martedì 19 luglio 2011

L’Asia di un grande viaggiatore nelle pagine di “Papà Mekong”: intervista a Corrado Ruggeri


Papà Mekong” (infinito edizioni, 2011), l’ottimo libro di Corrado Ruggeri – capo della cronaca romana del Corriere della Sera e autore di libri di viaggio per i tipi di Feltrinelli, Mondatori e Sitcom, oltre che volto televisivo di Marcopolo – è molte cose: il primo romanzo di un uomo, viaggiatore e giornalista, di immensa umanità; una full immersion in un’Asia sconosciuta ai più; una ricerca di genere nei delicati rapporti tra donna e uomo; una sfida in punta di penna per raccontare, con la delicatezza di una piuma e l’incisività di un pugnale arroventato, un mondo difficile, duro, fatto di sfruttamento e povertà, di sciacalli e vittime, di bambini rinchiusi in poveri orfanotrofi e gente che con immensa difficoltà a fine giornata riesce a mettere insieme un pugno di riso. Un mondo di frustrazione e di rancore che però ha dentro di sé quegli strumenti di catarsi e di rinascita che a noi occidentali sono probabilmente sconosciuti.
Scrive il giornalista Aldo Cazzullo nella sua prefazione al libro, che “Papà Mekong ha il merito non solo di raccontare terre e personaggi lontani, ma anche di aprire la nostra mente e il nostro cuore a popoli che crediamo estranei, a uomini e donne che non abbiamo incontrato e non incontreremo. Corrado Ruggeri ci parla di villaggi e orfanotrofi; ci ricorda che i poveri della terra esistono, e non sono soltanto le migliaia di Lampedusa, ma i miliardi che restano a casa, o cercano di costruirsela sulla propria terra. E ci spiega che loro certo hanno bisogno di noi; ma anche noi abbiamo molto bisogno di loro”.
Ho approfondito questi spunti con Corrado Ruggeri e ne è scaturita l’intervista che riporto di seguito.

Corrado, che cosa rappresenta il fiume Mekong per un grande viaggiatore come te?
Ognuno di noi ha dei luoghi cari in giro per il mondo. Il Mekong è il mio. È insieme la dolcezza e la crudeltà dell’Asia: nasce sul Tibet, e la leggenda dice che chi beve un sorso di quelle acque di montagna conquisterà l’immortalità, magari soltanto quella del ricordo. E poi è stato il fiume della guerra, dei cadaveri che scivolavano e che, secondo una credenza orientale, di notte parlavano. È il grande fiume della speranza, di un futuro migliore per chi ancora oggi, lungo quelle rive cammina a piedi nudi e dorme su una stuoia.

Quando e come nasce l’idea di prendere questo fiume, e l’Asia, quali magici sfondi della storia che narri in “Papà Mekong”?
Forse posso dire di averci sempre pensato. Dopo Roma, e forse Londra e New York, il bacino del Mekong e il sud-est asiatico sono la parte del mondo che conosco meglio. Era naturale che ambientassi lì il mio primo romanzo, dopo averci scritto, peraltro, altri libri di racconti di viaggio. Mekong e quella parte d’Asia sono la mia seconda casa: anzi, non escludo affatto, vorrei dire spero, di andarci a vivere.

La scelta dei temi del libro – l’adozione, l’amicizia, il viaggio, la prostituzione, la diversità, il tradimento, la fiducia, l’ansia di scoprire o riscoprire le proprie radici, ma anche la vendetta e la “rinascita” – rappresentano una sfida non da poco, eppure tutti questi temi sono bilanciati e approfonditi con maestria e sensibilità nel libro, senza mai nascondersi dietro il luogo comune e l’ipocrisia. Ci sono altri temi al centro del libro e quali sono le doti dell’ottimo narratore nel saperli far convivere e nel saperli bilanciare all’interno di un solo libro?
Beh, sono stato fortunato, è andata bene. Diciamo che questo libro, come ha colto benissimo Aldo Cazzullo nella prefazione, è una specie di summa del mio modo di intendere la vita e i rapporti umani, fatti di rispetto, onestà, fiducia. Ma anche di sapiente ferocia, quando c’è da punire chi ha sbagliato o si è comportato male: il perdono è dote che appartiene a Dio, a qualunque dio si creda, per gli uomini è esercizio molto difficile. Come nella complessità della vita, ho messo tutto insieme e se il mix è riuscito, bè, sono contento. Se mancano ipocrisie e luoghi comuni è perché cerco di cancellarli anche dalla mia vita: li detesto, come le persone che invece li adottano come comportamenti abituali.

“Papà Mekong” è un libro molto al femminile, nel quale s’intrecciano i caratteri, le fortune e le tragedie di tre donne incredibilmente diverse, eppure a loro modo ciascuna simbolo di una differente femminilità? Perché questa scelta?
Da uomo mi piaceva raccogliere la sfida di mettere le donne al centro del racconto. Sapevo che sarebbe stato più difficile, perché le reazioni maschili le governo più semplicemente. Raccontare le donne mi ha richiesto un’attenzione maggiore, una fatica aggiuntiva. E mi è piaciuto diversificarle: un’intellettuale borghese italiana, radicata negli affetti, una ex guerrigliera che trasforma la sua ansia di giustizia indirizzata male in attività di solidarietà umana, una prostituta che scopre l’amore e la delusione ed è portatrice di una forza umana, di un sentimento di onore che fanno di lei un gigante di straordinaria ricchezza umana.

E per quale ragione, nella tua narrazione, gli uomini, i maschi, hanno prevalentemente un ruolo secondario (penso al compagno della protagonista italiana e a quello della co-protagonista cingalese) o, addirittura, negativo (penso al trafficante di opere d’arte o, per certi versi, persino al padre della protagonista, che rappresenta poi il magnifico collante dell’intera storia)?
Ecco, una risposta politicamente corretta e dunque ipocrita potrebbe essere che considero le donne migliori degli uomini. Non è così. Ma non è vero neppure il contrario. Credo che ci siano persone, a prescindere dal sesso, che possono essere buone o cattive, valide o insignificanti. In questo romanzo accanto a personaggi femminili molto forti, di spessore, gli uomini impallidiscono un po’, sono più prevedibili, un po’ sgualciti. Se posso essere del tutto scorretto, diciamo che ho descritto le donne come mi piacerebbe che fossero. Ma non sempre sono così.

Che cosa rappresenta per le l’universo femminile e quale spazio intravedi per la donna nel mondo in costruzione, in divenire?
Non sono molto ottimista sui destini del mondo. A meno che non si riesca a dare una sterzata che corregga questa dannata rincorsa solo al lato estetico del vivere: denaro, carriera, potere. I valori veri sono altri, e dovrebbero essere più naturali per una donna, che ha la fortuna di dare la vita. Ecco, quando si diventa genitori, si scopre il valore vero delle cose: e in questo la donna ha una fortuna in più rispetto all’uomo, fa nascere i suoi figli. L’universo femminile è sregolatezza ma fantasia, scarsa affidabilità ma capacità di comprensione: ha quello che manca al pianeta maschile. Rispetto il femminismo, quando è capace di agire non in modo anti, contro qualcuno, ma per costruire regole e sistemi nuovi. E proprio di questo accuso le donne. Il modello maschile è fallito, ma per cercare di affermarsi maggiormente nella vita, come è giusto che sia, le donne stanno facendo gli stessi errori che hanno fatto gli uomini. Dovrebbero provare a imporre un loro modello, utilizzare sistemi diversi. Altrimenti non cambierà niente.

“Papà Mekong” fa venire una voglia incredibile di viaggiare in Asia e di viaggiare l’Asia. Quali luoghi un viaggiatore occidentale non può non visitare, in quelle terre, e con quale spirito dovrebbe accostarsi a quei mondi?
L’Asia sono tanti mondi, ciascuno dei quali ha un fascino straordinario. Oltre al Mekong c’è un altro grande fiume, il Gange, e in India vanni visitate sicuramente Varanasi e anche Calcutta. Non si tratta di fare del turismo spettacolo sulla povertà e la sofferenza: è che soltanto visitando le parti del mondo più difficili, come possono essere Calcutta o la Cambogia, ci si può davvero rendere conto che la nostra condizione di occidentali è oltremodo fortunata. Perché lì c’è chi dorme sotto una busta di plastica o forse non ha nemmeno quella e con un dollaro mangia due giorni. Il viaggio è compartecipazione, è rendersi conto che siamo un mondo di fratelli e quando è possibile – cioè sempre – dovremmo aiutare chi ha avuto di diverso da noi soltanto la sfortuna di nascere in un posto meno comodo. E comunque, visto che poi non ci neghiamo anche un po’ di ristoro sulla spiaggia o a bordo piscina, suggerisco Thailandia, che adoro, Vietnam – il quartiere francese di Hanoi è una delizia – il lungofiume di Phnon Penh, ovviamente Angkor, la sonnolenta Lunag Prabang in Laos, Pagan in Birmania. D’estate diventa splendida l’isola di Redang, in Malesia.

Che cosa ti manca principalmente dell’Asia?
Tutto. Profumi, colori, il caldo umido, le zuppe Pho, vietnamita, e Tom Yum Goong, thailandese, il lemon fresh dello Shangri La di Bangkok, i mercati, le cavallette fritte di Yangoon, i massaggi, un po’ della pigrizia che ti conquista giorno dopo giorno. E il sorriso della gente, la semplicità delle relazioni, l’abbigliamento informale. Sto cercando di convincere mia moglia Carla ad andarci a vivere, tra pochi anni.

E del Mekong?
La luce del tramonto, quando i monaci fanno il bagno, i ragazzini dei villaggi caricano secchi d’acqua sulle spalle, le pentole cominciano a rumoreggiare sul fuoco. Nel delta ci mettono cane, topi o serpenti di fiume, una delle cose più immonde che abbia mai mangiato. Ma quando non hai troppa scelta per le cose da mettere nello stomaco, la bocca non fa troppi capricci. Basta guardare i bambini. Credo che l’espressione “non mi piace” non abbia traduzione da queste parti.