rimangono sempre sensazioni contrastanti: da un lato soddisfazione, tanta soddisfazione, e un profondo arricchimento personale; dall'altro stanchezza e un senso di fastidio per il tempo che passa troppo in fretta e non ti permette di gustarti a fondo le emozioni, i luoghi in cui si è ospiti, ancor di più le persone. Il mio amico Daniele Scaglione, un altro che macina tanti tantissimi chilometri, le definisce "le visite del lattaio". Lattaio o postino - mestieri affascinanti tutti e due - dispiace il non avere il tempo per approfondire un rapporto con un'umanita bellissima, come quella di ieri a Villa di Serio e di oggi a Venezia.
In tutte e due le città ho sentito parole di grande apprezzamento per Bosnia Express e per il mio lavoro. Io spero davvero di riuscire a gettare un sassolino in uno stagno le cui acque rischiano altrimenti di marcire. In questo stagno, invece, vorrei tornasse a scorrere acqua e, con essa, vita.
Mi hanno fatto molto piacere questa sera le parole, tra gli altri, dell'assessore alle Politiche giovanili e alla Pace di Venezia, Gianfranco Bettin, uno che è stato parlamentare e prosindaco di Venezia, che ha vissuto i bombardamenti a Sarajevo al fianco del comune amico Mario Boccia, che ha avuto, con altri, il coraggio di dire il fatto a Belgrado, in diretta televisiva, a Slobodan Milosevic, rimediando più di un brutto quarto d'ora (sempre col caro e grande Boccia). Bettin ha letto il libro, lo ha apprezzato, ne ha parlato a lungo in pubblico in modo lusighiero, e questo fa enormemente piacere, come è motivo di orgoglio fermarsi un'ora, dopo la presentazione, a parlare con tanti ragazzi, ciascuno con il loro carico di domande e di riflessioni.
Presento Bosnia Express dal 30 settembre, quasi ininterrottamente. A parte un paio di date "sbagliate" per questioni organizzative, ho avuto il piacere e l'onore di conoscere una bellissima umanità, che mi ha raccontato come questo Paese sia molto diverso e più bello di come sembra. A tutti coloro che ho incontrato grazie di cuore per l'impronta d'umanità che mi hanno lasciato nell'anima, dalla Puglia che ormai amo come una seconda casa risalendo su su fino al Veneto, con Venezia che ancora oggi è una bolla di multiculturalità e di tolleranza in un Paese che combatte con i fantasmi del razzismo e dell'intolleranza. E grazie a tutti coloro che incontrerò nei mesi a venire, che altre belle impronte e punti mi lasceranno dentro.
Buona notte (e scusate per i refusi, ma sono stanchissimo e vado a dormire).

Le prossime presentazioni/eventi:

Maggio 2011:
- da giovedì 12 a lunedì 16 maggio sarò continuativamente (direi fino a consunzione...) allo stand Infinito edizioni in occasione del Salone internazionale del libro di TORINO (secondo padiglione, stand M05, proprio di fronte all'entrata principale, sempre insieme al caro amico Luca Burei di Edizioni Estemporanee);
- martedì 17 maggio, TORINO, Circolo dei Lettori, data in definizione, organizza Amnesty International Torino;
- mercoledì 18 maggio, AOSTA, data in definizione, organizza Amnesty International Torino;
- giovedì 19 maggio, CASALECCHIO DI RENO (BO), data in definizione, ore 20,45, organizza l’Associazione Percorsi di Pace.

Altre date in preparazione.

Dal 30 settembre 2010 a oggi abbiamo presentato il libro 37 volte, ed esattamente a: Albano Laziale (RM), Ancona, Bari, Bologna, Catania, Cerignola (Fg), Cisliano (MI), Corato (Ba), Firenze, Giulianova, Lecce, Massafra (Ta), Milano, Modena (2), Molfetta (Ba), Muro Leccese (Le), Padova, Palermo, Parma, Pisa, Roma (7 volte), San Benedetto del Tronto, San Pietro Vernotico (Br), Saronno (VA), Sedriano (MI), Taranto, Tarquinia (VT), Venezia, Villa di Serio (BG), Vittorio Veneto.

Per proporre nuove presentazioni:
direzione.editoriale@infinitoedizioni.it
info@infinitoedizioni.it
lu.ne@libero.it
facebook: Luca Leone

venerdì 8 aprile 2011

Bosnia Express ferma oggi a Bergamo, domani a Venezia

Carissimi,
vi riccordo gli appuntamenti con Bosnia Express di oggi e domani e quelli a venire.
A presto e grazie per l'affetto con cui seguite le mie "peregrinazioni".

Aprile 2011:
- venerdì 8 aprile, VILLA DI SERIO (BG), presso la Sala della comunità della Biblioteca, ore 20,45; organizza l’Associazione Solidarietà 1991 onlus;
- sabato 9 aprile, MESTRE (VE), nell'ambito di Buongiorno Bosnia, presso la Biblioteca Civica di Mestre, via Miranese, 56, alle ore 17,00. Dialogano con l'autore Gianfranco Bettin, Assessore alle Politiche giovanili e pace del Comune di Venezia; Marino Vocci, Fondazione Alexander Langer Stiftung Bolzano e video intervento di Jovan Diviak, autore di Sarajevo mon amour. Accompagnamento di musica balcanica e klezmer: Pietro Pontini, violino e tromba; Veronica Canale, fisarmonica e voce. Mostra fotografica di Giacomo Cosua, Dal viaggio di conoscenza a Tuzla, Sarajevo e Srebrenica.

Maggio 2011:
- da giovedì 12 a lunedì 16 maggio sarò continuativamente (direi fino a consunzione...) allo stand Infinito edizioni in occasione del Salone internazionale del libro di Torino (a breve sapremo anche l'ubicazione precisa);
- martedì 17 maggio, TORINO, Circolo dei Lettori, data in definizione, organizza Amnesty International Torino;
- mercoledì 18 maggio, AOSTA, data in definizione, organizza Amnesty International Torino;
- giovedì 19 maggio, CASALECCHIO DI RENO (BO), data in definizione, ore 20,45, organizza l’Associazione Percorsi di Pace.

Altre date in preparazione.

Dal 30 settembre 2010 a oggi abbiamo presentato il libro 35 volte, ed esattamente a: Albano Laziale (RM), Ancona, Bari, Bologna, Catania, Cerignola (Fg), Cisliano (MI), Corato (Ba), Firenze, Giulianova, Lecce, Massafra (Ta), Milano, Modena (2), Molfetta (Ba), Muro Leccese (Le), Padova, Palermo, Parma, Pisa, Roma (7 volte), San Benedetto del Tronto, San Pietro Vernotico (Br), Saronno (VA), Sedriano (MI), Taranto, Tarquinia (VT), Vittorio Veneto.

Per proporre nuove presentazioni:
direzione.editoriale@infinitoedizioni.it
info@infinitoedizioni.it
lu.ne@libero.it
facebook: Luca Leone

lunedì 4 aprile 2011

“Alias MM”, un refolo di vento buono per un’Unità d’Italia vista dal Sud – intervista a Pino Sassano


Napoli-New York-Lauria, 1860-1966: in ALIAS MM di Pino Sassano le vicende di una famiglia s'intrecciano strettamente con la Storia d'Italia, attraverso i mutamenti politici e sociali indotti dall'Unità nazionale, dal fascismo, dalla guerra e dagli anni del boom. Uno spaccato unico e originale, visto dal nostro Sud, del Paese, degli Stati Uniti negli anni della Grande Depressione, del ruolo transnazionale della mafia, del dramma ma anche della grande occasione rappresentata dall'emigrazione verso terre più ospitali della nostra Italia di allora. I protagonisti di questo bellissimo libro d’esordio – magistralmente scritto da Sassano e altrettanto magistralmente curato dallo scrittore Francesco De Filippo – intrecciano il loro vissuto con diversi momenti del processo unitario nazionale, soprattutto ma non solo a Napoli. Lì, il capostipite Mario Mignone si confronta con le illusioni dei grandi movimenti politico-sociali della seconda metà dell’Ottocento, subendo gli intrighi spionistici dello scacchiere internazionale. Sempre a Napoli, il figlio Giovanni vive intensamente la belle èpoque e il tentativo di sviluppo industriale all’inizio del Novecento, trovandosi invischiato nell’attentato anarchico di Gaetano Bresci a Re Umberto I. Milly, sua figlia, soubrette che calca le scene di tutt’Italia, durante il Ventennio sperimenta la prepotenza del regime fascista e la sua invasività nella vita privata ed è costretta a emigrare. Alias MM è il nipote omonimo del capostipite. Negli anni Sessanta, sul letto di morte in Basilicata, nella sua Lauria, si lascia andare a ricordi che ricostruiscono gli avvenimenti famigliari, intrecciati a quelli del Paese.
Di questo ottimo libro d’esordio abbiamo parlato con l’autore, Pino Sassano, oggi importante libraio nel centro di Cosenza.

“Alias MM” è un libro magnifico e quasi si potrebbe stentare a credere che si tratta di una “opera prima”, visto non solo il grande respiro del lavoro ma anche l’evidente dimestichezza nell’uso sia dell’italiano sia del napoletano parlato. Che cosa scatta a un certo punto dentro a uno dei più importanti librai del Meridione italiano per spingerlo a mettersi alla prova con un libro così importante?
Diciamo che a un certo punto – sarà l’età che incalza – senti il bisogno di tirare le fila della tua esperienza. E l’esperienza ha a che fare con la memoria, con i ricordi. Ti viene la voglia di metterli in ordine, ‘sti benedetti ricordi. Ecco: scrivere è un modo per fare ordine nel repertorio, nell’archivio della memoria. Un po’ come quando vuoi fare i conti delle spese fatte nel mese: prendi il taccuino e cominci a elencarli a ritroso. Certo: se sei ragioniere li riporti con la correttezza della “partita doppia”. Ti viene facile, naturale, visto che lo fai per professione. Io faccio il libraio e amo leggere. Per cui m’è venuto facile scrivere i conti – anzi: “i cunti” – nell’italiano dei tanti libri letti per passione e professione, nonché nel napoletano verace del mio nonno materno. Lingua che è la colonna sonora dei fatti raccontati alla tavola di una famiglia numerosa come la mia.


Da dove nasce l’ispirazione per scrivere “Alias MM”? Quanto della famiglia Sassano c’è nelle vicende narrate, quanto dell’amore per la storia, quanto dell’amore per l’Italia e la sua enorme complessità?
Da un sogno. L’ispirazione nasce da un sogno: io sto tornando a casa, stanchissimo dopo una giornata di lavoro sfiancante. Apro la porta d’ingresso e non mi ci raccapezzo più. Non la riconosco, la mia casa. Mi è estranea. L’entrata, la disposizione delle camere, i mobili… Mi inoltro. Passato un corridoio basso e stretto, apro la porta di una stanza e chi ci sta? Mio figlio che gioca alla playstation. Gira la testa, mi guarda e chiede: ”Chi sei?”.
Beh. Mi sono preso paura. Un vero e proprio incubo.
La mattina dopo, appena sveglio, sono andato a domandargli i nomi di tutti i nostri parenti più prossimi. Per fortuna se li ricordava quasi tutti, ma la paura m’è rimasta addosso. La paura che la memoria si fosse persa. È allora che ho deciso di mettere mano ad “Alias MM”. E dentro ci ho ficcato le storie della mia famiglia. Principalmente di quella materna, che fa Mignone di cognome, seppure intersecate con la vicenda della malattia di mio padre, Augustale Sassano.
Poi, “facendo, facendo”, mi sono accorto che i fatti all’origine di quelle vicende erano emblematici di un periodo storico – l’unità d’Italia – che, incidendo nello sviluppo economico e sociale del territorio meridionale, ha cambiato fortemente e brutalmente la vita delle persone. Così come hanno cambiato tanti destini le altre epoche in cui i personaggi di “Alias MM” si muovono: la belle époque, il ventennio fascista, la grande depressione americana, il boom economico italiano.
Ecco: è riaffiorato il gusto dell’indagine storica già esercitato a scuola e poi all’università, corroborato dal piacere di fare incontrare le molteplici caratteristiche dell’Italia dentro una Napoli in fermento.

Il protagonista del libro è un ipotetico “Alias” di Pino o è un uomo realmente vissuto, la cui figura hai usato per costruire la splendida vicenda narrata nel libro?
Come spesso avviene in questi casi, nel processo creativo gli elementi si combinano. “Alias MM” è un po’ alias dell’autore, molto suo nonno, un po’ suo padre. La finzione coniuga realtà e fantasia, mescolate per riconsegnare la verità dei fatti e delle persone nella verosimiglianza narrativa.

Veniamo allora alla vicenda in sé: un secolo abbondante di storia italiana vista non solo da Napoli e da Lauria, città che per te hanno un significato particolare, ma anche da New York. Parlacene.
Un secolo di storia italiana piena di avvenimenti che si riverberano sulla vicenda di Alias MM. Come abbiamo detto: l’unità d’Italia, la grande guerra, il ventennio, le seconda guerra mondiale, il dopoguerra, il boom economico. E in tutto questo l’economia e il suo impatto sul tessuto sociale, che modifica e crea ex novo usi, costumi, modi di pensare e, prima, modi di produrre. Certo, non con la velocità dell’attuale globalizzazione, ma neanche con le lentezze che molti suppongono. Napoli ha tutte le caratteristiche socio-culturali per contenere compiutamente gli effetti contraddittori del processo di sviluppo messo in atto dalla fine dell’Ottocento. Città aperta alle influenze internazionali, già vera capitale, raccoglie e concentra le conseguenze umane di quei cambiamenti e di quelli successivi. E il mondo dell’arte ne porta in scena le ricadute attraverso la musica, il canto, il teatro, nel florilegio dei café chantant. Mentre, nelle viscere della città, maturano i sentimenti e gli intrighi internazionali di una Napoli “di sotto”, labirintica e oscura. È da Napoli che “partono i bastimenti pe’ terre assai luntane”. Bastimenti, guarda caso, diretti a New York. Città che a sua volta raccoglie il “precipitato” sociale dell’epoca: i diseredati scaricati dalle terze classi dei transatlantici. Ma anche l’America dove a teatro si possono incontrare i mondi dell’arte e dei reietti, negli spettacoli diurni dei teatri di Broadway a costo zero per le donne e a pochi cent per gli uomini, o in quelli organizzati dagli anarchici nei ghetti.
E Lauria? Beh… Lauria, provincia di Potenza, è un luogo di arrivo. Un luogo dove il caso ha condotto il finale della storia negli anni Sessanta. Lauria è un letto dove il tempo si dilata nel ricordo e nella ricostruzione dei fatti. Un punto d’osservazione privilegiato che si avvantaggia della televisione, “finestra” sul mondo, acquisita grazie al boom economico. Lauria è il luogo-scrigno deputato alla conservazione della memoria della famiglia di Alias MM.

Al di là della figura del protagonista narrante del libro, Mario Mignone, Alias MM, un’altra figura, bellissima spicca, una figura di donna: Milly Mignone…
Milly – intendo dire l’artista veramente vissuta – è un mistero per la mia famiglia. Era o non era cugina di mio nonno? Ogni volta che se ne parlava, lui assumeva un tono interrogativo sfottente: ”Chissà?”. Eppure la somiglianza fisica con le mie zie e mia madre era evidente... Mah! Di certo Milly ha nel romanzo una concentrazione di sentimento e tenacia da far invidia a qualsiasi donna. D’altronde anche la vita della vera Milly sembra dar ragione al personaggio del romanzo. Entrambe hanno dovuto affrontare traversie familiari, difficoltà economiche, amori impossibili. La vera Milly fece innamorare, tra gli altri, Cesare Pavese e il principe Umberto di Savoia. Ebbene, il mio personaggio ha sensibilità e determinazione sia per affrontare un rapporto sentimentale complesso e profondo, sia per gestirne le conseguenze laceranti. È un’artista a tutto tondo che si rimette in discussione e si tuffa pienamente nel flusso della vita e nelle esperienze che gli propone l’America. Senza chiedere sconti, senza cercare comode scorciatoie. Si piega – o meglio – fa finta di piegarsi ai ricatti del regime fascista, ma non subisce assolutamente i ricatti affettivi a cui potrebbe far comodo cedere. Sui sentimenti, nessuna mediazione. E quando una cosa non può essere ottenuta – finanche la maternità – è inutile lagnarsi: si chiude quel dolore nel fondo, anzi, nel sottofondo dell’anima e si passa oltre. Se poi l’inconscio, nel sogno, deciderà di scoperchiarne la copertura, il risveglio sanerà tutto… Forse.

In conclusione, Pino, che cosa ci può insegnare come italiani la vicenda narrata nel tuo libro e quali riflessione dovrebbe portarci a fare sul Sud d’Italia, questo Mezzogiorno così bistrattato dall’Unità a oggi?
Non so. E non credo che un romanzo come “Alias MM” possa e debba farlo. Quello che so è che la storia di “Alias MM” è emblematica di un periodo di storia italiana fatta di sentimenti universali. Avidità e generosità si alternano sulla scena come l’amore e l’odio, la ricchezza e la povertà, il sopra e il sotto, la luce e l’ombra. Insomma, la diversità e gli opposti la fanno da padrone, in qualche maniera bilanciandosi. È questo “bilanciamento” che – credo – renda la vita interessante: non l’assenza del male in assoluto, ma la possibilità che questo venga compensato dal bene. Almeno in parte, alimentando così la speranza che il vento cambi.
I personaggi del romanzo questa speranza l’avevano conservata, a dispetto delle traversie e del destino avverso. È questo che ha dato impulso e propulsione alle loro vite.
Quanta di questa speranza è rimasta agli italiani, in un’Italia che le statistiche danno come socialmente ferma? Quanta di questa speranza è stata sottratta a generazioni di italiani di un Sud considerato troppo spesso – al di là di ogni lagnanza “meridionalista” – prima una terra di conquista e poi un territorio da assistere? Forse, per far ripartire il meccanismo sociale bisognerà imparare a considerare – come fa Gianni Pittella nella sua postfazione – paradossalmente l’arretratezza del Sud come un vantaggio. Un valore così basso dal quale partire, ma dal quale sarà più facile totalizzare incrementi positivi. Ci vorrebbe un refolo, un piccolo soffio, una semplice bava del vento che cambia…

venerdì 1 aprile 2011

Retayan, la bambina che trasforma l’attesa in speranza e l’abbandono in famiglia – intervista ad Anna Maria Persia


C'erano una volta,
in un Paese che sembrava adagiato tra il cielo e l’azzurro Golfo del Hean, un Re e una Regina che non sapevano fare i genitori, poiché nessuno l’aveva insegnato loro.
Quando nacque la loro bambina, la splendida principessina Retayan, decisero di affidarla alle Fate Invisibili dell’allegria e dell’armonia, sicuri che quelle le avrebbero trovato una mamma e un papà in grado di accudirla e farla crescere felice.

Così comincia RETAYAN, il bel libro scritto da Anna Maria Persia e illustrato da Serena Rossi (Infinito edizioni, 2011, 36 pagine a colori su carta patinata in formato cm. 20x20, € 9,00), dedicato al mondo delle adozioni.

La piccola principessa Retayan è figlia di un re e di una regina che non sanno essere genitori. La bambina, appena nata, viene affidata alle Fate Invisibili dell’Allegria e dell’Armonia, per accudirla e farla crescere felice. Retayan va così a vivere, come tanti altri bambini, nel Castello Incantato tra i Monti Careim, dove le Suore si prenderanno cura di lei in attesa che le Fate le trovino una nuova famiglia, che la saprà amare e la farà davvero sentire una vera principessa.
È, RETAYAN, una favola basata su storie realmente accadute, illustrata ad acquerelli, sincera e delicata, che parla di adozione, d’amore, d’amicizia, con un finale dolce come gli occhi grandi e profondi di Retayan e di migliaia di bambini che condividono ogni giorno la sua esperienza.
È inoltre, per andare ancora più in profondità, un testo scritto sapientemente per giungere facilmente alla comprensione di lettori appartenenti a diverse fasce d'età.
La prima chiave di lettura è quella più piana e superficiale, destinata a un pubblico infantile, che trova nel libro avventura, amicizia, amore genitori-figli, semplici riflessioni sui diritti dei bambini.
La seconda chiave di lettura, più profonda, è quella destinata a un pubblico adolescenziale e adulto, con diversi livelli di approfondimento a seconda del background culturale del lettore. In questa seconda chiave troviamo allora facilmente e profondamente tematiche importanti come non solo l'adozione ma prima ancora l'abbandono, il trauma del rifiuto da parte dei proprio genitori, il sostegno all'infanzia che soffre e i diritti violati o negati, la forza universale dell'amicizia e il riscatto dalla condizione di dolore. ma anche una lettura scorrevole e divertente.
Le illustrazioni accompagnano abilmente e coerentemente questo doppio impianto, diventando a tutti gli effetti parte integrante del testo.
Ogni fascia d'età può trovare dunque il suo ristoro intellettuale e il suo livello d'impegno etico e morale in questo lavoro, in linea con la tradizione di questa casa editrice, che fa della coniugazione tra impegno sociale e piacere intellettuale la sua grande scommessa e, fin qui, uno dei suoi solidi punti di forza.

Di tutto questo e molto altro abbiamo parlato con l’autrice del libro, Anna Maria Persia.

Anna Maria, come nasce e chi è “Retayan”?
Sono partita dall’idea di raccontare cosa pensassero i bambini in istituto quando vedevano arrivare le mamme e i papà dei loro amici; cosa significasse per loro vederli andar via. Ho provato, attraverso il racconto, a dar voce ai loro pensieri e alle loro paure e li ho riportati in questa fiaba, perché le fiabe ci aiutano a trasformare l’attesa in speranza, la paura in forza e i desideri in realtà. E trasportata dalla fantasia ho immaginato che per i bambini vedere andar via un amico, con i propri genitori, fosse la testimonianza che i miracoli accadono davvero.
Raccontare queste sensazioni, oltre che un atto d’amore verso tutti i bambini che ho incontrato lungo il mio percorso, mi sembrava la cosa giusta da fare per rappresentare un mondo, quello dell’infanzia negata, fatto di attese e di sofferenze e che forse troppo spesso si ignora. Volevo porre l’attenzione sui diritti dei bambini ad avere una famiglia, ad avere protezione e cure necessarie.
Una delle cose che mi sono sentita chiedere durante la stesura della fiaba è se quella che si stava delineando era la storia della mia principessa e se stavo raccontando la mia esperienza di madre adottiva. Posso dire che i sentimenti sono assolutamente veri, concreti e vissuti, ma come in tutte le fiabe il tempo, il luogo, perfino i personaggi posseggono una magia e una indeterminatezza che li rende non identificabili. Retayan quindi è una bambina, anzi è ogni bambino “sospeso” che trova una mamma e un papà.

Possiamo provare a fare un “identikit” di Retayan, considerando la protagonista della tua favola la “bambina media” in attesa di un’adozione?
È una bambina abbandonata che vive in un istituto da poco tempo o forse da tanto, comunque senza l’affetto e l’amore dei genitori, senza le relazioni tipiche di una famiglia. Conosce la paura e la sofferenza, tuttavia nessuna difficoltà riesce a scoraggiarla. È determinata, è forte e non si lamenta neppure quando ha fame, sete o si sente male. Al di là di tutto, sa gioire delle piccole meraviglie che la vita le offre, ma la sua più grande risorsa è la speranza; infatti mai, neppure per un momento, rinuncia a pensare che il suo sogno possa realizzarsi.

Quali sono le problematiche dell’adozione internazionale e perché molte coppie scelgono questa soluzione al posto dell’adozione nazionale?
Le problematiche sono molte, basti pensare ai costi elevati (biglietto aereo, albergo, pranzi e cene), alla lunga attesa, agli ostacoli burocratici da superare e anche al difficile riconoscimento dell’idoneità. Però, in realtà credo che non siano tanto le coppie a scegliere l’uno o l’altro iter adottivo quanto i tribunali. Mi spiego meglio. La maggior parte presenta contemporaneamente doppie domande sia per l’adozione nazionale che per l’internazionale. Siccome la disponibilità nazionale ha validità tre anni, i tribunali prima dello scadere del tempo non prendono in considerazione le coppie, sperando che l’iter internazionale vada avanti e si concluda. Effettivamente in tre anni una coppia riesce ad adottare un bambino con l’adozione internazionale.

Il tempo è il fattore più pesante per una coppia di aspiranti genitori adottivi o c’è di peggio?
Sicuramente lo è, ma bisognerebbe considerare il tempo come fase ulteriore di preparazione. “L’attesa” è l’occasione per capire meglio i propri sentimenti e il significato di diventare genitori di un bambino abbandonato.

Invece, vista dall’altra parte, dalla parte di una bambina o di un bambino che aspetta dei genitori, quali sono i momenti più duri da superare?
I bambini affrontano due tipi di problematiche in momenti diversi: prima di incontrare i genitori e dopo che li hanno incontrati.
Prima: i bambini vivono le ansie dell’attesa, il dolore di vedere gli amici andar via e la paura di non realizzare i propri sogni.
Dopo: i bambini vivono le paure di cominciare una nuova vita con due persone sconosciute, in un Paese lontano; la paura di lasciare tutto il loro mondo (lingua, affetti, abitudini, punti di riferimento) per entrare definitivamente in un altro, ricominciando tutto da capo. I bambini compiono un salto nel buio e affrontano l’ignoto da soli. Poi piano piano arriva il giorno in cui il miracolo si compie e i due sconosciuti diventano mamma e papà.

Esiste un trauma da superare dopo che finalmente genitori adottivi e bambino si sono riuniti? E come farcela?
All’inizio del percorso adottivo, molte coppie pensano che basti l’amore per superare tutto. A volte pensano: “Quando il bambino starà con noi le sue ferite scompariranno” . E ancora: “Più il bambino è piccolo meno ricordi ha, più è piccolo e meno risente degli effetti dell’abbandono”.
Niente di più sbagliato! Le ferite si curano, non scompaiono. Essere adottati non è qualcosa che accade e poi si mette da parte, il passato resta e l’abbandono lascia i segni in un neonato così come in un bambino più grande. I genitori non possono cambiare né cancellare il passato del proprio figlio; quello che invece è fondamentale è rispettare e ascoltare la loro storia, per scrivere insieme il presente e il futuro. Solo così il bambino potrà meglio convivere con quello che è successo prima.

Qual è stato per te il momento più duro e quale quello indimenticabile, che ti ha ripagato di ogni sofferenza?
I momenti più belli sono stati quelli quando ho visto le loro foto, i più duri il tempo che ho dovuto aspettare prima di partire; quelli indimenticabili quando li ho presi la prima volta tra le braccia.

Questa splendida fiaba non solo vuole raccontare con dolcezza e positività ad adulti e bambini l’avventura dell’adozione, ma ha anche molteplici finalità etiche. Quali?
Lo scopo della fiaba non è solo quello di rappresentare le sofferenze dei bambini, perché rappresentarle non basta; i bambini che vivono negli istituti hanno bisogno di medicinali, cibo, vestiti, istruzione: per questo i proventi derivanti dai diritti d’autore del libro saranno interamente devoluti a favore dei bambini abbandonati. I progetti da seguire sono tanti, di volta in volta si stabiliscono quelli ai quali dare priorità.

Che cosa ha detto la tua Retayan quando ha visto che la sua mamma è diventata una scrittrice e che ha raccontato una storia che poteva essere simile alla sua?
Mia figlia non è contenta che io scriva, non perché abbia qualcosa contro le scrittrici – ci mancherebbe! – Lei è contro qualsiasi tipo di lavoro se a farlo sono io. Spera, come tutti i bambini, che la mamma resti a disposizione 24 ore su 24. Quanto alla storia, è stata molto chiara, mi ha detto: “Mamma, le fiabe sono tutte inventate, solo tu hai scritto una fiaba vera”. Tutto sommato non credo che il suo giudizio volesse essere negativo.

Un consiglio per chi, in conclusione, sogna di adottare.
Posso solo dire che l’adozione è una grande avventura. Affascinante e piena di vita.
È un sogno che si realizza. Una vita che comincia di nuovo per i figli, una vita che comincia di nuovo per i genitori. Certo è anche una sfida. Ci vuole una lunga preparazione e spesso ci si spaventa di fronte alle difficoltà che si debbono superare; a volte si pensa di non essere pronti.
Ma ne vale la pena perché al termine della strada c'è una affettività dilatata, senza confini.

I proventi dei diritti d’autore di questo libro sono devoluti in progetti a favore dei bambini abbandonati.