martedì 24 agosto 2010

A Lampedusa, l’isola che voleva diventare grande ma divorò se stessa


Lampedusa, estremo sud d’Italia e meta agognata dalle migliaia di migranti che intraprendono rischiosi “viaggi della speranza” lungo le rotte del Mediterraneo.
Terra di mammane, di scarse scuole e troppe case, bella e sfregiata dall’abusivismo edilizio; isola dalle mille contraddizioni dove anche l’immigrazione può diventare guadagno. Spesso dai contorni loschi. Questi i temi dello splendido A LAMPEDUSA, di Fabio Sanfilippo e Alice Scialoja (Infinito edizioni, 168 pp., 13 euro).
Lampedusa non è, e non è stata, solo l’epicentro degli sbarchi irregolari ma è il simbolo di un’Italia furba seppure dal cuore grande. Nel 2008 sono sbarcati a Lampedusa circa 31.000 migranti. Da maggio 2009, il centro di soccorso e prima accoglienza è vuoto. I barconi non arrivano più. Ma il malaffare è sempre lì, dietro l’angolo.
Fabio Sanfilippo e Alice Scialoja raccontano l’isola più discussa del Mediterraneo conducendo un’appassionante inchiesta giornalistica e dando voce a chi di questa terra ha contribuito a tracciare la cronaca saliente di questi ultimi anni: dalla senatrice leghista Angela Maraventano ex vicesindaco di Lampedusa e Linosa ai rappresentanti delle organizzazioni che hanno operato sul posto – Msf, Unhcr, Legambiente ecc. Dal viceparroco tanzanese ai tanti Mourad che vengono dal Marocco o da altri Paesi africani. Dal prefetto Mario Morcone ad Adelina l’ostetrica che a Lampedusa ha fatto nascere tutti. O quasi.
Scrive sul libro Carlo Bonini: “In un Paese senza memoria – il nostro – prigioniero della sindrome da assedio, A Lampedusa è una luce nel buio pesto. È un atto di coraggio civile. È il racconto minuzioso di un’isola ridotta a discarica di corpi, cose e barche, spiaggiati da quel tratto di mare che oggi divide gli uomini non tra bianchi e neri. Ma tra la vita e la speranza di poter avere un giorno qualcosa che le somigli”.
Di quest’isola, della sua gente, dei suoi problemi ho parlato in quest’intervista con i due autori.

Per la maggior parte degli italiani Lampedusa è associata a due immagini: il mare turchese dell’Isola dei conigli e gli sbarchi dei migranti senza documenti. Leggendo A LAMPEDUSA si scopre che questo scoglio in mezzo al Mediterraneo è molto di più. Potete raccontarcelo?
Lampedusa è il simbolo di un’Italia furba ma con un cuore grande, abitata da uomini e donne che si impegnano per soccorrere i disgraziati che sopravvivono ai viaggi bestiali lungo il mare. Ma anche di un Paese con il vizio di litigare per le proprie competenze, con una classe politica incline ad accendere o sopire gli animi a seconda delle opportunità e delle convenienze del momento. Una classe politica, come nel caso del sindaco di Lampedusa, refrattaria al passo indietro, nonostante un arresto e un rinvio a giudizio per concussione. È il simbolo dell’Italia delle cricche pronte a sfruttare le tragedie pur di fare business. È l’Italia della Protezione civile che anche a Lampedusa, in questi ultimi anni di “emergenza clandestini”, ha fatto il bello e il cattivo tempo diventando il principale e quasi esclusivo ente appaltante nell’isola. Appalti che sono stati affidati per via diretta, bypassando le regole comuni. È il simbolo di un sud sempre arrabbiato con Roma ma che da Roma pretende e, nel caso di Lampedusa, pretende a titolo di risarcimento per il danno di immagine (parole dell’assessore al Turismo) subìto a causa dell’immigrazione: fondi a compensazione, creazione di una zona franca, costruzione di un casinò. Un’Italia dove sviluppo significa cemento, abusivismo edilizio e sfruttamento intensivo del territorio. E che, spesso, si dimentica dei suoi concittadini più sfortunati e poveri che per curarsi – visto che a Lampedusa non c’è l’ospedale o comunque un centro medico degno di questo nome – sono costretti a spendere i risparmi di una vita.


Da quale suggestione, idea o tesi nasce il libro e che cosa vuole dimostrare?
A LAMPEDUSA non è un libro a tesi. È certamente un libro politico, perché attraverso la nostra inchiesta interveniamo su temi cruciali quali sono l’immigrazione e la legalità e alimentiamo il dibattito pubblico. Abbiamo voluto raccontare il contraddittorio rapporto – nell’anno degli sbarchi record, il 2008 – tra Lampedusa (e quindi l’Italia) e il fenomeno dell’immigrazione irregolare. E lo abbiamo fatto cambiando la prospettiva, mettendo l’isola al centro e guardando Lampedusa da Lampedusa. E quello che è venuto fuori, lo dicevamo prima, è l’affresco di un Paese furbo ma al tempo stesso generoso.


La pubblicazione come è stata accolta dai lampedusani e dai siciliani?
I siciliani - quelli “di terra” - sono fatalisti, diffidenti e curiosi allo stesso tempo. E curioso, diffidente e fatalista è stato il pubblico che abbiamo incontrato nel corso delle presentazioni del libro a Palermo, Catania e Agrigento. A commento delle pratiche al limite della legalità che raccontiamo nel libro, spesso ci siamo sentiti dire: “Cose che si sanno, che fanno tutti e che si sono sempre fatte”. Però a pochi salta in mente di denunciarli, quei fatti e quelle pratiche, di combatterle. Ma c’è una parte sana della società siciliana, che è invece capace di indignarsi, di sorprendersi, di denunciare e di lavorare per un futuro fatto di legalità, uguaglianza e integrazione. E noi abbiamo avuto la fortuna di incontrarne tante di persone così. Anche, e forse soprattutto, a Lampedusa, dove abbiamo avuto modo di confrontarci con la società civile e con qualche esponente delle passate amministrazioni. Peccato, invece, che siano stati propri gli amministratori in carica a non avere accettato il confronto. Ci ha fatto molto piacere, e lo diciamo con una punta di orgoglio, che siano stati proprio i lampedusani a definire il libro un atto d’amore nei confronti dell’isola. È come – ci hanno detto – se ci aveste messo di fronte a uno specchio, costretti a guardarci e a fare i conti con quello che siamo.


Qualche telefonata “strana” l’avrete ricevuta, però…
Una sola, e per di più quando ancora il libro non era stato distribuito. Una telefonata arrivata mentre eravamo a Torino alla vigilia della presentazione al Salone internazionale del libro, a metà maggio. Da Lampedusa una persona che conoscevamo ci chiedeva se fosse vero che avessimo scritto un libro che parlava male dell’isola e come mai. Rispondemmo all’interlocutore di valutare personalmente e che ci saremmo risentiti a lettura terminata. A luglio ci siamo rivisti. Aveva comprato dieci copie.


Quali sono le prospettive dell’isola, oggi che i migranti senza documenti non arrivano più e che lo scoglio sembra in procinto di essere trasformato in un “vacanzificio” di massa?
Intanto occorre sfatare il luogo comune dell’immigrato che a Lampedusa non arriva più, nonostante i continui proclami del ministro Maroni. L’immigrato a Lampedusa non viene fatto arrivare, che è cosa diversa. E quando ci arriva - come è successo il 22 luglio con lo sbarco a Cala Francese di circa 50 migranti, e noi eravamo lì – viene tenuto al sole, sul ciglio della strada in attesa di essere trasferito a Porto Empedocle o altrove. Nonostante a Lampedusa esistano e siano funzionanti (e vuoti) due centri per immigrati finanziati con i soldi dei contribuenti. Tutto ciò affinché Maroni possa dire: “A Lampedusa gli immigrati non arrivano più”. È vero che da quando è entrato in vigore l’accordo con la Libia e il governo ha deciso di adottare la politica dei respingimenti in mare, il flusso di barconi verso Lampedusa si è praticamente arrestato, ma è altrettanto vero che i migranti continuano ad arrivare e arriveranno sempre. Trovano altre rotte, come quella che porta sulle coste del Salento, dove negli ultimi mesi gli sbarchi sono praticamente triplicati rispetto a un anno fa. A Lampedusa il nostro Paese ha perso l’occasione di misurarsi con civiltà e senso dell’accoglienza con il tema epocale dell’immigrazione. Lì, in quello scoglio in mezzo al mare che è più vicino all’Africa che all’Europa, sono in molti ad averlo capito. A partire dai tanti giovani che gravitano intorno al mondo dell’associazionismo, da Legambiente all’Arci, e della Chiesa. Uomini e donne che vorrebbero per Lampedusa uno sviluppo diverso da quello proposto dall’attuale amministrazione, ferma all’equazione sviluppo uguale turismo di massa e cementificazione selvaggia.


Come fa l’isola a sopportare un incremento incredibile di presenze, dalle seimila o poco più dell’inverno alle 30-40.000 di agosto?
Lo fa in nome del dio denaro e della massimizzazione del profitto ma a scapito della qualità e dell’ambiente. E per quanto riguarda la ricettività nessun problema, grazie proprio alla cementificazione selvaggia dell’isola, dove hanno edificato per una cubatura pari a una popolazione di 60.000 persone a fronte di 6.000 abitanti e – in agosto – di 30.000 turisti. È evidente che un sistema del genere alla fine è inevitabilmente destinato all’implosione. L’auspicio è che chi amministra Lampedusa se ne renda conto prima che sia troppo tardi.


Alla fine, se vogliamo, l’unica parte dell’isola di Lampedusa con qualche albero e protetta dal turismo di massa è quella sottoposta a vincolo militare, quindi divisa dal resto del territorio dal filo spinato. Non è paradossale, persino grottesco, o alla fine è una situazione in linea con quella che è l’Italia oggi?
Soprattutto è paradossale il fatto che un’amministrazione favorevole al cemento sia poi costretta a utilizzare le immagini della riserva naturale e della Spiaggia dei conigli per pubblicizzare Lampedusa in Italia e nel mondo! Forse dovrebbero mettersi d’accordo con loro stessi e decidere se vogliono casinò e campi da golf o valorizzazione e tutela del territorio e dell’ambiente.


E la mafia?
Fa affari, anche a Lampedusa e anche, in parte, con il traffico dei clandestini. Non è certo una novità la presenza o l’interesse di Cosa Nostra per l’isola. Quello che inquieta, semmai, è che per la prima volta a Lampedusa e Linosa viene segnalata la presenza di una famiglia mafiosa che costituisce mandamento a se stante. E non lo diciamo noi: lo scrive la Direzione investigativa antimafia nel secondo rapporto semestrale del 2008.

lunedì 16 agosto 2010

Se la nuova Zazie e un Goethe bicentenario s’incontrano a Roma…



Lena è un “impiastro” di bimba e vive nella periferia parigina con la zia Marceline e lo zio che vende le pizzette ai turisti. Gioca spesso con il suo amichetto Zyed ed è affezionata a Bouna, il profugo clandestino che di sera grida per le strade. Una notte Lena si alza dal letto e fila via; prende il treno e arriva a Bellinzona, nella Svizzera italiana, dove incontra il poeta Giorgio Orelli che le regala il suo cappello. Il viaggio di Lena continua fino a Roma. Nel frattempo uno strano spiritello si materializza e sale su un treno a Lugano: è la strampalata reincarnazione di Johan Wolfgang Goethe, ultrabicentenario, che ha appena deciso di rifarsi un viaggetto in Italia, alla ricerca di un contatto editoriale con Bruno Vespa e per respirare un po' di Belpaese...
Questi gli ingredienti di un libro divertentissimo, LENA E IL POETA, scritto per Infinito edizioni dalla coppia ticinese Daniele Dell’Agnola-Sergio Roic.
Ne abbiamo parlato con Daniele Dell’Agnola, già autore dell’ottimo Melinda se ne infischia.

Daniele, come e perché nasce “Lena e il poeta”? Qual è l’ispirazione del libro e quale il filo conduttore?
Il filo conduttore è senz’altro la creatività, nel trasportare un’esperienza giornalistica vissuta sul campo, in una storia d’invenzione, in cui realtà e fiction si fondono. Lena e il poeta è un libro ibrido, tra il romanzo, il réportage e il saggio. Il tema centrale è l’italicità nel mondo, cioè l’amore per la cultura e la lingua italiana. Ma l’argomento che abbiamo voluto sviluppare poggia anche sull’esigenza di scrivere divertendosi e sul bisogno di divertire il lettore: Lena ha 9 anni e fa disperare tutti gli adulti che incontra, punzecchia, diverte, è un folletto imprendibile. Il poeta, il Goethe ultra bicentenario, è uno strampalato spiritello che parte dalla Svizzera (da Lugano) per giungere a Roma, dove incontrerà la piccola Lena. E allora, scintille…
Infine, Lena e il poeta, concretamente, nasce dall’incontro di due autori svizzeri di lingua italiana, che si sono conosciuti a Roma, al palazzo della Fao, in un momento in cui entrambi erano lì a fare gli opinionisti, in occasione della prima Assemblea dei giovani italiani all’estero.

Al centro del libro, esilarante, c’è la tematica degli italiani che vivono all’estero, il loro essere considerati come “mezzi italiani”. Come vivono questi milioni di nostri connazionali la loro strana italianità e come vengono trattati dal loro Pese d’origine?
Alcuni (i giovani più brillanti, che stanno facendo carriera nelle università estere, o che si stanno realizzando altrove) sembrano delusi dall’Italia, ferma, poco meritocratica, un poco…mafiosetta… ma forse dicendo questo si scontrano con le esigenze dell’attuale governo, che non vuole si parli troppo di mafia. Sbaglio? È curioso che un giovane ricercatore di Oxford, di cui si parla nel libro (e non è fiction, questo episodio) veda l’Italia potenzialmente valida, ma in realtà provinciale: lui se n’è andato da Roma. Ho invece visto poca nostalgia dell’emigrante, perché questi giovani osservano l’Italia dall’esterno e hanno gli occhi proiettati avanti.

Anche voi, in qualche modo, siete un po’ a metà strada: svizzeri ticinesi di madre lingua italiana che si muovono culturalmente lungo il confine e hanno nel mercato editoriale italiano lo sbocco naturale per la loro letteratura…
Sì, noi dobbiamo uscire dal nostro territorio nazionale per confrontarci. Ma dobbiamo, nel contempo, come svizzeri, oltrepassare il Gottardo e fare i conti con i francofoni e gli svizzeri tedeschi. La nostra è una realtà particolare: da un lato piccola, chiusa, rinchiusa. Dall’altro, proprio per questo motivo, dobbiamo guardare oltre, cercare delle reti, dei contatti, dei confronti. Altrimenti moriamo su noi stessi.

Come nascono le figure letterarie di Lena e del vecchissimo Goethe e come s’inseriscono nel tema centrale del libro?
Lena nasce dalla figura letteraria di Zazie nel metrò di Raymond Queneau, è una trasfigurazione, quasi un’imitazione adattata alle esigenze narrative. Goethe nasce dalla lettura del Viaggio in Italia che il mio co-autore, Sergio Roic, ha ripreso come spunto, per parlare di italicità.

Che idea ci si fa, dal Cantone Ticino, dell’Italia e degli italiani?
È difficile rispondere, perché si corre il rischio di generalizzare. Per noi l’italiano è stato importantissimo come forza lavoro negli anni Sessanta, Settanta, Ottanta. Ma italiani illustri sono passati dal Ticino, hanno soggiornato qui. Altri (penso a Gianfranco Contini) hanno addirittura insegnato nelle nostre università (Friburgo, nel caso specifico). Altri ancora, come De Sanctis, erano a Zurigo. Quindi il legame con l’Italia è storicamente fortissimo e significativo. Ora noi vediamo l’Italia come una signora che dovrebbe rinnovarsi, ma forse non ne ha le forze. O forse la vedo solo io così. Non riesco a capire se l’Italia è “indietro” o se è già “avanti”. Se è già avanti rispetto al resto dell’Europa, allora si prospettano tempi grami. Ma c’è tanta potenza, nell’Italia che vedo io. Forse questa potenza è nascosta, è nel sottosuolo: e se ci fosse un terremoto? Ma uno di quelli che costruisce… Boh… E se parlassimo dei problemi svizzeri? Ahi…

Facciamolo in parte: qual è l’immagine dell’Italia odierna nei media svizzeri?
La Svizzera ha, tra le sue caratteristiche, una ricchezza: nel nostro Paese si parlano quattro lingue (il tedesco, il francese, l’italiano, il romancio). Per questo motivo sono diverse anche le sensibilità con le quali si guarda alla cultura di riferimento. I media della Svizzera italiana danno un’immagine dell’Italia che i media svizzero tedeschi o francesi restituirebbero difficilmente. Un esempio: in Svizzera da qualche anno emerge un partito politico di destra, l’Unione democratica di centro (che, davvero, in realtà non si pone al centro, politicamente). Questo partito traccia, nel proprio programma politico, una serie di temi di sicura presa emotiva (recentemente in Svizzera vi è stata una campagna contro la costruzione dei minareti). Nella Svizzera italiana, in particolare in Ticino, l’Udc non è così forte, ma da ormai vent’anni abbiamo la presenza, nel panorama politico, del movimento leghista. La Lega dei Ticinesi nasce e si collega in un qualche modo alla Lega Nord: sono frequenti gli incontri tra gli esponenti svizzeri della Lega dei Ticinesi e i militanti della vicina penisola. Spiego questo, per far capire quanto è complesso capire il punto di vista mediatico svizzero sull’Italia. Bisognerebbe porre questa domanda a un politologo.

In conclusione, se aveste a che fare con una peste del calibro di Lena, come vi comportereste?
Io le chiederei di scrivere un racconto. Così sta tranquillizza un po’.

E al vostro Goethe ultrabicentenario desideroso di viaggiare di nuovo in Italia, che cosa consigliereste e sconsigliereste?
Rispondo da Svizzero tedesco: cibo, mare, sole. Consiglierei la Calabria, oppure la Sicilia, oppure il Gargano, oppure… Gli sconsiglio di stabilirsi in Italia, soprattutto se vuole fare politica. Se volesse invece vivere in Italia per scrivere e pubblicare libri, buona fortuna…

“Puro amore”, quanto alta letteratura e materialità si fondono e parlano di libertà


Kami. Intellettuale cattolica, professoressa. Un giorno si accorge di amare Annie appassionatamente. Sì, Annie… Ha soprannominato così il suo amore per via di una somiglianza fisica con la cantante Annie Lennox.
Kami e Annie sono donne, sono madri, sono due serie insegnanti della scuola pubblica italiana e hanno un marito.
Scandalo.
La loro passione si dispiega in un susseguirsi di emozioni in cui il sesso è raccontato senza alcuna reticenza ma con quell’ironia che aiuta a esorcizzare anche i momenti più drammatici, che sfociano, come speiga lo scrittore Giuseppe Caliceti, autore della prefazione del libro, in una vera e propria “Guerra Santa emotivo-sentimentale senza esclusioni di colpi e di intelligenze, come solo le donne sono capaci di concepire e mettere in atto”.
Ho intervistato Daniela Tazzioli per parlare di PURO AMORE ma anche di molto di più.

Daniela, esiste davvero il puro amore che dà il titolo al tuo libro?
Penso di sì, nel senso in cui lo intende Kami, protagonista e io narrante. “Puro amore” non è quello della visione romantica o lirica che il titolo può suggerire, quanto piuttosto qualcosa di molto materiale, che può arrivare persino a urtare la sensibilità del lettore, tanto che viene associato a faccende meramente fisiologiche. C’è una purezza molto concreta, carnale, materiale nello sguardo di Kami: il suo amore è “puro” ovvero non traviato da sovrastrutture ideologiche e quindi può permettersi di raccontare il sesso senza alcuna reticenza ma senza morbosità e di utilizzare, con sapienza e libertà, il linguaggio biblico per descrivere il proprio amore e disamore.

Raccontaci qualcosa di questo lavoro, il cui sottotitolo, decisamente incisivo e spiazzante (Kami ama Annie appassionatamente. Entrambe hanno marito…), eccita l’immaginazione e fa precipitare ogni punto di riferimento.
L’intento era quello di raccontare, con semplicità e ironia, una storia d’amore fra due donne, due madri, due insegnanti della scuola pubblica, nell’Italia di oggi, nella sua quotidianità fatta di bellezza e tormento e che non si distingue, se non per qualche piccolo dettaglio tecnico, dalle storie etero. È il racconto di un’esaltazione amorosa e della sua fine, vissuto dalla protagonista come una passione dai toni epici, ma anche molto quotidiani.

Quanto c’è di autobiografico in questo incredibile romanzo?
C’è uno sfondo autobiografico con una trasfigurazione letteraria. Soprattutto nella caratterizzazione dei personaggi ho un po’ forzato la mano, ché sono visti appunto attraverso lo sguardo di Kami la quale, come ogni vera eroina, è anche un po’ manichea.

Perché il libro è dedicato a Annie Lennox?
La co-protagonista è soprannominata Annie per via di una somiglianza fisica con la cantante Annie Lennox, di cui Kami è una grande fan. A un certo punto della storia Kami si chiede come abbia potuto essere stata così abbagliata dalle doti fisiche della sua Annie da scambiarle con la statura morale della “vera Annie Lennox”, alla quale, per questo, Kami chiede formalmente scusa. La dedica è quindi, in aperta polemica con la “finta”, alla “vera Annie Lennox”, per quello che per Kami e per me rappresenta: colonna sonora delle mie giornate, splendida ultracinquantenne autentica, instancabile sostenitrice di campagne umanitarie.

Tu vivi in Svizzera, a Basilea, ma sei modenese di nascita. Inoltre sei cattolica di formazione. Come vedi la posizione degli omosessuali in una società decisamente ipocrita e a tratti persino omofoba come quella italiana?
Mi sentirei di spezzare una lancia in favore dell’Italia, la cui società mi sembra, in realtà, molto più avanti, rispetto all’accettazione dell’omosessualità, di quanto non si voglia far credere. Certo, la cronaca ci riporta ricorrenti episodi di omofobia, soprattutto nella capitale, e la battaglia per la conquista dei più elementari diritti civili è ancora dura in Italia, ma mi sentirei proprio di dire che c’è davvero uno scarto fra società e politica e quindi legislazione. La Svizzera è certamente più avanti per quel che riguarda la legislazione perché esiste già da alcuni anni la legge per il riconoscimento delle coppie di fatto e ci si appresta a votare per concedere l’adozione alle coppie gay. Inoltre, ci sono campagne ufficiali contro l’omofobia che vengono portate avanti nelle scuole e c’è molta attenzione alle minoranze, in genere. Resta da capire quanto questo collimi con il reale sentire sociale, perché la Svizzera rimane un Paese impregnato di cultura calvinista in cui la stigmatizzazione sociale, nei contesti più rurali, permane. L’Italia, al contrario, è condizionata ovviamente dal Vaticano e questo impedisce non tanto alla società, quanto alla politica e, di conseguenza, al legislatore, di avanzare. Ed è davvero grave perché, comunque, alla lunga, la legge ha una sua funzione educativa, trasforma la mentalità abolendo tabù o creandone di “positivi”, come è avvenuto, ad esempio, con il duello.

Quali reazioni ha destato nel “tuo” mondo, quello degli affetti familiari, degli amici, del paese, il tuo libro?
Devo dire che le persone mi hanno davvero sorpreso per la loro apertura mentale e mi riferisco anche ai miei amici provenienti, ad esempio, dal mondo cattolico, i quali si sono rivelati, a volte, molto più aperti, empatici e solidali di altre persone cosiddette “laiche”. La mia famiglia poi, che è composta da una schiera numerosissima di zii e cugini, ha avuto, nei miei confronti, un atteggiamento estremamente protettivo e, su qualunque giudizio, è prevalso l’affetto che ci lega.

Ti aspettavi questa reazione o pensavi a qualcosa di diverso?
Temevo fortemente un giudizio sulla mia persona a vari livelli che, invece, devo dire non c’è stato. Solo un’amica, con la quale c’era un rapporto di stima e affetto, dopo aver letto il libro ha deciso di non frequentarmi e questa reazione mi ha ferito perché non proveniva da un lettore anonimo, ma mi ha anche fatto sorridere perché denuncia una fragilità che, in un qualche modo, il libro è andato a toccare. In generale però, parenti e amici hanno espresso magari la loro difficoltà o il loro minore apprezzamento rispetto ad alcune parti del libro, ma da nessuno ho percepito un giudizio sulla mia persona e questo, sì, rispetto ai miei iniziali timori, mi ha sorpreso in positivo.

Tu tieni anche un blog (www.danitazzioli.splinder.com) che è seguito da alcune centinaia di persone. Che significato ha per te questo tipo di scrittura?
Il blog è per me uno straordinario strumento di scambio con i miei lettori ed è la cosa che più apprezzo di quest’esperienza. Non c’è infatti scrittore che possa dirsi tale se non ha anche un solo lettore ufficiale e per questo io sono molto grata ai lettori che mi seguono, a ogni singolo lettore, ai quali rispondo sempre, proprio per una questione di rispetto e gratitudine.

Che cosa ti ha insegnato scrivere un libro?
Sembra banale se dico così, ma scrivere è la mia vita. Finora, per una serie di travagliate vicende esistenziali, non ho avuto molta visibilità editoriale, ma io non ho mai smesso di scrivere da quando ho composto le mie prime poesie a sette anni. Sarebbe quindi forse più appropriato chiedere che cosa mi ha insegnato pubblicare un romanzo e risponderei che è stata, per me, un’avventura molto più difficile che scrivere. Scrivere è infatti per me il mio quotidiano, tutto ciò che invece succede dal momento in cui sai che pubblicherai era per me assolutamente inedito e, quindi, difficile da gestire. Ringrazio, per questo, il mio editore che ha dimostrato di avere molta pazienza con me e le mie paturnie.

Lo rifarai?
Sì, spero proprio di poter continuare a scrivere e pubblicare negli anni a venire.