Ciao cari,
mi permetto di regalarvi un breve testo che ho scritto dopo la bella esperienza durata cinque puntate con Tv2000, nell'ambito della trasmissione "Mentre" di Maurizio Di Schino.
Ignoro se il racconto sia bello o brutto, se valga o non valga la pena leggerlo. Aspetto che siate voi, nel caso, a dirmelo.
Questo racconto nasce non dal desiderio di sviluppare una tematica in particolare ma da un insieme di stimoli ricevuti durante le puntate di “Mentre”. L’ispirazione non è un qualcosa a tenuta stagna ma si abbevera dell’enormità di stimoli che in un certo momento giungono a chi, dovendo o volendo scrivere, ha attivato tutti i suoi canali di ricezione. Nel mio caso, catalizzatore è stata una frase – “All’Africa stanno già rubando anche il sole” – ascoltata durante una delle puntate della scorsa settimana,. Da quella frase, e da un insieme di stimoli ricevuti, nasce questo breve e semplice racconto, che spero potrà rappresentare pochi minuti di piacevole lettura per chi avrà la pazienza di cimentarsi. Grazie.
L’uomo con la barba stava in piedi, leggermente curvo su un lato perché appoggiato a una colonna, un bell’appoggio a filo piuttosto sottile ma decisamente resistente se riusciva a sorreggere senza accusarne il peso, la ponderosa anta, incardinata in alto e in basso tramite due lunghe staffe.
Un acrocoro di nuvole, algide e lente, forse più semplicemente eteree e soavi come i sogni belli dei bambini, gli scorreva alle spalle, proscenio morbido e grato, quasi forse solo sospinto da battiti di ciglia.
Muoveva, lentamente, su e giù le palpebre, il barbuto, fasciato di cotone grezzo e fine pazienza, svelando ora, celando adesso, iridi ispirate al contrasto azzurro del cielo, sgusciato nella processione serena dei nembi.
Roteava, al di sotto di quei cerchi di cielo attoniti, un grosso mazzo di chiavi. Che però – curioso a dirsi, ora che ci penso – non producevano né nota né tanto meno tintinnio o acuto stridore.
Ricordo come fosse ora – ma sto imparando che in questa fetta di cosmo lo è sempre e non lo è mai – come se avessi ancora la scena a me davanti, il secondo uomo, quello che non ho incontrato più.
Parlava, costui. Ore e ore a perorare cause. Le sue, da quel che s’intuiva. Si giustificava, adduceva ragioni. E io, seduto nel mio angolino di spettatore silente e confuso, quasi mi divertivo ad assegnare ogni ragione addotta a ciascuna nuvola di passaggio, colmando il cielo terso di un giorno spensierato di cumuli di ragioni gettate al vento di quelle palpebre.
Infine sbottò, il secondo uomo:
“Credi non l’abbia capito? – ricordo fece con tono che allora mi parve amaro, ma oggi credo di sfida – Tu vuoi che mi penta!”.
Si fermò un istante, quasi folgorato da unj’idea che represse, da un’illuminazione che s’affrettò a spengere.
Si lisciò il mento incolto, con ambo le mani si massaggiò le guance scavate e grinze.
L’altro, per un solo immenso istante, parve rallentare la rotazione delle chiavi.
“Ma confessare, poi, che cosa mai?! – riprese quello allargando le braccia da vecchio gracile avvoltoio – Tutto ciò che ho preso, non l’ho mai tenuto per me. Mai. Tutto è sempre andato alla mia collettività. Tutto è sempre stato fatto nel nome dei miei.
Ero lautamente remunerato, come negarlo? Ma non ho mai, mai e poi mai rubato nulla ai miei. Che ancora oggi mi ricordano come un giusto. Un probo.
E io era ai miei che dovevo rendere ragione. Mica agli altri.
Partivo, sacrificando l’affetto dei cari, e al mio ritorno le mie mani erano colme di doni per la mia gente. Il necessario per non rinunciare a nulla e mantenere elevato il nostro stile di vita, le prospettive della nostra collettività di donne, uomini, bambini.
Sono stato un benefattore.
Mi hanno dedicato, ancora in vita, strade, piazze, persino palazzi, poi un’intera città.
Sono stato un benefattore del mio popolo. Della mia gente.
Ho portato petrolio per la nostra mobilità, gas per il nostro tepore, carbone per il nostro ludo e per dare luce al nostro mondo, coltan per far viaggiare dapprima la voce senza la schiavitù dei fili, poi i nostri stessi visi, diamanti per rendere ancor più splendenti le nostre donne, legname pregiato per i nostri palazzi, pelli e zanne per monili e pavimenti, braccia per le nostre campagne, godimento a poco prezzo per i nostri sodali soli…
E tanto, tanto, tanto ancora…
Sono stato un benefattore…
Poi…
Poi… certo… sì…- ora era visibilmente corrucciato e le braccia gli pendevano lungo i fianchi – a un certo punto ho forse perso…la misura. Ecco: la misura… ma rifiuto di essere condannato per questo. Solo per questo. Non potete!
L’ho fatto per amore… Ecco, sì…per amore… E, invero, ci ho provato in tutti i modi, prima di prendere quella decisione…
È stato dopo aver portato ai miei anche tutta l’acqua da bere, il cibo per mangiare e le erbe per curarci. Allora non mi era rimasto altro da fare, e ho provato a portare ai miei anche il sole! Sì, il sole!
D’altronde, lì ce n’era così tanto…
E loro, quelli…, beh, non sapevano che farsene, come di tutte le altre cose…che ho portato ai miei…
Ci ho provato in tutti i modi: ho cercato di inscatolarlo, spostarlo, trascinarlo con grandi funi, affettarlo, bucarlo per portarne via un foro alla volta, aspirarlo… Ma il maledetto non si spostava. Pareva non voler davvero venire con me. Eppure mi mancava solo quello, da portare ai miei… Il mio fiore all’occhiello, a fine carriera…
Allora, non potendoglielo neanche spegnere, gliel’ho oscurato, il sole, costruendo un’enorme tenda nera, immensa, che ho alzato su in cielo. E ho oscurato tutto.
Ora tu mi stai dicendo che mi sono accanito contro… ma non capisci? È stato il sole ad accanirsi contro di me! È stato lui a volersi opporre, a non voler venire via con me. Dai miei…
E tu, per questo, ora non vuoi lasciarmi passare…
Come puoi respingere uno che ha solo voluto il bene dei suoi?... La colpa, vedi… La colpa non è stata mia. La colpa è sua! Lo è sempre stata. La colpa è dell’Africa!”.
Il primo uomo socchiuse un’ultima volta le palpebre. Smise di roteare le chiavi. Congiunse le mani e si voltò.
Le nubi, che ora ammirava in tutto il loro morbido incanto, ingrigirono e, come per celeste comando, mutò lo scenario, s’incupì il palcoscenico, quasi si spense la luce, e io mi feci piccolo, nel mio cantuccio, ora spettatore terrorizzato.
Tramutò, d’improvviso, ancora lo scenario, e ora una quinta rigata di pioggia calda convertì quel luogo in sordo, denso dolore.
Il secondo uomo scomparì, d’improvviso.
Ma un istante prima che quest’ultimo inatteso evento si compisse, come per magia, la quinta bagnata s’aprì.
Dietro, comparve Dio.
Piangeva.