“C’è un tempo per correre al riparo / c’è un tempo per baciare e dirlo in giro / c’è un tempo per colori diversi / diversi nomi che trovi difficili da pronunciare. / C’è un tempo per la prima comunione / un tempo per gli East 17 / c’è un tempo per voltarsi verso la Mecca / c’è un tempo per essere una regina di bellezza. Eccola, la bellezza gioca a fare il clown / eccola, surreale con la sua corona”…
Era il 1995 e il gruppo irlandese degli U2 scriveva in collaborazione con il giornalista Usa Bill Carter una delle canzoni più famose e dolorose della musica rock degli Anni ’90, Miss Sarajevo. Bono e gli altri coinvolsero “Big Luciano” Pavarotti e il 12 settembre 1995, da Modena, il mondo ascoltò dal vivo una delle esecuzioni più toccanti e vive della storia della musica contemporanea. Sia gli U2 sia Pavarotti si erano già spesi a vario titolo per far sentire la voce della Bosnia aggredita e oltraggiata, dei 100.000 morti, del genocidio. Ciò nonostante, la Sarajevo di cui parlavano quegli eroi del canto, oggetto del più lungo assedio della storia bellica europea (più di 1.300 giorni), era una città/donna esattamente opposta a quella che tanta stampa cercava di far passare sulle pagine dei giornali e nei notiziari televisivi. La Sarajevo dei 10.000 e più morti, la capitale in cui cattolici, musulmani, ortodossi, ebrei e tanti altri avevano combattuto uniti contro l’aggressione ultranazionalista serba e serbo-bosniaca era una città diversa da come te l’aspettavi. Una città come la descriveva Paolo Rumiz: “La cosa più affascinante di Sarajevo è questa testarda urbanità che sopravvive agli inverni, ai cannoni, alle restrizioni alimentari, all’assenza di luce, acqua e gas. Non capisco davvero perché le grandi televisioni mondiali siano andate laggiù a cercare immagini di morte. Non hanno capito nulla. In guerra, la vera immagine di Sarajevo era la vita. Il suo centellinare ogni residuo comfort, il suo attaccamento testardo ai riti di un’antica vita borghese. A due passi dal rancido delle trincee, i teatri funzionavano, la gente sapeva di sapone, le donne mettevano il rossetto e facevano la messa in piega…”. Per Rumiz, Sarajevo era “un signore in giacca e cravatta che esce perfettamente sbarbato da un rudere che è casa sua”; per Bono/Pavarotti era, forse più realisticamente, Miss Sarajevo: perché Sarajevo è profondamente donna, nella sua dignità forte e impossibile da piegare, nel suo ordine assoluto anche e soprattutto nel caos, nella sua bellezza intangibile, nella sua fragilità così sensuale ma solo apparente. A poco più di 13 anni dalla fine della guerra del 1992-1995, che cosa rimane di te, Sarajevo, e a cosa assomigli oggi?

Sarajevo oggi, quasi tre lustri dopo, è così: arrivi in aeroporto e ti trovi in una struttura moderna e accogliente. Se non conosci la città e non sai come percorrere a piedi quei due chilometri che ti separano dal “trolleibus” del quartiere di Dobrinija – quello che per primo cadde sotto i colpi dei cetnici serbi – così da non farti derubare di una ventina di euro dai tassisti, quella che si disvela chilometro dopo chilometro lungo la ex “sniper alley”, il “viale dei cecchini”, è una città in costruzione, una specie di Berlino dei Balcani, in cui le case bucate dalle mitragliatrici e sventrate dai colpi di granata diminuiscono man mano che ci si appropinqua al centro per lasciare posto a grattacieli, moschee, palazzi in vetro e acciaio, super centri commerciali, banche. Tante banche. Troppe per una città povera. Ma le banche vanno dove c’è il denaro. E nella povera Sarajevo ce n’è tanto. Sporco. Ma basta andare, in verità solo poco, in profondità, per capire che, qui come altrove, è tutto o quasi falso l’oro che luccica.
Allora – ti do del tu perché dopo tanti anni spero di meritarmelo – come ti sei ridotta, Miss Sarajevo, quasi tre lustri dopo? I 300.000 sarajevesi che ti hanno tenuta libera durante l’assedio oggi sono diventati circa mezzo milione e si accingono a raggiungere quota 600.000, quella immediatamente precedente alla guerra. I tuoi politici hanno auto potenti e stipendi importanti (i tuoi parlamentari se lo sono recentemente raddoppiato, arrivando a circa 3.000 euro al mese, contro i 300 di uno stipendio medio – ma il 50% della popolazione bosniaca non ha un lavoro…); soprattutto, sono riusciti a completare il lavoro sporco avviato da Slobodan Milošević, Radovan Karadžić e Ratko Mladić – i tuoi boia, i signori del Male assoluto – e spaccato città e Paese in tre nazionalità, di fatto trasformandoti in un fantoccio nazionalista dal quale i tuoi giovani onesti, la stragrande maggioranza ancora, sognano di fuggire, per cercare scampo e futuro all’estero. I tuoi poliziotti sono sempre più corrotti. Le fondamenta dei tuoi grattacieli meravigliosi sono non di rado sporche di droga, prostituzione, sangue, e quei giganti agili e lucenti – quasi sempre vuoti – hanno lo scopo precipuo di facilitare il lavaggio del denaro sporco della mafia sarajevese, belgradese, kosovara. I tuoi teatri sono sempre pieni ma i fondi per l’arte e la cultura sono vieppiù drasticamente ridotti: e dire che proprio i tuoi attori hanno aiutato per tre anni e mezzo – ogni notte che Iddio e Allah mandavano, nelle tenebre di un assedio senza gas, elettricità e acqua potabile – a mantenere in vita il lumicino della speranza, in attesa che il sole tornasse a sorgere e la neve, prima o poi, si sciogliesse. Perché non poteva essere inverno in eterno. No.

