Mi sono chiesto non so più quante volte, negli ultimi sedici anni, come avrei reagito alla notizia dell’arresto di Ratko Mladić. Non ricordo in quante occasioni ho scritto di lui, in questi tre lustri; quante volte ho dovuto pronunciare il suo nome, nel corso o alla fine delle presentazioni dei miei libri.
Sono sempre stato certo che il suo arresto sarebbe stato più difficile di quello del suo sodale e socio del terrore, l’ex auto-proclamato presidente della ex auto-proclamata Repubblica Srpska di Bosnia (Rs), Radovan Karadžić. Perché Mladić è a conoscenza di più segreti del mediocre poeta spiantato Karadžić; perché era lui il vero uomo di Slobodan Milošević nel mattatoio bosniaco; perché era lui quello che incontrava, nella sua profonda rozzezza e tracotanza, gli inviati stranieri e i negoziatori che goffamente proponevano piani di pace a chi pensava solo ad affogare la multiculturalità bosniaca nel sangue dei musulmani di quelle parti. E a mettersi in tasca terre e risorse come conseguenza della più evidente e clamorosa aggressione bellica del secondo dopoguerra europeo.
Ora che hanno arrestato “il generale”, l’uomo dalla mediocre biografia che ha spedito indietro nel tempo di quarant’anni la Bosnia Erzegovina, radendola al suolo sia materialmente che culturalmente, invece della gioia a prevalere è il senso di spossatezza. E anche scrivere queste poche righe pare una fatica immensa.
La biografia di Mladić rappresenta bene l’uomo: nato il 12 marzo 1943 a Bozinoviči, Erzegovina occidentale, il suo nome potrebbe essere rozzamente tradotto come Guerriero Giovane. Diplomatosi all’Accademia militare di Zemun, nel 1991, quando la Jugoslavia sta per esplodere è ancora uno dei tanti ufficiali del corpo Pristina, di stanza al confine tra Jugoslavia e Albania. Dopo aver appoggiato le rivendicazioni secessioniste dei serbi della Krajina in Croazia, nella primavera del 1992 è nominato comandante dell’esercito della Rs. Destituito dalle sue funzioni di capo di stato maggiore dell’esercito serbo-bosniaco nel novembre 1996, era ricercato per essere giudicato dal Tribunale penale internazionale per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia (Tpi) dellAja con l’accusa di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio. È stato l’ideatore e il realizzatore materiale del genocidio di Srebrenica, costato la vita a circa 10.700 persone con un cognome musulmano.
Una biografia mediocre come l’uomo, che solo grazie alla guerra e al bagno di sangue da lui stesso progettato e realizzato è riuscito a passare dal pantano del nulla alla storia. Come una sorta di piccolo, nuovo Adolf Hitler. Ma c’è chi si accontenta anche di questo.
L’attesa dell’arresto è stata estenuante, fin da quando, negli anni successivi alla fine della guerra del 1992-1995, i soldati francesi e russi si voltavano dall’altra parte, pur di non arrestare il carnefice, protetto dall’esercito, dai servizi segreti, dai politici ultranazionalisti serbi e serbo-bosniaci. Fino a pochi anni fa, d’altronde, Mladić percepiva un salario dall’esercito, che gli ha sempre creato il vuoto intorno per preservarne la libertà e non intaccare la mitologia barbara creata intorno alla sua rozza e sanguinaria figura dagli ultranazionalisti serbi. Che poi, a dirla tutta, se smettessimo di chiamare costoro ultranazionalisti e usassimo il nome che loro spetta – nazisti – faticheremmo meno e sarebbe tutto più chiaro.
Spossatezza, dunque. E, nella storicità del momento, in un’Italia in cui ben pochi sanno che cosa ha fatto costui alle nostre porte, alcune riflessioni vengono spontanee, e può valer la pena buttarle lì sul tavolo, magari parlarne, dando anche così fiato alle fanfare stonate dei sostenitori di Mladić – ne ha tanti anche in Italia – che ora cercheranno sfogo alla loro impotenza gretta, come sono soliti fare, nell’offesa e nel turpiloquio informatico, attività di cui sono veri maestri (basti vedere l’immondizia neo-nazista che molti di loro caricano su Youtube).
La prima riflessione riguarda l’annuncio di Boris Tadić, col quale il presidente della Repubblica serba – definito da molti un “nazionalista moderato” – oggi all’ora di pranzo raccontava ai serbi e al mondo che la latitanza di Mladić era finita. “Credo che l'operazione che ha portato all'arresto di Mladić renda il nostro Paese più sicuro, e più credibile. Sono fiero del risultato raggiunto, è una cosa buona per la Serbia che questa pagina della storia si sia chiusa. E che si sia conclusa la fuga di Mladić. Ora bisogna continuare a cercare i suoi complici, quelli che l'hanno aiutato a nascondersi per tutti questi anni, anche tra membri del governo. Arresteremo Goran Hadzić. Per adesso però penso che per la Serbia le porte dell'Ue siano aperte", ha detto Tadić, più realista del re, come suo solito.
Con poche parole il presidente serbo ha detto una serie di verità, verità inconfutabili per chi conosce un minimo la realtà di quelle parti. Innanzitutto, il fatto che Mladić fino a oggi abbia goduto della protezione anche di membri del governo e delle alte sfere delle forze armate è innegabile; potremmo arrivare a dire che queste protezioni erano attive fino a ieri, vista la presenza di elementi nazionalisti radicali nel governo di Tadić, e che poi improvvisamente qualcosa deve essere cambiato. Questo vuol dire che sono in arrivo, nel medio o addirittura nel breve periodo, modifiche importanti anche nel governo serbo e che ora Tadić ha un ticket formidabile da far valere nei confronti dell’elettorato moderato serbo, che ha avuto fiducia in lui e che poi rappresenta la maggioranza degli elettori e dei cittadini serbi, donne e uomini stanchi che vogliono finalmente uscire dall’incubo degli anni Novanta e ricominciare a guardare con ottimismo e libertà al futuro. Un futuro europeo e non più filo-russo.
La seconda grande verità nascosta nelle parole di Tadić riguarda il fatto che ci sono ancora tanti, tantissimi criminali in circolazione, come ad esempio la marmaglia paramilitare di Arkan, e che ora tutti ci attendiamo che le manette scattino ancora parecchie volte e che le celle finalmente si riempiano.
Una terza verità riguarda la questione delle porte aperte nella Ue. La consegna, nell’estate del 2008, del barbuto Karadžić le ha schiuse, portando poco dopo dapprima Belgrado, poi Sarajevo, a firmare gli ambìti Asa, gli accordi di pre-adesione all’Unione europea. Ora la consegna di Mladić alla giustizia internazionale dovrebbe spalancare definitivamente le porte all’ingresso della Serbia nella Ue e assestare una mazzata da ko agli ultranazionalisti serbi e ai loro sostenitori russi. E questo potrebbe portare a un’interessante conseguenza, ovvero all’isolamento definitivo dell’ultranazionalista, provocatore e miliardario primo ministro serbo bosniaco Milorad Dodik, l’ultimo assertore dell’indipendenza serbo bosniaca in un’ottica di successiva adesione all’ammuffito e fine ottocentesco progetto di Grande Serbia.
Le parole di Tadić, però, ci portano a spostare l’attenzione dai Balcani all’Olanda, all’Aja. Il mandato del Tribunale scade alla fine del 2014 e, fino a oggi, in pochi tra i membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu sono sembrati intenzionati a prolungarne i tempi di lavoro. Da qui alla scadenza del mandato del Tpi mancano due anni e mezzo. Per dare un’idea dei tempi del Tribunale, basti pensare che i quasi tre anni dall’arresto di Karadžić a oggi non sono bastati neppure per arrivare a una sentenza di condanna di primo grado, nonostante la riduzione d’ufficio dei tanti capi d’accusa. E sarebbe auspicabile che sia Karadžić che Mladić venissero condannati in appello (sempre che il malato Mladić abbia, ed è auspicabile, così tanti anni di vita davanti), prima di mandare in soffitta – se proprio necessario, ma su questo molti sono i dubbi – il Tpi. Quel che si chiede è un nuovo inizio al Tpi, ai potenti del mondo, alla giustizia internazionale. Le donne di Srebrenica di quello parlano da oggi, di un “nuovo inizio” successivo all’arresto di Mladić. Loro, molto ma molto più stanche di tutti noi, sanno bene che il boia di Srebrenica ha ancora amici e sanno, ancor meglio, che fino a oggi sono riuscite a ritrovare e seppellire solo circa un terzo dei loro cari torturati e barbaramente ammazzati da Mladić e dai suoi nel luglio 1995. Il lavoro, quindi, è solo all’inizio, nonostante il tempo passato e il dolore che, invece, non passa mai.
Un’ultima cosa su cui riflettere riguarda la posizione degli Stati Uniti e in particolare del presidente Barack Obama, giunto in Europa pochissime settimane dopo l’ultima “sparata” referendaria di Dodik, che questa volta puntava a spaccare la Bosnia Erzegovina minandone la credibilità del potere giudiziario. Ed è probabile che proprio dall’ultimo viaggio di Obama in Europa qualcosa si sia mosso e sia arrivato l’ok all’arresto di Mladić. Se così fosse, ancora una volta l’Unione europea, nella quale Belgrado e Sarajevo dimostrano di voler entrare con entusiasmo, avrebbe dimostrato la sua pochezza e la sua inconsistenza in politica estera. E questa è un’altra questione non di poco conto su cui riflettere, per noi “comunitari” e per coloro che vogliono entrare in questa strampalata e litigiosa famiglia. Che ricorda terribilmente la pochezza di questa nostra povera e tartassata Italia.