Diverse e
contrastanti sono state le reazioni alla qualificazione della Bosnia Erzegovina
ai Mondiali del 2014 in Brasile. I pareri cambiano a seconda del “tifo”
politico per l’una e per l’altra componente del mosaico nazionale (non etnico,
ma nazionale) bosniaco-erzegovese.
Come
ormai è noto, con la vittoria per 1-0 in Lituania la nazionale allenata dall’ex
grande calciatore jugoslavo Safet Susic ha vinto il girone eliminatorio (gruppo
G) in cui il caso l’aveva inserita (con Grecia, Slovacchia, Lituania, Lettonia
e Liechtenstein) e ha strappato il biglietto per il Brasile. La Bosnia ha vinto
il girone a pari merito con la Grecia, a quota 25 punti, ma grazie ai risultati
negli scontri diretti ha potuto chiudere in testa, obbligando gli ellenici ad
altri due scontri eliminatori con la seconda classificata di un altro girone nella
speranza di trovare anch’essi la strada per il Brasile. D’altronde, il tasso
tecnico della Bosnia è troppo elevato per costringere i ragazzi di Susic e
restare a casa e lo dimostrano i risultati sempre più prestigiosi raggiunti
dalla nazionale bosniaco-erzegovese negli ultimi quattro anni.
Ora, è
chiaro, una qualificazione per il Mondiale brasiliano non può certo cambiare la
situazione sociale e politica del Paese, che è drammatica. Anzi, vista la
qualità scadente dei politici bosniaci e il loro accanimento contro il progetto
di casa comune bosniaco-erzegovese, è probabile che questa qualificazione
sortisca un risultato esattamente opposto da parte di alcuni dei peggiori
estremisti della politica nazionale, alcuni dei quali al governo, che
tenteranno di assestare ulteriori destabilizzanti spallate alla tenuta del
Paese. Restano, in tutto questo, però dei punti positivi che vanno a favore
della Bosnia e del futuro.
È vero e
innegabile che il grosso dei cittadini serbo-bosniaci tifasse per la Serbia (e
siano rimasti assai delusi dall’eliminazione della squadra di Belgrado dalla
corsa al Brasile) e, nel confronto tra Bosnia e Grecia, tenessero per la seconda,
nel girone; è, allo stesso modo, innegabile che i croato-bosniaci tengano per
la Croazia e sperino ancora che la nazionale di Zagabria riesca a superare i
play-off tra le seconde classificate per andare ai Mondiali; ed è inevitabile
che gli estremisti, durante i Mondiali del prossimo anno, ce la metteranno
tutta per avvelenare l’atmosfera e creare scontri almeno dialettici in patria e
per gettare discredito sulla nazionale. È così scontato che pare già di sentir
gracchiare i corvi nazionalisti di tutte le parti.
Il punto,
però, è che in un Paese come la Bosnia, uscito meno di vent’anni fa da una
guerra mostruosa, il calcio può rappresentare un collante potentissimo per
cementare l’unità nazionale. Un collante magari invisibile e molto lento, per
carità; ma se la Bosnia riuscisse a finire in un girone abbordabile e potesse
superare il turno, arrivando almeno agli ottavi di finale del Mondiale
brasiliano, non c’è da escludere che un briciolo di orgoglio nazionale unitario
possa cominciare a fare capolino non negli imbecilli della divisione a tutti i
costi ma nei cittadini comuni, stanchi di uno stillicidio quotidiano continuo e
bisognosi di affermare un’identità non più in contrasto con quella degli altri
ma comune, quindi non più negativa ma finalmente positiva. Costoro sono la
maggior parte dei cittadini bosniaci, checché ne dicano i politici e certi
critici forse troppo definitivi, per non dire disinformati o di parte.
Un primo
miracolo è stato fatto, nel frattempo. Quando Michel Platini, presidente dell’Uefa
e possibile nuovo presidente della Fifa – quando il sempre più impresentabile e
insopportabile svizzero Sepp Blatter finalmente sarà stato invitato a togliere
le tende e a mettere fine alla sua inconcepibile e cieca dittatura sul massimo
organismo calcistico mondiale – scoprì, qualche anno fa, manifestando tutta la
sua impreparazione in materia, che in Bosnia c’erano tre federazioni
calcistiche diverse a fronte di una popolazione di circa quattro milioni di
cittadini, minacciò d’escludere la Bosnia dalla Uefa e quindi da ogni
manifestazione calcistica continentale, sia di nazionale che di club. Una
minaccia cieca e pericolosa che per fortuna è stata sradicata dall’impegno di
un uomo intelligente che si chiama Elvedin Begic, che di mestiere fa il presidente
della federazione calcistica bosniaca e che, con non pochi sforzi e “qualche”
compromesso, è riuscito nel miracolo di unificare le tre federazioni, salvando
il futuro calcistico del Paese e forse anche molto di più. Metà del merito
della qualificazione in Brasile è proprio di Begic, e non è stato guadagnato
sul campo ma in diplomazia.
Questo è stato uno di quei passi piccoli,
invisibili ma fondamentali per creare quel collante sociale assente in Bosnia
Erzegovina, e i cui frutti sono senz’altro stati colti nella qualificazione in
Brasile ma anche in molto di più. Ora si tratta di continuare a investire,
nella speranza che la politica nazionalista non si renda conto troppo presto
del potere di collante che la nazionale può avere per il Paese. Fin qui la
politica bosniaca di matrice nazionalista ha infatti fortemente condizionato il
calcio a livello di club (durante la guerra, i peggiori macellai sono stati
arruolati proprio nelle “curve” delle tifoserie bosniache di Belgrado,
Zagabria, Sarajevo eccetera) marchiandone politicamente in modo molto forte e
negativo le tifoserie. È vero che al momento la nazionale bosniaca è
soprattutto la nazionale dei sarajevesi e dei musulmani. Però perché non
sperare che un capolavoro come la qualificazione in Brasile non possa dare
altri frutti, oltre a un viaggio esotico per un agguerrito e abile gruppo di
giovanotti in pantaloncini?