giovedì 25 giugno 2009

Federico e la bussola per un mondo migliore


Un diario per un’infanzia da crescere e far diventare un’umanità migliore

Non spaventarti, Federico” è un diario di viaggio, un colorato e affascinante album di fotografie, una struggente raccolta di ricordi, un libro ironico e autoironico e molte, moltissime altre cose ancora. Ed è un libro che non ti stancheresti mai di leggere e che subito ti fa sentire la sua mancanza, appena hai letto e voltato l’ultima pagina.
Di questo piccolo gioiello editoriale – che si giova della prefazione di Stella Pende e dell’introduzione di Marco Scarpati – ristampato dopo solo un mese dall'uscita in libreria, abbiamo parlato con Olivia Molteni Piro, l’autrice.

D. Olivia, il tuo libro è “solo” tutto questo o è anche qualcosa in più?
R. Per me è soprattutto una dichiarazione d’amore alla vita non sussurrata ma gridata con forza. Quella vita che non puoi accettare di vederti passare davanti stando “seduta in panchina”. Quella vita che acquista valore nel momento in cui la gioia e la sofferenza degli altri si legano indissolubilmente alle tue tanto da rendere impossibile stabilire una linea di confine tra te e gli altri esseri umani che camminano al tuo fianco.

D. Federico è tuo nipote, il tuo primo nipote, e rappresenta al contempo un momento di arrivo e una fase di ripartenza. Tu esattamente in quale fase ti senti oggi e come stai affrontando questa nuova avventura da combattiva e inossidabile nonna?
R. Non sono mai riuscita a considerarmi nella fase di arrivo e credo di aver sempre volutamente spostato i traguardi da raggiungere ogni volta che mi ci avvicinavo. Oggi ho scelto di rallentare la corsa per adeguare il mio passo a quello di Federico. Mi entusiasma guardare il mondo con i suoi occhi, condividere il suo stupore, scoprire e imparare ogni giorno qualcosa di nuovo grazie a lui.
Sognare che abbiamo la possibilità di scrivere, insieme, una nuova pagina della storia, non solo nostra, ma delle persone che conosceremo. Sperare che condivideremo gli ideali e i valori che hanno condotto me per mano fino a oggi e che potranno diventare i suoi e poi quelli dei suoi figli e dei suoi nipoti.

D. Di che cosa esattamente non dovrebbe spaventarsi Federico e quanto le storie e i consigli che dedichi a tuo nipote sono, in realtà, bussole per l’infanzia che costituirà l’umanità – speriamo migliore – di domani?
R. Io spero che Federico, come molti altri bambini che si affacciano ora alla vita e che saranno gli adulti di un futuro a noi ancora sconosciuto, non debba avere paura di assumersi la responsabilità di essere testimone di uno stile di vita che mette in primo piano e adotta come priorità il rispetto reciproco, la giustizia sociale, l’uguaglianza di diritti, la convivenza pacifica e lo scambio delle ricchezze che la multiculturalità può offrire. Le bussole che io gli sto offrendo, non solo con le parole, ma con concreti esempi di vita, possono aiutarlo a desiderare di prendere le distanze da tutto ciò che va contro queste priorità per sforzarsi di costruire, come tu dici, un’umanità migliore.

D. Hai speso tanti anni della tua vita soprattutto in Africa. Quali immagini ti sono rimaste più scolpite nella memoria, quali sensazioni? E che cosa vuol dire, secondo te, viaggiare veramente in Africa?
R. Ciò che mi ha sempre colpito dell’Africa e che me l’ha fatta amare è la grande dignità con la quale anche le povertà e le privazioni più estreme vengono vissute e affrontate. L’orgoglio della sua gente che rialza sempre la testa qualunque sia il piede che cerca di calpestarla. Gli occhi dei bambini che riescono a sorridere anche quando la loro vita è appesa a un filo. I visi degli anziani che raccontano le fatiche di un’esistenza all’insegna del duro lavoro. Le strette di mano di uomini e donne che trasmettono energia vitale. La semplicità delle relazioni umane, il naturale istinto all’ospitalità nei confronti di chi è “altro da te”, la solidarietà silenziosa e scontata tra esseri umani…e potrei continuare ancora e ancora. Laddove la contaminazione della società occidentale ha preso il sopravvento e l’identità dell’Africa ha lasciato il posto a un ibrido tentativo di assimilazione alla nostra identità, tutto il suo patrimonio di valori e di onestà relazionale si è trasformato in un costante tentativo di strumentalizzare “l’altro” ai propri fini, con il triste convincimento che ciò possa essere una giusta compensazione a quanto l’Africa ha subìto dal resto del mondo per secoli. E mi fa male assistere a tutto questo perché l’Africa è in grado di mantenersi integra, con una visione positiva di sé e delle proprie risorse e con la capacità di “ricostruirsi” ponendo in atto, con il coraggio e l’onestà che la contraddistinguono, quei cambiamenti imprescindibili che ne favoriscano la crescita. Mi riferisco al rifiuto di aiuti internazionali che pongono vincoli e regole penalizzanti per l’Africa, mi riferisco all’eliminazione di governanti e uomini di potere corrotti, mi riferisco al coraggio di cessare di imitare quello che noi occidentali proponiamo come modelli.
Ecco, credo che viaggiare in Africa significhi sgomberare la propria mente da stereotipi e luoghi comuni lasciando che l’Africa ti entri dentro e si manifesti per quello che è veramente, non per quello che noi riteniamo che sia e vogliamo che continui a essere. Viaggiare in Africa significa saperne cogliere la ricchezza guardando oltre quello che gli occhi vedono.

D. La tua famiglia, i tuoi figli, sono per un terzo italiani e per i restanti due terzi africani o indiani. Come questa composizione ha modificato i rapporti interni alla vostra famiglia e con tuo marito Luciano e, in particolare, come, negli anni, ha modificato l’immagine di te e di voi in una città come Como, nell’opulenta Lombardia leghista?
R. I rapporti interni alla famiglia sono stati costruiti su basi solide, su profonde convinzioni, sulla disponibilità a mettersi sempre in discussione, a dialogare e a confrontarsi. Questo anche prima che la famiglia assumesse la caratteristica che ha oggi di una microsocietà multiculturale! Ogni decisione che presupponesse un cambiamento o una scelta è stata sempre condivisa da tutto il nucleo familiare e il massimo rispetto per il vissuto, i ricordi, la personalità, la cultura di appartenenza e la religione di ogni singolo membro della famiglia è stato presupposto imprescindibile al nostro “essere famiglia”. I miei figli, cittadini italiani di pelle nera, vivono quotidianamente episodi che, se non definibili discriminanti, evidenziano comunque la loro diversità. Ma la situazione buffa è che, appena vengono identificati come nostri figli, la connotazione quasi sempre negativa della diversità improvvisamente scompare. La Lombardia leghista, la Como leghista, è infastidita dai neri per le strade, ma se i neri si chiamano Piro…vi possono camminare…

D. Che cosa cambieresti della tua vita senza pensarci due volte e che cosa rifaresti assolutamente di nuovo?
R. Rifarei assolutamente tutto come l’ho fatto. Anche le esperienze negative (e ce ne sono state tante) mi sono state comunque utili e mi hanno insegnato qualcosa. Non cambierei niente.

D. “Non spaventarti, Federico” è legato a un importante progetto in Burkina Faso, nel quale ti sostiene anche l’associazione lariana Menala onlus. In cosa consiste questa nuova avventura e quali sono gli obiettivi che ti proponi di raggiungere?
R. La nuova avventura è la realizzazione di un centro sanitario con reparto maternità e alloggi per medici e infermieri in un villaggio, Bilogo, i cui abitanti (quasi 5.000) non hanno mai visto un medico perché il dispensario più vicino si trova a 15 chilometri di distanza e il loro villaggio è estremamente decentrato rispetto ai servizi accessibili più vicini. Le donne muoiono di parto, i bambini non raggiungono il primo anno di vita, la popolazione del villaggio non ha accesso a nessun tipo di medicina di base. Sento di dovere a questa gente un aiuto concreto affinché la qualità della loro vita possa migliorare senza esserne stravolta. Il personale del centro sarà burkinabè e i salari saranno pagati dal governo del Paese, che garantirà così la sostenibilità del progetto. Lo devo a Bilogo perché questa gente mi ha accolta, prima persona di pelle bianca a raggiungere il villaggio, come fossi una di loro e mi ha insegnato a vedere “ciò che è invisibile agli occhi” e che, spesso, soltanto il cuore riesce a sentire. Ai miei fratelli, alle mie sorelle di Bilogo voglio regalare la possibilità di essere sani, di lavorare, di continuare a far crescere, nel modo giusto, l’Africa. Vorrei sentirmi in pace con me stessa quando tornerò da loro e gli anziani del villaggio mi diranno “bentornata figlia”.

Andrea e il Paese dei cachi


Intervista ad Andrea Leccese, autore de “Torniamo alla Costituzione!

Nel Paese dell’evasione fiscale, dei furbi per forza e per vocazione e dell’abuso sempre permesso e condonato, la società civile non si è ancora arresa, e anzi lotta con forza e grinta, nonostante gli spazi d’espressione siano sempre più limitati. Andrea Leccese, autore per Infinito edizioni del pamphlet Torniamo alla Costituzione! compie una disamina lucida e inequivocabile dell’Italia in cui viviamo, mettendo in luce le responsabilità di tutti, non solo della mediocre classe politica da cui il Belpaese è afflitto. Partendo da chi, questa classe politica, se la sceglie a sua immagine e somiglianza. Ovvero tutti noi.

D. Andrea, da che cosa nasce questo tuo invito – quasi un grido di dolore – a tornare alla Costituzione?
R. Il mio saggio nasce anzitutto dalla preoccupazione per il diffondersi della becera invettiva antipolitica, quasi mai accompagnata dal reale desiderio di migliorare le cose. Bisogna smetterla di processare il Palazzo, di sputare sul potere, senza guardarsi allo specchio. Diciamocelo pure: gli italiani non sono molto meglio della classe politica che li rappresenta. La cosiddetta Casta non proviene da Marte. E la società che si lamenta del malcostume dei parlamentari è la stessa nella quale prosperano le più potenti organizzazioni criminali del mondo. È la stessa società che produce livelli di corruzione da “repubblica della banane”. È la stessa società dove l’evasione fiscale è una pratica collettiva. Dunque finiamola di insultare i politici, e avviamo piuttosto una seria riflessione sulla nostra società. Chiediamoci a che punto sta la nostra democrazia. Se ci guardiamo intorno, ci accorgiamo del quotidiano vilipendio di regole sancite a chiare lettere nella Carta Costituzionale. Se ci guardiamo intorno, ci accorgiamo che l’Italia è un Paese “fuori legge”, perché l’abuso dilaga ovunque.

D. In particolare, che cosa allontana oggi l’Italia reale da quella immaginata e impressa dai nostri padri costituenti in una delle carte fondamentali più avanzate e apprezzate del mondo contemporaneo, quella approvata il 27 dicembre 1947?
R. L’Italia che sognavano i nostri costituenti è un Paese fondato sulla solidarietà. Ma il loro fu un vero e proprio atto di “superbia intellettuale”. Come si può pretendere di imporre regole di democrazia sostanziale a noi popolo di furbi e di familisti “amorali”? La regola seguita dall’italiano medio è quella di massimizzare i vantaggi materiali e immediati della famiglia, pensando che tutti facciano lo stesso. “Frego il prossimo e lo Stato, perché tengo famiglia e perché così fan tutti”. Da noi, sembra essersi affermata una strana idea di libertà, quella di fare i propri porci comodi, gabbando il prossimo e calpestando le leggi e la Costituzione. Ma questa non è la libertà dei cittadini, ma la libertà dei ricchi, dei boiardi e dei confratelli. Che questo sia chiaro!

D. Nella quarta di copertina del tuo saggio parli, riferendoti all’Italia, del “familismo amorale di un Paese in cui la democrazia è manipolata”. In che cosa consiste esattamente questa manipolazione e come siamo arrivati fino a questo punto?
R. Gli strumenti di manipolazione della democrazia sono molteplici, ma il mezzo più efficace consiste nell’uso politico della paura. Si individua un nemico, normalmente gli extracomunitari, e si diffonde la paura, con lo scopo principale di giustificare agli occhi dell’opinione pubblica politiche reazionarie, di restrizione dei diritti civili e sociali. Ovviamente la paura viene seminata con i mass media. Ed ecco un altro strumento molto efficace per addomesticare il regime democratico: la disinformazione. Molto spesso, si ha l’impressione che da qualche parte operi una sorta di “ministero della Verità” che decide quali siano le notizie da dare. Quali quelle da nascondere. Quali quelle da mettere in risalto. Quali quelle da sussurrare. E quali siano le balle da confezionare. Un’informazione adulterata non può che tradursi nella manipolazione della stessa democrazia. Se guardiamo la tivù e leggiamo certi giornali, rischiamo di convincerci che il più grave problema di Palermo non sia più il “traffico”, ma i lavavetri al semaforo. Intanto, la Mafia S.p.a. produce un utile annuo di 130 miliardi di euro.

D. Come uscire da questa situazione?
R. Occorre appunto recuperare e diffondere i valori della Carta del 1947, una miniera da cui attingere preziose risorse per la nostra democrazia. Solo così potremo dire addio all’eterna Italia del “tengo famiglia”, all’eterna Italia del Marchese del Grillo, all’eterna Italia dei mafiosi che commemorano le proprie vittime, all’eterna Italia di uccellacci e uccellini.

D. Hai anche l’impressione che ormai nulla possa più scuotere i nostri connazionali? Come fare a recuperare o trovare l’amore per la patria, il rispetto per il prossimo e per la Costituzione, un vero senso di convivenza e di fratellanza in un Paese che sembra infrangersi, giorno dopo giorno, in mille pezzi?
R. Gli italiani hanno bisogno di esempi positivi che provengano non solo dai politici, ma da tutta la classe dirigente. E le famiglie possono essere collegate alla società tramite reti di associazioni che coltivino i valori democratici. Inoltre, si deve puntare molto anche sulla scuola che, con un più incisivo insegnamento delle norme costituzionali, può contribuire in modo efficace a creare le premesse per il progresso civile del nostro Paese.

D. Secondo te la classe politica contemporanea, indipendentemente dal colore politico, è in grado o semplicemente vuole “tornare alla Costituzione”, oppure ormai gli interessi di parte sono così cristallizzati e l’impunità per i potenti è arrivata a livelli tali da non far pensare che questo stato di cose possa, un giorno, essere civilmente e democraticamente modificato?
R. “Tornare alla Costituzione” è oramai una necessità. Il 2008 è stato l’anno di una crisi economica epocale. L’anno della crisi di quel capitalismo senza etica celebrato per decenni dai cosiddetti neoliberali. Essa ci dovrebbe insegnare che il sistema capitalistico non può esistere senza una giustificazione etica. Il capitalismo “sbrigliato”, senza regole, non solo provoca disastri economici, ma rischia di sgretolare le fondamenta della stessa convivenza civile. Ma dove troviamo la ricetta per una società migliore? Senz’altro nella Carta Costituzionale! Sì, proprio in quella norma fondamentale tanto denigrata dagli “spaghetti neocon”, promotori dello “Stato minimo” e del trionfo dei “porci comodi”. La Repubblica disegnata dai nostri Costituenti è uno Stato che interviene nell’economia con l’obiettivo di fondare una “società decente”, nella quale venga tutelata la dignità di tutti. È uno Stato che ha il compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3, comma 2, Cost.).

D. Che cosa ne pensi del peronismo all’amatriciana in cui il Paese è sprofondato e delle idee di riformare la Costituzione in chiave presidenzialista, snaturando totalmente il progetto, ancora vivo e perfettibile, dei costituenti? L’Italia è in grado, oggi, di accettare e di sopravvivere all’“uomo forte” al potere o la vera via è e continua a essere il parlamentarismo?
R. Una riforma di questo genere non può non preoccupare gli spiriti democratici più attenti, in un Paese che è stato la culla del fascismo. In un Paese nel quale i germi del fascismo sono sempre vivi e vegeti. Al familista amorale non dispiace un sistema che garantisce l’ordine per le strade e la difesa delle frontiere, mentre chiude un occhio e anche due sull’evasione fiscale, sulla criminalità organizzata, sulla corruzione, sugli abusi edilizi, eccetera. Attenzione poi all’“uomo forte” eletto dal popolo e unto dal Signore, che può rivelarsi il Napoleon di turno! La democrazia produce facilmente la sua negazione. Preferisco di gran lunga il Parlamento, luogo della necessaria seppur “noiosa” dialettica democratica.

D. Un’ultima domanda. Parliamo di evasione fiscale, di cui approfonditamente sottolinei i disastri e le conseguenze nel tuo ottimo e accorato saggio. A che livelli è, oggi, l’evasione?
R. Ogni anno sfuggono al Fisco oltre 100 miliardi di euro. “Dati imbarazzanti per un Paese serio”, ha detto Luca Cordero di Montezemolo. In realtà, i numeri dell’infedeltà fiscale non sorprendono affatto. Italia, la terra dei cachi e dell’evasione fiscale.

lunedì 22 giugno 2009

Da Srebrenica alla belva che è in noi


I diritti umani, l’Onu, la guerra, il genocidio, il giornalismo e tutti i Sud del mondo.

Simone Gambacorta intervista Luca Leone per Cultura Abruzzo.it

Luca Leone (1970) è saggista e giornalista professionista. Fra gli altri, ha scritto due libri importanti, “Srebrenica. I giorni della vergogna” (Infinito Edizioni, pp. 160, Euro 12) e “Uomini e belve. Storie dai sud del mondo” (Infinito Edizioni, pp. 174, Euro 13). Dopo averlo incontrato tempo fa al Circolo culturale “Il nome della rosa” di Giulianova (Teramo), lo abbiamo intervistato su questi suoi due volumi.

Sei un giornalista professionista: raccontami, in breve, il tuo percorso.
Ho cominciato a scrivere sul primo giornale locale a diciotto anni o giù di lì. Ho continuato durante gli anni dell’università, aggiungendo lavori di ricerca, saggi lunghi e altro per organizzazioni non governative. Nel frattempo, oltre a studiare, vivendo in una zona con una robusta tradizione agricola, lavoravo assiduamente come vendemmiatore, uomo di fatica e via dicendo, così da guadagnarmi qualcosa per sopravvivere. Dopo il servizio civile, la prima vera occasione: “Avvenimenti”. Da lì varie esperienze, da “Internazionale” al “Venerdì di Repubblica”, da “Metro” a “Medici senza frontiere”, dalla “Misna” a “Popoli e missione”, “Galatea”, “Liberazione” e tanti altri ancora. Nel frattempo, sono arrivati i primi libri veri: “Infanzia negata”, “Il fantasma in Europa”, il mio primo sulla Bosnia, “Anatomia di un fallimento”, sullo scandalo italiano dei centri di permanenza per migranti, e altri ancora.

Poi a un certo punto ti sei accorto che qualcosa non andava, e hai deciso di diventare un battitore libero…
Mi sono reso conto che il mestiere del giornalista è molto meno avventuroso, romantico, intellettualmente onesto di quanto fin da ragazzo sperassi. Mi sono altresì reso conto di non sopportare più le “veline” del potere e le omertà indotte dai direttori o dagli editori, e allora mi sono guardato dentro e mi sono sentito pronto per il grande salto. L’alternativa era fare il giornalista di redazione per tutta la vita. Non ce l’avrei mai fatta… Ho un carattere e uno spirito d’indipendenza che mi rendono troppo sensibile alle ingiustizie. E non ci sono luoghi più ingiusti delle redazioni…

È nata da qui la casa editrice Infinito edizioni, di cui sei fondatore e direttore editoriale: quali sono le finalità di Infinito edizioni?
Raccontare in piena libertà, senza reticenze e anzi svelandone lati oscuri e problematici, gli eventi del mondo, dal nostro ristretto e provinciale mondo italiano fino al mondo in cui si decide tutto e a quello, invece, in cui tutto si subisce. Diritti umani e civili, politica internazionale, testimonianza e reportage girnalistico: questi i nostri punti di forza. E poca narrativa, ma di alto livello perché molto selezionata.

È per i tipi Infinito che è apparso il tuo reportage “Srebrenica. I giorni della vergogna”. Andiamo con ordine e cominciamo col ricordare, a chi ci legge, che cosa “significa” Srebrenica.
Srebrenica, in pochissime parole, è il luogo in cui si è consumato l’unico genocidio in Europa nel ventesimo secolo dopo la Shoah. È luogo di dolore e di morte, in cui l’ultranazionalismo serbo e serbo-bosniaco e i paramilitari provenienti dalla Serbia hanno torturato e ammazzato – dopo tre anni e mezzo di assedio – tra gli 8.500 e gli 11.000 esseri umani, tutti di provenienza culturale bosniaco-musulmana, quasi tutti maschi, d’età compresa tra dodici e settantasette anni.

Perché il sottotitolo, “I giorni della vergogna”?
Come definire un genicidio e soprattutto il fatto che nessuno abbia fatto nulla per evitarlo, tra l’11 e il 19 luglio 1995? Avremmo potuto scrivere “porcheria”, ma vengogna sembrava più confacente.

Quale scarto c’è tra quel che è successo a Srebrenica e quello che la comunità internazionale – cioè noi – ha compreso?
Lo scarto è enorme, perché una parte molto consistente della comunità internazionale non ha mai neppure saputo e una parte consistente di chi ha saputo non ha capito, innanzitutto perché chi è preposto a piegare certi eventi – ovvero, la stampa – non è stata in grado di farlo, e poi perché da subito è cominciato il “balletto” delle negazioni, delle mistificazioni, delle smentite e delle bugie. Buona parte della stampa internazionale, a cominciare da quella italiana, è rimasta imbrigliata nelle maglie del nazionalismo bosniaco di diversa matrice – musulmano, serbo-ortodosso, croato – e molti giornali si sono messi passivamente a fare i portavoce della parte per la quale simpatizzavano, senza mai cercare di avere un approccio distaccato e indipendente, e spesso senza voler investire i soldi per mandare sul posto un giornalista in grado di capire e spiegare.

Quindi i diritti umani…
A Srebrenica i diritti umani sono stati calpestati senza che nessuno intervenisse e continuano in varia misura a essere anche oggi calpestati. Ieri, nel 1995, perché nessuno intervenne; oggi, nel 2009, perché in pochi, tra i responsabili del genocidio e tra gli assassini di una parte – quella serba – e dell’altra – quella musulmana – hanno pagato. In tanti, troppi, in realtà non pagheranno mai.

E l’Onu?
L’Onu – presente tra il marzo 1993 e il luglio 1995 con circa quattrocento caschi blu a Srebrenica (quando si verificò il genocidio di stanza a Srebrenica c’era il terzo battaglione olandese agli ordini del colonnello Ton Karremans) – è stata a guardare, spaccata come sempre dagli interessi di parte dei suoi membri permanenti. L’Onu così come è diventata non serve più a niente e a nessuno, fuorché a chi vi lavora, percependo lauti stipendi, e a chi, di volta in volta, sa usarne la voce come megafono dei suoi interessi. “L’Onu è morta a Sarajevo”, ha scritto un grande giornalista italiano. L’Onu forse è morta a Srebrenica nel 1995, o magari in Rwanda un anno prima, nell’aprile 1994. In ogni caso, quello che oggi si chiama Onu è un inutile ectoplasma dai costi altissimi, dai tempi burocratici elevatissimi e dalla scarsa efficacia. Un “parlatoio”, fondamentalmente.

Quando hai deciso di scrivere questo libro?
Quando l’incredulità ha lasciato posto al desiderio di approfondire, conoscere, andare sul campo e toccare con mano.

Quanto tempo ci hai lavorato?
L’ho scritto andando sul campo – cosa che faccio ormai da anni – e raccogliendo storie, testimonianze, vicende, e confrontandole col materiale documentale esistente. Quanto tempo esattamente mi sia occorso, non saprei. Di solito, lavoro a più libri insieme, perché un libro ha bisogno di macerare, sedimentare e poi germogliare, lentamente. Normalmente un libro non nasce prima di averci lavorato tre o quattro anni sopra, i primi anni non continuativamente, l’ultimo anno senza respiro.

Quali sono state le maggiori difficoltà?
Sul campo non ce ne sono state di significative, a parte i problemi derivanti dalla lingue, le distanze chilometriche, la necessità di porre le domande e di porsi in unn certo modo, dopo molto avere studiato, approfondito e cercato di capire. L’importante è muoversi con cautela, attenzione e in modo cristallino. Il problema maggiore sono i soldi, perché se ti muovi da indipendente, come nel mio caso, spendi molto meno, ma lo fai in prima persona.

Che scopo avevi?
Capire. Umilmente e sinceramente, capire. Provare ad andare fino al fondo, nel cuore della belva e nel cuore della vittima. Onestamente, credo di aver fatto bene la seconda parte; mi manca ancora qualcosa per completare la prima.

Cos’è per te un reportage?
Potrei risponderti: un genere giornalistico. Sinceramente, le definizioni mi sono sempre state strette. “Srebrenica. I giorni della vergogna” non è un reportage in senso stretto. È un genere ibrido, in parte reportage, in parte saggio storico, in parte analisi antropologica, in buona parte, semplicemente (si fa per dire), lavoro di raccolta di testimonianze sul campo. Parte di questo è reportage, altro no.

Il libro è andato bene, tre edizioni…
Tre e quella in lingua bosniaca in arrivo. Una responsabilità enorme. Uscirà per il più grande editore bosniaco: temo solleverà più di qualche polemica, in Bosnia.

C’è un altro tuo libro molto interessante, “Uomini e belve”, apparso sempre per le edizioni Infinito. Sottotitolo, “Storie dai sud del mondo”. Ecco, cosa sono, e quali sono, “I sud del mondo”?
I Sud del mondo sono molti più di quelli che immaginiamo. Non sono, innanzi tutto, luoghi geografici, come l’Africa, ma sono condizioni umane, fondamentalmente legate all’abbandono, alla sofferenza, all’emarginazione, all’incomprensione. In Italia è pieno di Sud del mondo. Basta fare un giro per Roma o per Milano per rendersene conto. Una volta la povertà, gli homeless, erano una “categoria” lagata ai poveri e poverissimi che, provenienti dall’Est europeo o dall’Africa, andavano a vivere in mezzo alla strada, non di rado impazzendo e, d’inverno, perdendo la vita a causa del freddo. Oggi tantissimi italiani hanno fatto o stanno facendo questa stessa fine e vengono ingoiati da questo Sud del mondo che rimane nascoso, segreto, isolato, ma che pure c’è, ed è sempre più vasto. Vasto eppure ignorato dai nostri potenti, gente che per mesi invade le nostre vite e le nostre anime sproloquiando su una povere ragazza in coma da oltre un decennio, e alla quale non è permesso dall’ipocrisia di una politica senza valori umani di staccare la spina. Ma se, come poi in quell’occasione è accaduto, a Genova un homeless perde la vita a causa del freddo, nessuno spende neppure una parola per quella vita umana spezzata e al massimo diventa una breve nelle pagine interne dei giornali, mentre la sfortunata in coma e gli sciacalli che le girano intorno guadagnano quotidianamente le prime pagine. Ai nostri potenti pare non interessare affatto il problema della povertà, dell’abbandono, della disperazione. Altrimenti, finanziaria dopo finanziaria, non continuerebbero a distruggere i seervizi sociali e lo stato sociale, magari per non far pagare l’Ici al clero o per non infastidire potenti categorie sociali, come il partito dell’evasione fiscale.

Il libro è suddiviso in tre sezioni: “Europa”, “Africa”, “America”. C’è una latitudine dove l’uomo non sia oggetto di dignità negata e di sofferenza?
Non mi risulta, purtroppo. Manca l’Asia, perché altrimenti il libro sarebbe diventato una sorta di enciclopedia. Ma se pensi al destino degli aborigeni in Autralia, ma risposta alla tua domanda è, purtroppo, no.

Quindi, riassumendo, che cos’è “Uomini e belve”?
“Uomini e belve” è un libro che raccoglie tesimonianze da tre continenti sulla doppiezza umana e sulla bestialità di molti comportamenti umani ai danni dei propri simili e dell’ambiente. Come mia abitudine, invece di parlare in prima persona faccio parlare i testimoni oculari, poiché ritengo cher il giornalista non debba ergersi, se non assolutamente necessario, a io narrante ma debba invece farsi vettore delle storie di vita – ovviamente, verificandole con il massimo scrupolo – di cvhi ha il coraggio di parlare, di raccontarsi, di aprirsi al mondo.

Adesso vorrei tornare al giornalismo italiano…
A parte qualche eccezione, è un giornalismo di passascartoffie, di parolai, di prime donne, di gente che ormai fa più attenzione a non pestare piedi che a pestarne, come invece accade ad esempio col vero giornlismo d’inchiesta anglosassone. È un giornalismo sciatto e deludente, che sta precipitando in un baratro senza fondo, in cui ormai i direttori sono passacarte di editori potenti e politicamente sbilanciati, e in cui la politica mette continuamente bocca, non di rado con atteggiamenti discutibili (o con disegni di legge discutibili…). È un giornalismo in decomposizione, con qualche eccezione, un po’ come l’Onu…

Quali sono le differenze tra mondo cartaceo, mondo televisivo e mondo web?
Il mondo televisivo è poco attendibile, poco approfondito, vergognosamente lottizzato o mnanifestamente incline al padrone e attraverso il potere delle immagini ha una inquietante forza manipolatrice. Insomma, è assai poco credibile. Quello cartaceo è condizionato dalla vendita degli spazi pubblicitari e dagli umori dei potenti a cui fa riferimento. Non di rado è strumentale. Quello Web è fresco e dinamico, ma in sovrabbondanza e difficile da verificare. Al contempo vantaggio e svantaggio sono la sua bassa controllabilità, il che sta spingendo i portaborse di regime a escogitare leggi liberticide per mettere il bavaglio anche a Internet. E se ci riuscissero, in questo Paese rimbambito ed egoista, probabilmente nessuno o quasi scenderebbe in piazza.

Essere un giornalista, che cosa significa? O che cosa dovrebbe significare?
Essere libero, indipendente, rispondere innanzitutto alla propria coscienza e avere il coraggio di approfondire e raccontare verità anche scomode, anche pericolose.

Qualcuno che ammiri?
Tanti, soprattutto tra i più vecchi. E la gran parte di loro non fa tv.

E il quotidiano? Lo compri ancora il quotidiano? O hai smesso di crederci?
Lo compro ancora, ma non di rado mi arrabbio. E da tempo non ci credo più, anche se un buon quotidiano resta comunque più attendibile di un telegiornale o di un radiogiornale. Da anni mi alterno tra “Repubblica”, di cui da tempo non riesco più ad apprezzare la pagina degli esteri, per me e per il mio modo di vedere fondamentale, e “Corriere della Sera”, che mai mi ha convinto del tutto. Per altri ho scritto, per questi mai. Il giornalismo è un mondo a parte e certe porte restano sempre sbarrate. Meglio così.

“Sogni di sabbia”, un libro per raccontare gli Invisibili del pianeta



Paolo Dieci, Cisp, racconta la genesi del volume che riporta storie e visi di migranti e fa il punto (assai critico) sulle politiche migratorie vigenti

Un progetto etico e di denuncia in un momento di forte crisi della coscienza sociale di un intero Paese. L’Italia. Questo è “Sogni di sabbia. Storie di migranti”, il libro voluto dal Comitato Internazionale per lo Sviluppo dei Popoli – Cisp ed edito da Infinito edizioni (che già ha dato alle stampe, nel 2007, Mamadou va a morire, di Gabiele Del Grande, giunto alla sua seconda edizione), che racconta attraverso visi e testimonianze la storia di molti migranti subsahariani rimasti prigionieri dei loro sogni e della sabbia algerina, in un Paese non di rado loro ostile.
Sogni di sabbia” è un utile strumento di riflessione in un momento storico in cui, in Italia, migrazione vuol dire automaticamente invasione e razionalizzazione dei flussi migratori fa rima con respingimento coatto in mare, anche se in violazione del diritto internazionale, anche se in accordo – verrebbe da dire in “combutta” – con una dittatura come quella libica, impersonata da un uomo oggi considerato “amico” ma fino a pochi anni fa negletto dall’intero Occidente, ma infine assurto a ruoli che non gli competono in virtù di un passato rimasto completamente impunito, ovvero sia il colonnello Gheddafi.
Per un Paese come l’Italia – un Paese, oltre che di emigrati, anche di “invasori” e colonizzatori che mai ha fatto i conti con il suo passato coloniale e con le sue meschinità – “Sogni di sabbia” rappresenta una decisiva possibilità di riflessione e di confronto con noi stessi e la nostra pietà. Se l’Italia è il Paese cattolico che sostiene di essere, nulla ha che vedere con il cattolicesimo e con il rispetto di certi precetti il respingimento coatto, anche di donne e bambini provenienti da Paesi in guerra, la negazione del diritto d’asilo o la sua delega a un Paese, come la Libia, che non ha neppure mai firmato la Convenzione di Ginevra ideata ad hoc ormai ben più di mezzo secolo or sono.
Del libro, di migranti e del loro destino, di legislazioni disumane e della politica che ha saputo strumentalizzare la paura di un popolo, quello italiano, in crisi di identità e di coscienza, travestendola da migrante, abbiamo parlato con Paolo Dieci, direttore del Cisp, che da anni lavora sia in Italia che in Africa settentrionale per garantire servizi di informazione e orientamento professionale ed eventualmente assistenza al rimpatrio per lavoratori migranti.

D. Direttore, l’importanza e l’urgenza di un libro come “Sogni di sabbia” è data dalla cronaca nazionale e internazionale. Qual è la posizione del Cisp rispetto alle politiche migratorie europee e nazionali e quali urgenze avete individuato?
R. Alcuni limiti di tali politiche sono così sintetizzabili: scarso coordinamento a livello europeo, tendenza, soprattutto in Italia, a identificare il tema della migrazione con quello della sicurezza e, soprattutto, mancanza di una visione globale dei processi migratori, che vanno compresi e gestiti nel loro insieme, per essere chiari dalla loro origine alla loro destinazione. Sembra oggi di assistere a una rincorsa al presidio delle frontiere, quasi che queste fossero minacciate da pericolose invasioni. Questa visione delle cose è ristretta, inefficacie, oltreché, come vedremo, moralmente discutibile. Le migrazioni sono processi globali, che nascono dallo squilibrio impressionante tra Paesi ricchi e Paesi poveri, si alimentano di aspettative per una vita diversa quando non da vere e proprie fughe. Governare tali processi presidiando le coste è impossibile. Servono politiche integrate, di accoglienza, cooperazione internazionale, formazione e orientamento delle comunità di immigrati. Servono chiaramente anche accordi tra Stati, ma in questo caso vorrei fare due brevi considerazioni. La prima è che tali accordi vanno sottoscritti non solo con gli Stati del Magheb, ma anche con quelli dell’Africa a sud del Sahara, dove spesso migrare significa provare a vincere le catene della povertà. Esistono esempi concreti ai quali l’Italia può rifarsi; penso, ad esempio, all’accordo siglato tra Unione Europea e Mali per l’attivazione di servizi di informazione e orientamento professionale ai migranti potenziali. La seconda considerazione è che tali accordi non devono avere come principale o unica finalità il respingimento dei migranti, senza dare loro oltretutto la possibilità di esporre le loro ragioni, di motivare, in molti casi, la richiesta di asilo.

D. La soluzione giusta alla pressione migratoria dal Sud verso Nord non consiste, dunque, nei respingimenti. Quali dovrebbero essere le risposte più adeguate a questo fenomeno?
R. Il respingimento indiscriminato è innanzitutto moralmente inaccettabile perché nega la possibilità di richiedere asilo anche a coloro che ne avrebbero diritto. Inoltre spinge in modo coatto i migranti in situazioni – lontano dai riflettori dei media – che nessun organo internazionale è in grado di monitorare. Nessuno ha “ricette” o soluzioni a problematiche così imponenti, che – lo ripeto – affondano le loro radici nella disuguaglianza mondiale. Possiamo però provare a ipotizzare un percorso, un processo verso cui andare. Provo a sintetizzare alcuni punti: accogliere la dimensione multiculturale delle nostre società come un’opportunità storica da valorizzare e non come una minaccia (non si dovrebbe scordare che uno dei Paesi più multiculturali del mondo, gli Stati Uniti, sono una grande e solida potenza mondiale, non uno Stato frantumato da divisioni e conflitti interni); lavorare con le comunità e associazioni di immigrati, responsabilizzandole e identificandole come strumenti essenziali per l’integrazione; rafforzare, nel senso che ho già provato a chiarire, la collaborazione tra Europa, Maghreb e Africa Sub Sahrariana; rafforzare le politiche di cooperazione internazionale.


D. Come nasce il progetto “Sogni di sabbia” e quali sono le finalità che la pubblicazione si propone di raggiungere?
R. Il libro nasce come edizione italiana di un testo pubblicato già in francese in Algeria. Va sottolineato questo dato perché le testimonianze e le foto del libro nascono dai progetti realizzati dal CISP nel Maghreb e in Africa Occidentale. Progetti che puntano ad affermare diritti concreti dei migranti, quali: il diritto all’informazione, a conoscere le opportunità e i rischi dei percorsi migratori; il diritto all’assistenza sociale, ovunque si trovino, nelle aree di origine, nei Paesi di transito, in quelli di destinazione; il diritto a essere sostenuti, se decidono di rientrare in patria, affinché il rientro non sia vissuto come un fallimento ma al contrario coincida con l’avvio di attività economiche per il sostentamento della propria famiglia.
Per dirlo in una frase, abbiamo voluto pubblicare “Sogni di Sabbia” per sottrarre i migranti alla condanna dell’invisibilità. Il libro non ci parla genericamente di migranti; ci mostra immagini e riporta testimonianze di donne e uomini con nomi, cognomi, storie, speranze, frustrazioni. Donne e uomini, se posso aggiungere, in ogni caso coraggiosi, che hanno intrapreso un progetto difficile, pieno di rischi e che hanno deciso di raccontarsi.

D. Il libro ritrae fotograficamente e custodisce le storie di molti migranti subsahariani rimasti bloccati nel limbo algerino, un limbo pericoloso e ostile, non meno della Libia. Oltre al coraggio di queste donne e di questi uomini sono incredibili le loro storie. Ce n’è qualcuna in particolare che le è rimasta impressa e che vuole raccontare ai lettori?
R. Tutte le storie contenute nel libro sono incredibili e coinvolgenti, perchè aprono uno squarcio su realtà dolorose, che solo in parte possiamo immaginare. Mi ha colpito la testimonianza di un giovane ragazzo della Costa d'Avorio, Haddane Konè, che vive ad Algeri lavorando come calzolaio. Lui, come tanti altri, ha tentato di arrivare in Europa attraversando il deserto, passando prima dal Marocco e poi dall'Algeria, senza riuscirci. In questo lungo viaggio ha perso un fratello e tanti amici, ha visto cose che mai avrebbe voluto vedere, ma ha scelto di farlo perchè nel suo Paese non c'erano soldi da guadagnare. Anche lavorando, lui e la sua famiglia non potevano farcela. Lui, come tanti africani, è partito per lavorare onestamente in altri Paesi. Ma spiega anche che “se lo Stato ci aiutasse, non andremmo in Europa. Se l’Europa pagasse il nostro cotone a un giusto prezzo, i giovani Africani non partirebbero. Da noi c’è la terra da coltivare. Abbiamo questa forza. Ma siamo fregati dal nostro Stato”.

D. Che cosa accade a chi non riesce a coronare i suoi sogni di sabbia? Brutalmente, che fine fa chi non riesce ad arrivare in Europa?
R. È noto che ormai i paesi del Maghreb sono sempre più significativamente luoghi di destinazione dei migranti dell’Africa sub sahariana. Molti rimangono a vivere in Algeria, ma anche in Marocco, Tunisia, Libia. Le condizioni di vita in questi Paesi sono quasi sempre molto dure, difficili anche perché fenomeni quali la xenofobia e il rifiuto del diverso esistono anche nelle società maghrebine, non solo nelle nostre. Altri decidono di tornare, di dare vita ad attività economiche nei loro Paesi e, come dicevo, quello del rientro volontario assistito è a mio avviso uno dei più significativi diritti da affermare.


D. Ma, a volte, anche a chi arriva da quest’altra parte del Mediterraneo le cose non vanno molto meglio. Sfruttati in nero nei campi o nelle fabbriche, oggetto di razzismo, disprezzati, ormai persino colpiti da apartheid, se pensiamo alle norme imposte dall’attuale governo italiano, che pretende da presidi, medici, infermieri e altri di trasformarsi in delatori, non di rado commettendo errori drammatici. Torniamo allora alle domande iniziali, ma stavolta dal lato dell’accoglienza. Perché un Paese di emigranti non sa e non vuole accogliere migranti, e anzi li discrimina, senza neppure avere la sensibilità di cogliere la differenza tutt’altro che sottile tra migranti economici e richiedenti asilo?
R. Mi permetto alcune considerazioni sul mio paese, l’Italia. È un paese per molti aspetti meraviglioso, con grandi istanze di solidarietà. È un paese dove ci sono tante associazioni di base, gruppi di volontariato (laico e cattolico), organizzazioni di solidarietà internazionali. Però c’è anche – e purtroppo crescente – una spinta verso il rifiuto del diverso e la xenofobia. Ho la sensazione che questa spinta nasca dalla paura e sia alimentata ad arte per meschini interessi politici. Lasciamo sullo sfondo il secondo tema e affrontiamo con energia il primo: dobbiamo disinnescare la paura del diverso. Lo ripeto: la società multiculturale non è una minaccia, ma una risorsa, anche in termini economici. Pensiamo ad esempio, in un’economia globalizzata, agli evidenti vantaggi che una società dove convivono comunità provenienti da vari Paesi può avere rispetto a società chiuse, arroccate su se stesse, incapaci di aprirsi all’esterno. Purtroppo c’è, a mio parere, un altro “problema italiano” da affrontare: questo Paese, per molti aspetti, lo voglio ripetere, meraviglioso, ha difficoltà a coltivare la memoria storica. Così come non ha fatto i conti con il suo passato coloniale oggi non fa i conti con la storia della sua emigrazione. Sta a tutti noi lavorare per ricostruire questa memoria. Del resto è difficile trovare una nostra famiglia italiana che non abbia o abbia avuto migranti. Nella mia, per fare un esempio concreto, ci sono persone andate a vivere in Costa Rica, Argentina, Stati Uniti. Se avessi questa autorità renderei obbligatoria, nelle scuole superiori, la lettura del libro “L’Orda” di Stella. È una lettura che oggi fa impressione anche perché evidenzia come i peggiori stereotipi contro gli immigrati sono del tutto speculari a quelli che si sono abbattuti contro la nostra gente. Gente che con il suo sacrificio e le rimesse dall’estero ha contribuito enormemente alla rinascita dell’Italia dopo la II guerra mondiale. Perché oggi dovremmo negare quest’opportunità ai nostri fratelli e alle nostre sorelle dall’Africa?

D. Possiamo concludere con una parola di speranza o le cose volgono davvero, inesorabilmente, al peggio?
R. Senza nessuna inutile retorica, la speranza è il motore che ci spinge ad andare avanti. E non nasce dal nulla. Nasce dalle tante e positive esperienze concrete di integrazione riuscita, dalle attività imprenditoriali alle quali hanno dato vita migranti giunti in Europa, dalle tante esperienze positive di successo di rientro volontario. Ad esempio, anche grazie all’osservatorio dei nostri progetti possiamo apprezzare cooperative di servizi e di produzione artigianale nate grazie all’accesso al credito in Paesi quali la Repubblica Democratica del Congo e il Niger ad opera di migranti di rientro. La speranza nasce dal fatto che tra gli effetti della globalizzazione vi è anche lo sviluppo, in Europa, in Africa (a nord e sud del Sahara) e altrove, di una coscienza civile sulla centralità dei diritti, di reti della società civile pronte a impegnarsi e a farlo in modo coordinato per affermare in concreto diritti di cittadinanza ai migranti. È vero: crescono anche il razzismo e la xenofobia, ma per fortuna non crescono da soli. Accanto e contro di essi crescono la solidarietà e l’impegno civile. È un terreno aperto, dove conviene continuare a giocarsi tutte le carte, con progetti, iniziative concrete di cooperazione e anche con politiche culturali, libri, riflessioni. “Sogni di Sabbia”, curato dal nostro Responsabile per l’Africa Sandro De Luca, nasce proprio in questa prospettiva.

sabato 6 giugno 2009

Uscire dalla società della conoscenza


Intervista a Valerio Romitelli, autore de “Fuori dalla società della conoscenza

Valerio Romitelli, docente di Etnografia del pensiero e Metodologia delle scienze sociali all’Università di Bologna, dirige il Gruppo di ricerca di etnografia del pensiero (GREP), con cui ha firmato “Fuori dalla società della conoscenza”, molto più di un manuale universitario ma, fondamentalmente, un grimaldello letterario con il quale l’autore sgretola la cosiddetta “società della conoscenza”, in cui oggi vivremmo, riducendola più correttamente a una “società delle incognite”. Poiché, per Romitelli e li suo gruppo di ricercatori, enorme è il numero di incognite trascurate o create nella convinzione di sapere già per l'essenziale come vanno il mondo e la realtà sociale. Come si legge nella quarta di copertina del libro, “Per sapere come le popolazioni dei “governati” rendono possibile la realtà sociale non bastano sondaggi d'opinione, raccolte di dati statistici o altri tipi di informazioni. Occorre interpellarle. Occorre studiare, con un metodo adeguato e attento, le loro parole e i loro pensieri. Solo così il nostro tempo potrebbe risultare meno incognito. Le scienze e politiche sociali potrebbero trarne insegnamenti fecondi per migliorare conoscenze e interventi. Questo è l'auspicio cui l'etnografia del pensiero dedica le sue fatiche”.
Con Valerio Romitelli abbiamo approfondito questi e altri concetti nell’intervista che segue.

D. Prof. Romitelli, cominciamo dal titolo del suo libro: “Fuori dalla società della conoscenza”. Che cosa intende per “società della conoscenza” e perché l’esortazione a superarla?
R. Dagli anni ‘80 le differenze mondiali tra ricchi e poveri stanno sempre più aumentando, anche in questi Paesi già poveri e che stanno diventando (come Cina, India, Brasile e Russia) più ricchi di quelli già ricchi. La crisi recentemente esplosa, del resto, è incerta in tutto tranne sul fatto che sicuramente aggraverà questo tragico divario.
Non considerare questo come il principale problema sociale è in primo luogo ciò che non perdono ai teorici dell’attuale epoca come epoca della conoscenza. Per loro infatti tutto è da analizzare come relazione di scambio di conoscenze tra persone. Se qualcosa non va, allora, è perché una o più persone non sanno comunicare come si deve. Cosicché il rimedio starebbe nell’aiutare questo sapere innato, di cui ogni persona sarebbe geneticamente dotata, semplicemente favorendo lo scambio di informazioni. Nel caso poi che questo aiuto fosse inefficace o addirittura rifiutato, allora la persona stessa andrebbe degradata e trattata come individuo ritardato, egoista o fanatico di qualche ideologia.
Non è forse questo il ragionamento supposto da qualsiasi recente discorso politico, legge, regolamento pubblico e privato, talk-show televisivo, in qualunque angolo della cosiddetta Comunità internazionale? In effetti, il cognitivismo non è un’ideologia, in quanto sospetta di ogni idea riducibile ai valori (detti “etici”) della sua presunta logica naturale. Si tratta piuttosto di una sensibilità. La sensibilità che domina le opinioni del nostro tempo, come mai è accaduto in precedenza. Il suo trionfo ha avuto come condizione non solo la cosiddetta rivoluzione informatica e la globalizzazione dei mercati, ma soprattutto il crollo delle patrie della classe operaia e quindi delle ideologie classiste che, vere o false che fossero, consigliavano ai governanti pubblici e privati una qualche prudenza in materia di politiche sociali.
Questo senso comune cognitivista, godendo di una sorta di monopolio sui modi di pensare, impone una visione quanto mai ristretta della realtà sociale. Così, mentre inneggia alla conoscenza, in realtà diffonde ignoranza su tutti i maggiori problemi sociali. Problemi sociali che di fatto sono sempre essenzialmente impersonali, nel senso che nessuna persona in quanto tale vi può nulla.
Porsi “fuori della società della conoscenza” è dunque necessario per far ricerca su tutte le incognite che essa crea e nasconde. Quella vastissima zona d’ombra in cui sono calate tutte le popolazioni che non hanno potere né di governo, né di comunicazione, né di informazione, eppure con la loro fatica e sofferenza rendono possibile la realtà sociale. Per conoscere tale realtà, non c’è che da interpellare queste stesse popolazioni, per potere istruirsi alle loro parole e pensare il loro pensiero. Il risultato così certo sarà una conoscenza, ma certo più specifica e profonda di quelle riducibili a informazioni vincenti sul piano della comunicazione.

D. Lei invita a un approccio diverso nello studio delle scienze sociali. Qual è questo approccio e come sta lavorando per metterlo in atto?
R. L’etnografia del pensiero si situa ovviamente nei paraggi di quelle che si chiamano le scienze sociali qualitative. Quelle che fanno ricerche non sulle popolazioni, per ricavarne dati quantitativi e panoramici, ma tra le popolazioni, incontrando direttamente campioni limitati di esse.
Quattro si può dire siano le principali peculiarità del nostro approccio.
La prima sta nel supporre che la realtà sociale non è fatta anzitutto di persone più o meno evolute, ma è fatta di due popolazioni ben distinte: da un lato, quelle che hanno il potere di decidere della vita di molti altri; dall’altro, quelle che soffrono e fanno fatica a rendere possibile la propria esistenza. È quest’ultimo il tipo di popolazione cui dedichiamo le nostre ricerche, con l’obiettivo di proporre delle prescrizioni atte a migliorare le condizioni di lavoro o di fruizione di servizi fondamentali.
La seconda sta nell’interpellare sempre sul luogo (all’interno dei luoghi di lavoro o di fruizione di servizi) questo tipo di popolazione, facendo lunghe interviste con un campione limitato di soggetti e poi elaborando un rapporto finale d’inchiesta destinato a pubblicazioni scientifiche, ma anche a discussioni sulle politiche sociali operanti in quello stesso luogo.
La terza, è che l’analisi del contenuto delle interviste viene concepita come incontro tra due pensieri: da un lato, quello degli intervistati che hanno diretta esperienza del luogo, dall’altro, il nostro stesso, di ricercatori che intendiamo conoscere come questa esperienza viene pensata dai diretti interessati.
La quarta è evitare ogni metalinguaggio. Così escludiamo ogni logica (di “sistema”, “struttura”, “funzione”, “relazioni”, “percezioni”, “comportamenti”…) tramite il cui filtro solitamente si cerca di decodificare il linguaggio delle popolazioni incontrate. Noi ergiamo le parole di chi incontriamo a fonte primaria di quanto vogliamo conoscere. Così, nei nostri rapporti d’inchiesta le parole chiave, a volte pure lo stesso titolo, sono citazioni alla lettera di quanto ci è stato detto nell’intervista.

D. Ha fondato un gruppo denominato Grep. Di che cosa si occupa, con quali mezzi e perché?
R. Il Gruppo di Ricerca di Etnografia del Pensiero esiste da circa sette anni, è riconosciuto dal Dipartimento di Discipline Storiche (prossimamente anche Antropologiche e Geografiche) dell’Università di Bologna e ha al suo attivo una ventina di inchieste: alcune pubblicate nel libro precedente Etnografia del pensiero. Ipotesi e ricerche, del 2005, altre pubblicate su riviste, mentre le più recenti sono quelle che compaiono in Fuori della società della conoscenza. Questo gruppo è formato soprattutto da giovani. I sostegni alle nostre ricerche vengono oltre che, in parte limitata, dall’Università, da varie istituzioni e imprese interessate dalle ricerche stesse. Recentemente abbiamo goduto di un finanziamento dell’ex ministero della Solidarietà sociale.
In termini generali, si può dire che il suo obiettivo scientifico sta nel provare, tramite lo studio di casi concreti, che il pensiero dei governati, di quelli che solitamente non contano, è un’inesauribile e ancora ampiamente inesplorata fonte di conoscenze della realtà sociale. Il Grep ha però anche un duplice obiettivo politico, sia pur perseguito in scala ridotta, quasi minimale: da un lato, contribuire alla conoscenza reciproca e quindi alla possibilità di nuovi modi di unione tra lavoratori e popolazioni disagiate. Siamo infatti convinti che con la fine delle ideologie classiste lavoratori e popolazioni disagiate sono quanto mai soggettivamente divisi e dispersi tra svariate identità personali o comunitarie, le quali hanno come conseguenza maggiore di aggravare i problemi della realtà sociale. Dall’altro, contribuire a che i governanti pubblici o privati abbiano occasioni di conoscere il pensiero delle popolazioni che governano e quindi di adottare politiche che siano effettivamente, e non solo formalmente, democratiche.

D. Il mondo accademico come ha accolto le sue teorie e il suo nuovo approccio? Con quale genere di resistenze si trova a doversi confrontare?
R. Quando si parla di antropologia ed etnografia, si pensa quasi sempre a ricerche di contorno, che danno un po’ di colore alle scienze sociali, il cui nocciolo duro starebbe sempre nelle statistiche. Salvo poi riconoscere la relativa affidabilità del dato puramente numerico. Temi privilegiati dalle scienze sociali qualitative sono comunque quasi sempre le “motivazioni”, i “racconti di vita”, le “aspettative”, le “percezioni” o i “comportamenti” delle popolazioni indagate. Queste ultime sono dunque interpellate su quel che si ricordano del loro passato, su quel si immaginano del loro avvenire o su come reagiscono di fronte a un contesto di relazioni che si suppone dato. Così, a essere eluso è il presente stesso della realtà sociale, ossia come esso venga condizionato dalle parole e dai pensieri di chi ne fa esperienza diretta. È proprio questo invece a interessare soprattutto il Grep. Anziché interpellare i nostri intervistati sul “prima”, sul “poi” o sui loro adattamenti ambientali, ciò che puntiamo a conoscere è proprio come la realtà di un luogo di lavoro o di servizio viene presentata dalle parole e dal pensiero di chi ne fa esperienza diretta.

D. Professore, perché in Italia è necessario avere i capelli bianchi per farsi prendere in considerazione da qualcuno e i giovani continuano a essere trattati comunemente – dal mondo accademico, dalla politica, da molti altri ambienti – come dei perfetti imbecilli?
R. C’è una parte della mia Introduzione a Fuori della società della conoscenza dedicata proprio all’Italia. In una battuta dico che la società di questo Paese merita la qualifica di società “delle conoscenze”. Delle conoscenze personali, intendo. Delle conoscenze che implicano una famigliarità diretta. Così, ovunque, ci vuole sempre la raccomandazione di un padrino o di una madrina. Padrino e madrina che prendono sul serio solo altri padrini e madrine. La disoccupazione giovanile, per di più dei giovani meglio istruiti, è proprio un tratto caratteristico del nostro Paese. Già si investe poco nell’università e quindi nella creazione di esperti, ma quelli che già ci sono vengono ampiamente inutilizzati. Siamo dunque in un Paese “vecchio” a più titoli. Anche nelle difficoltà di aprirsi a quei lavoratori stranieri che rappresentano una preziosa opportunità di ringiovanimento e diversificazione. Se tra gli italiani finora permane un certo benessere, deriva dalla tradizione delle imprese di stazza artigianale, conosciute nel mondo, ma esse stesse fondate su conoscenze famigliari e personali. Di qui anche la notevole ignoranza riguardo alla realtà sociale che in Italia caratterizza la politica e le istituzioni. Preti e organi di polizia sono sempre i meglio informati. Il fatto è che le scienze sociali, già a suo tempo impedite dal fascismo, nel dopoguerra sono state compresse dalla chiesa e dai partiti i quali avevano le loro dottrine sociali da difendere.
Per tutto ciò tra i risultati del Grep mi pare ci sia da annoverare anche quello di essere fatto soprattutto di giovani appassionatisi alle scienze sociali e convinti che esse possano servire a rinnovare il Paese.

D. Esiste una ricetta per un Paese e per un mondo un po’ migliore?
R. Ce ne è un’infinità. Esse stanno tra chi fatica e soffre per rendere possibile la propria esistenza e quindi la realtà sociale. Il problema è che nessuno o quasi le cerca tra queste popolazioni, ma sempre e solo tra i vari esperti. Esperti, che peraltro sono meno vari, proprio perché la stragrande maggioranza di loro condivide l’opinione che tutto si riduce a informazione e comunicazione. Uno dei dogmi cruciali della presunta “società della conoscenza” è proprio questo: che il mondo gira seguendo le conoscenze ridotte ad informazioni e quindi utili a vincere sul piano della comunicazione. Qui, in questo tipo di sensibilità cognitivista, sta una delle più profonde cause dell’attuale crisi che rischia di essere infinita se non si trovano delle alternative. Esse non scenderanno mai dal cielo, ma vanno cercate tra le parole e i pensieri che brulicano nell’immensa popolazione dei governati, di quelli che non contano. Ma da sole, queste ricette alternative, non vengono fuori. Ci vogliono approcci e metodi adeguati per individuarle e farle conoscere. Il che, sia chiaro, non significa ridurle ancora una volta a informazioni, ma, tutto al contrario, renderle pensabili e ripensabili da chiunque. È a questo che il Grep dedica tutti i suoi sforzi di ricerca.