martedì 12 maggio 2009

Rwanda, quando l’informazione uccide


Intervista a Fonju Ndemesah Fausta, autore de “La radio e il machete”, alla vigilia del mini-tour di presentazioni romane

Fonju Ndemesah Fausta, ricercatore storico camerunese plurilaureato forte di un dottorato in Cooperazione Internazionale e Politiche dello Sviluppo Sostenibile, ha scritto per i tipi di Infinito edizioni “La radio e il machete. Il ruolo dei media nel genocidio in Rwanda”, un libro per ricordare, nel suo triste quindicinale, il genocidio rwandese, che nella primavera del 1994 vide perpetrarsi il massacro di 800.000 esseri umani tra le verdi colline del Rwanda. Alla vigilia del breve ciclo di presentazioni che lo vedranno impegnato a Roma oggi, giovedì e venerdì, lo abbiamo incontrato per approfondire le questioni più salienti e largamente dimenticate che portarono al compimento del genocidio rwandese. Questioni ancora oggi insolute, in buona parte del continente africano.

D. Cominciamo dal titolo: perché il focus su radio e machete? Quale ruolo hanno avuto questi due strumenti nel genocidio ruandese?
R. Mentre la radio, e particolarmente la RTLM o Radiotelevisione libera delle mille colline, fu usata per diffondere l’odio contro i Tutsi e tutti gli oppositori degli estremisti Hutu, il machete fu l’arma maggiormente adoperate dagli esecutori dei massacri.

D. Proviamo a ripercorrere brevemente il genocidio in Rwanda. Cause, protagonisti, vittime…
R. Per capire il genocidio rwandese dobbiamo cercare di ricostruire le trasformazioni che hanno subito le parole Hutu e Tutsi dall’epoca coloniale fino al lancio della soluzione finale da parte degli estremisti Hutu. Per essere breve direi che più che “etnico”, il genocidio rwandese può essere definito politico, e trova la sua origine in diversi fattori. Questi ultimi possono essere suddivisi in immediati (politici, economici) e remoti, ovvero risalenti alla storia del Rwanda: prima, durante e dopo la colonizzazione. Ideologie e concetti relativi alla divisione razziale ed etnica delle popolazioni si forma¬rono e si affermarono in una dinamica storica complessa e vennero assunte come fondamenta della politica dello Stato indipendente a partire dalla fine degli Anni ‘50. Dunque, il genocidio rwandese non fu una guerra etnica – simile ai conflitti che caratterizzerebbero il continente africano, secondo le osservazioni prevalenti sui media occidentali, e che, se analizzati tutti, si dimostrerebbero la conseguenza di dinamiche complesse, di cui l’etnicità è solo un’espressione – né fu la conseguenza dell’odio ancestrale tra hutu e tutsi. Non fu nemmeno un raptus d’odio degli estremisti nei confronti del resto del Paese. Fu invece una macchina della morte organizzata dai vertici dello Stato che, accecati dal proprio egoismo e dalla volontà di mantenere il potere, non esitarono a spingere gli estremisti contro un elevato numero di loro concittadini.
Per quello che riguarda i protagonisti del genocidio, li divido in tre gruppi; gli organizzatori del genocidio e gli attori materiali delle uccisioni che troviamo nelle alte cariche del governo e in tutti i suoi sostenitori; poi c’è la comunità internazionale, che avrebbe dovuto dire “no” ma che è rimasta a guardare per non compromettere la posizione di alcune potenze coinvolte. Infine abbiamo i media interni, che hanno creato il nemico e normalizzato l’odio, e quelli internazionali, che hanno facilitato l’evolversi del genocidio con la loro lettura semplicistica dei massacri come odio tribale e guerra etnica, rinforzando la tesi degli organizzatori della soluzione finale che porterà al massacrodi circa 800.000 persone in soli 100 giorni.

D. A posteriori, quali responsabilità internazionali e regionali hanno favorito o addirittura provocato il genocidio?
R. Molte e varie: l’instabilità della regione dei Grandi Laghi, con il colosso della regione, la Repubblica democratica del Congo (Rdc), che stava subendo il declino del dittatore-presidente Mobutu Sese Seko; il problema irrisolto dei rifugiati rwandesi sparsi in varie zone della regione, soprattutto nel Sud Kivu; l’Uganda che appoggiava i ribelli del Fronte patriottico rwandese (Fpr). Come se non bastasse, arrivò anche l’uccisione, il 21 ottobre 1993, del presidente burundese Ndadaye, assassinato da un commando di Tutsi. Insomma, una zona caratterizzata dall’instabilità.
Le responsabilità della comunità internazionale si esemplificano nel completo tradimento della popolazione Tutsi e Hutu moderata, che contava sul sostegno internazionale per fermare e condannare gli organizzatori e gli esecutori dei massacri. Purtroppo questo non avvenne. La comunità internazionale stette lì a guardare mentre migliaia di innocenti venivano uccisi per il semplice fatto di appartenere a un gruppo diverso o solo per il fatto di non aderire all’idea dell’odio etnico propagandata dagli estremisti hutu al potere. Molte potenze pensarono unicamente a evacuare i loro cittadini, lasciando la popolazione che stava chiedendo aiuto nelle mani dei massacratori. Insomma molte potenze erano accecate dal loro egoismo. In tanti continuarono a sostenere il governo estremista anche dopo l’ammonizione di molti studiosi, che segnalavano il piano di sterminio dei Tutsi preparato dal governo estremista al potere.

D. Un capitolo a parte merita il comportamento, nella crisi, dell’Onu. Come lo descriveresti e quali sono state le responsabilità?
R. L’Onu era accecata dall’egoismo di parte delle superpotenze che gestivano la sua agenda e non riuscì a capire, nonostante i molti segnali, che si trattava dell’inizio di un genocidio e non di una “guerra etnica” o di una “guerra civile”, come continuavano a chiamarla i funzionari delle Nazioni Unite in Rwanda. Anche quando comprese quello che stava accadendo e si decise ad agire, il Palazzo di Vetro era ancora ostacolato dalla mancanza di fondi e di interesse a intervenire da parte delle grandi potenze. Dopo la firma dell’Ac¬cordo di Arusha, una delle condizioni per fare rispettare questi accordi era il dispiegamento di un contingente di pace, ma le forze della Minuar erano arrivate molto tardi, contribuendo così al fallimento degli accor¬di. Allorché le forze della Minuar giunsero, non avevano nessun mandato per fermare il massacro. Quando il generale canadese Romeo Dallaire, alla guida della missione, vide la pericolosità della situazione e chiese l’aumento delle sue truppe, l’Onu in tutta risposta ridusse la sua presenza, rendendo i soldati quasi impotenti davanti ai massacri; inoltre il mandato di cui i caschi blu dispo¬nevano non permetteva loro di usare la forza, cosa che li rendeva cani da guardia senza denti mentre migliaia di persone venivano uccise. Quest’impotenza dell’organizzazione che avrebbe dovuto fermare o almeno contrastare i massacri giocò un ruolo molto importante nel facilitare lo svolgimento del genocidio. Per descrivere l’atteggiamento dell’Onu in Rwanda durante il genocidio userò le parole di Gérald Prunier, uno dei massimi studiosi del Rwanda, secondo cui l’atteggiamento delle Nazioni Unite durante il genocidio fu un atto di “abbandono”.

D. In Rwanda è stata fatta giustizia? A che punto siamo?
R. Questa domanda andrebbe rivolta alle decine di migliaia di persone che non avranno più la fortuna di abbracciare i loro cari massacrati, oppure a quelli che girano senza una gamba o un braccio vedendo i loro massacratori liberi. Penso che solo questa gente riesca a definire appieno il livello di giustizia fatta. Detto questo, se per giustizia s’intende l’arresto e la punizione dei responsabili del genocidio, direi che abbiamo ancora molta strada da fare per dare piena giustizia alle famiglie che hanno perso i loro cari.
Poche potenze, inoltre, hanno accertato o ammesso il ruolo da esse giocato nel genocidio. Penso che questo, ovvero ammettere le proprie colpe, sia invece un passo fondamentale verso la giustizia. Purtroppo molte potenze proteggono ancora i principali ideatori della soluzione finale, tutti ricercati dal Tribunale internazionale per i crimini di guerra in Rwanda. Finché questi genocidari saranno liberi e fin quanto le vittime non saranno aiutate concretamente a superare i traumi subiti, oltre che con aiuti finanziari, la giustizia continuerà a essere assente e questo ci dovrebbe spingere a riflettere.

D. Perché hai sentito il bisogno di pubblicare un libro sul genocidio in Rwanda?
R. Per almeno due ragioni. La prima è il dovere morale, che ho avvertito da figlio di quel continente spesso raccontato con superficialità. Credo che il genocidio in Rwanda sia un tema ideale per smantellare questa visione deludente delle vicende che accadono nel continente africano, vista la mancanza di profondità della copertura del genocidio da parte della stampa internazionale. Quest’ultima fu influenzata dall’antropologia evoluzionistica dell’epoca coloniale e da uno sciovinismo geografico che tende a leggere tutto quello che accade nel continente con una griglia etnica. Mentre oggi sarebbe considerato un insulto chiamare un popolo “primitivo”, “pre-logico” o “tradizionale”, come si faceva all’epoca della tratta degli schiavi e del colonialismo, le parole “etnie” e”tribù” sembrano invece essere accettate e addirittura aver sostituito quelle giudicate “politicamente scorrette” nell’indicare, più o meno, i medesimi concetti. È questa “etnicizzazione” di vicende le cui origini andrebbero cercate nelle dinamiche storiche, politiche e globali, che mi ha spinto a scrivere del genocidio, 15 anni dopo.
Il secondo motivo è l’importanza del genocidio rwandese nel leggere le trasformazioni che stanno prendendo corpo nel continente. Quanto democratici sono diventati gli Stati africani per sbarrare la strada ad altri massacri e genocidi simili a quello rwandese? Quanto è cambiata la comunità internazionale dopo l’“abbandono” del 1994? Saprebbe dare una risposta diversa al genocidio costato la vita a circa 800.000 persone in Rwanda? Grosso modo, una visione critica del genocidio in Rwanda ci aiuta a capire le dinamiche presenti del continente. Sono queste ragioni, insieme a molte altre, che mi hanno spinto a scrivere “La Radio e il Machete”.

D. Oggi in Africa vedi conflitti o situazioni a rischio che possano far presagire un nuovo Rwanda?
R. L’Africa è una pentola in ebollizione di cui si parla solo quando salta il coperchio. Sebbene non si possa equiparare la situazione a quella del Rwanda nel 1994, sono comunque presenti in molti Paesi le condizioni che hanno portato alla normalizzazione dell’ideologia dell’odio in Rwanda. Molti giovani africani, ad esempio, non hanno un futuro a causa della disoccupazione crescente e il monopolio della vita politica è detenuto da settuagenari e ottuagenari in un continente in cui la maggioranza della popolazione ha tra i 18 e i 50 anni. Come se non bastasse, la democrazia è diventata “etnocrazia”, nepotismo e corruzione sono diffusamente utilizzati da dittatori che non vogliono lasciare il potere. In molti Paesi africani abbiamo presidenti che si proclamano democratici ma sono al potere da più di trent’anni, sostenuti dall’esercito e da amici occidentali. Queste condizioni di oppressione e di vita precaria della popolazione stanno creano una massa di giovani scontenti e pronti a produrre il cambiamento nonostante i metodi criminali usati dai loro Stati per fermare queste richieste di cambiamento. Parlare di un nuovo Rwanda forse non è il caso, però direi che ci sono conflitti ingiustamente definiti a “bassa intensità” che uccidono e continuano a uccidere in molti parti dell’Africa. Da ricercatore africano proverò una grandissima pena ma non mi stupirei se mi venissero a dire che oggi ci sono 10, 20, 100 e più morti in Gabon, Ciad, Rdc, Togo, Guinea Equatoriale, Zimbabwe, Camerun e così via perché in molti di questi Paesi la comunità internazionale e i mass media hanno sempre confuso l’assenza di guerra con la stabilità. Invece molti di questi Paesi sono afflitti da conflitti politici ed economici di cui le origine sono ben note.

D. Oggi in Africa si parla ancora del genocidio in Rwanda o si tratta di un “episodio” rimosso?
R. Direi che se ne parla, ma pochissimo. Lo si dovrebbe fare di più per scoraggiare quei governi che ambiscono comportarsi come il governo estremista hutu. Molte volte il genocidio rwandese viene richiamato da dittatori post-coloniali e dai neocolonialisti per legittimare e mantenere la loro egemonia del potere, sopprimendo le libertà elementari della popolazione e sventolando una presunta protezione della sicurezza nazionale. Ma l’unico fine è ottundere i cervelli dei cittadini e prolungare la propria permanenza al potere.