venerdì 17 aprile 2009

Sarajevo sempre traviata

Foto Helga Bernardini e Luca Leone

“C’è un tempo per correre al riparo / c’è un tempo per baciare e dirlo in giro / c’è un tempo per colori diversi / diversi nomi che trovi difficili da pronunciare. / C’è un tempo per la prima comunione / un tempo per gli East 17 / c’è un tempo per voltarsi verso la Mecca / c’è un tempo per essere una regina di bellezza. Eccola, la bellezza gioca a fare il clown / eccola, surreale con la sua corona”…
Era il 1995 e il gruppo irlandese degli U2 scriveva in collaborazione con il giornalista Usa Bill Carter una delle canzoni più famose e dolorose della musica rock degli Anni ’90, Miss Sarajevo. Bono e gli altri coinvolsero “Big Luciano” Pavarotti e il 12 settembre 1995, da Modena, il mondo ascoltò dal vivo una delle esecuzioni più toccanti e vive della storia della musica contemporanea. Sia gli U2 sia Pavarotti si erano già spesi a vario titolo per far sentire la voce della Bosnia aggredita e oltraggiata, dei 100.000 morti, del genocidio. Ciò nonostante, la Sarajevo di cui parlavano quegli eroi del canto, oggetto del più lungo assedio della storia bellica europea (più di 1.300 giorni), era una città/donna esattamente opposta a quella che tanta stampa cercava di far passare sulle pagine dei giornali e nei notiziari televisivi. La Sarajevo dei 10.000 e più morti, la capitale in cui cattolici, musulmani, ortodossi, ebrei e tanti altri avevano combattuto uniti contro l’aggressione ultranazionalista serba e serbo-bosniaca era una città diversa da come te l’aspettavi. Una città come la descriveva Paolo Rumiz: “La cosa più affascinante di Sarajevo è questa testarda urbanità che sopravvive agli inverni, ai cannoni, alle restrizioni alimentari, all’assenza di luce, acqua e gas. Non capisco davvero perché le grandi televisioni mondiali siano andate laggiù a cercare immagini di morte. Non hanno capito nulla. In guerra, la vera immagine di Sarajevo era la vita. Il suo centellinare ogni residuo comfort, il suo attaccamento testardo ai riti di un’antica vita borghese. A due passi dal rancido delle trincee, i teatri funzionavano, la gente sapeva di sapone, le donne mettevano il rossetto e facevano la messa in piega…”. Per Rumiz, Sarajevo era “un signore in giacca e cravatta che esce perfettamente sbarbato da un rudere che è casa sua”; per Bono/Pavarotti era, forse più realisticamente, Miss Sarajevo: perché Sarajevo è profondamente donna, nella sua dignità forte e impossibile da piegare, nel suo ordine assoluto anche e soprattutto nel caos, nella sua bellezza intangibile, nella sua fragilità così sensuale ma solo apparente. A poco più di 13 anni dalla fine della guerra del 1992-1995, che cosa rimane di te, Sarajevo, e a cosa assomigli oggi?

Vivo e soffro da anni per Sarajevo, che considero una delle città della mia vita. Nella mia testa. Perché Sarajevo è Bosnia e la Bosnia è un luogo che ti accoglie con calore, ti offre il caffè, ti affascina e culla, ma non ti fa mai entrare nella sua vita profonda, in quella che si consuma oltre il salotto di casa. È così raro che ti permetta di arrivare alle stanze più in fondo, o addirittura alle fondamenta. C’è sempre una porta chiusa, nella vita dei bosniaci e dei sarajevesi. E non sai mai che cosa possa contenere la stanza dietro quell’uscio. Certo, custodisce gli aspetti più intimi della loro vita. Che i sarajevesi non ti raccontano. E che probabilmente – quasi certamente – noi neppure saremmo in grado di capire.
Sarajevo oggi, quasi tre lustri dopo, è così: arrivi in aeroporto e ti trovi in una struttura moderna e accogliente. Se non conosci la città e non sai come percorrere a piedi quei due chilometri che ti separano dal “trolleibus” del quartiere di Dobrinija – quello che per primo cadde sotto i colpi dei cetnici serbi – così da non farti derubare di una ventina di euro dai tassisti, quella che si disvela chilometro dopo chilometro lungo la ex “sniper alley”, il “viale dei cecchini”, è una città in costruzione, una specie di Berlino dei Balcani, in cui le case bucate dalle mitragliatrici e sventrate dai colpi di granata diminuiscono man mano che ci si appropinqua al centro per lasciare posto a grattacieli, moschee, palazzi in vetro e acciaio, super centri commerciali, banche. Tante banche. Troppe per una città povera. Ma le banche vanno dove c’è il denaro. E nella povera Sarajevo ce n’è tanto. Sporco. Ma basta andare, in verità solo poco, in profondità, per capire che, qui come altrove, è tutto o quasi falso l’oro che luccica.
Allora – ti do del tu perché dopo tanti anni spero di meritarmelo – come ti sei ridotta, Miss Sarajevo, quasi tre lustri dopo? I 300.000 sarajevesi che ti hanno tenuta libera durante l’assedio oggi sono diventati circa mezzo milione e si accingono a raggiungere quota 600.000, quella immediatamente precedente alla guerra. I tuoi politici hanno auto potenti e stipendi importanti (i tuoi parlamentari se lo sono recentemente raddoppiato, arrivando a circa 3.000 euro al mese, contro i 300 di uno stipendio medio – ma il 50% della popolazione bosniaca non ha un lavoro…); soprattutto, sono riusciti a completare il lavoro sporco avviato da Slobodan Milošević, Radovan Karadžić e Ratko Mladić – i tuoi boia, i signori del Male assoluto – e spaccato città e Paese in tre nazionalità, di fatto trasformandoti in un fantoccio nazionalista dal quale i tuoi giovani onesti, la stragrande maggioranza ancora, sognano di fuggire, per cercare scampo e futuro all’estero. I tuoi poliziotti sono sempre più corrotti. Le fondamenta dei tuoi grattacieli meravigliosi sono non di rado sporche di droga, prostituzione, sangue, e quei giganti agili e lucenti – quasi sempre vuoti – hanno lo scopo precipuo di facilitare il lavaggio del denaro sporco della mafia sarajevese, belgradese, kosovara. I tuoi teatri sono sempre pieni ma i fondi per l’arte e la cultura sono vieppiù drasticamente ridotti: e dire che proprio i tuoi attori hanno aiutato per tre anni e mezzo – ogni notte che Iddio e Allah mandavano, nelle tenebre di un assedio senza gas, elettricità e acqua potabile – a mantenere in vita il lumicino della speranza, in attesa che il sole tornasse a sorgere e la neve, prima o poi, si sciogliesse. Perché non poteva essere inverno in eterno. No.

Che dolore vederti, oggi, Sarajevo: con i tuoi tanti, troppi poveri costretti a vivere in periferia, i tuoi tanti orfani in strutture sconosciute ai più, le tue decine di migliaia di traumatizzati lasciati a se stessi e rimossi dal ricordo, e i campanili e i minareti sempre più alti, numerosi e “lontani”. Il vescovo cattolico ausiliare Pero Sudar un paio d’anni fa mi confessò, nel chiuso di un bel salottino dalle poltrone rosse, mentre sorseggiavamo un ottimo tè: “Quando, all’inizio della guerra, mi hanno chiesto che cosa temessi di più, ho risposto che temevo di più che la logica di Pale – la piccola città vicina a Sarajevo in cui i dirigenti serbi avevano fissato la capitale dell’auto-proclamata Repubblica serba di Bosnia – venisse accolta anche dagli altri. Purtroppo questo è successo…”. È successo, Sarajevo, e oggi sei una città spaccata. In quanti pezzi, difficile dirlo. Ci sono i pezzi dei tre partiti/nazione/religione, poi quelli della comunità internazionale, che ha fatto e continua a fare danni, quindi quelli delle potenze esterne che guadagnano, anno dopo anno, millimetro dopo millimetro, pezzi del tuo asfalto e del tuo cuore; e quelli lasciati dalle organizzazioni internazionali e non governative che, finiti i soldi, ti hanno tradita per andare a sposare una causa nuova, e più remunerativa. Ma mai bella quanto te. Le lacrime della tua gente non bastano per unire questi pezzi, per fare da collante. E allora, ecco il rifugio: ecco la rimozione collettiva dei traumi non curati, che un giorno torneranno; ecco gli estremismi politico-religiosi fare spese d’anime a pagamento, ecco i cinesi al mercato delle mogli e della cittadinanza, ecco i nuovi miti farsi strada ed ergere a modello dei ragazzi che ambiscono diventare, sempre più numerosi, mafiosi e malavitosi, ecco i tuoi cittadini morire del cancro e delle leucemie lasciate dalla guerra, e farlo in segreto, nel chiuso delle loro case, per non disturbare. Ecco il turismo sessuale e quello delle comitive tutte contente perché “McDonald’s e Benetton sono arrivati anche qui”. Questa, per molti, è la pace.

Il tuo abito è più lucido ma in realtà ti è rimasto poco, Miss Sarajevo, e quel poco te lo stanno rubando, te lo stanno portando via. Ti è rimasta la dignità, quella sì. Quella l’hai avuta sempre e nessuno te la potrà mai rubare. È impossibile. Non ci sono riusciti i paramilitari fascisti serbi e non ci riuscirà neppure il capitalismo sfrenato che ti stringe alla vita con le sue mani mafiose e vuole fare l’ultimo ballo con te. L’ultimo? No. Passerà anche questa, Sarajevo. Passerà anche questa nuova notte. Si scioglierà anche questo gelo. L’importante è che tu rimanga ben salda tra le tue montagne e resista, resista ancora, a questa guerra che non accenna a passare. Ma che non farà sfiorire la tua bellezza. Mai.