L’incontro delle memorie a Srebrenica
Giunta a Srebrenica, la mia prima sorpresa è stato
l’odore di morte. Ho avuto l’impressione di sentire
la fossa comune allo stesso modo di quando ne apriamo una in Rwanda. Forse è
perché sapevo quanto vi era accaduto. La notte non sono riuscita, senza una
ragione, a dormire.
Una situazione strana. Nessun ragazzo gioca nelle
strade di Srebrenica nonostante ci sia un tempo splendido.
Nel 1995 sono stati uccisi tutti gli uomini e i
ragazzi musulmani dai 12 anni in su. Alcuni sopravvissuti non sono più
ritornati. Dovunque ci sono rovine come nel Rwanda proprio dopo il genocidio.
La sofferenza non ha altro colore di pelle che il
suo.
La sofferenza non ha altra lingua che la sua.
Quando ho incontrato le madri di Srebrenica, ho
visto il loro dolore, ho visto il mio attraverso i loro occhi disperati: noi
abbiamo comunicato così! Loro parlano bosniaco e io parlo francese. Abbiamo
pianto insieme. Abbiamo condiviso la nostra sofferenza, le nostre ferite e ci
siamo subito capite.
Mi pongo domande in modo ancora più forte di quanto
me le ponga sul Rwanda. Nel Rwanda esiste un abbozzo di giustizia. Non è tutto
perfetto. Ma almeno le forze che hanno pianificato il genocidio non governano
più nel Rwanda. Anche se lo Stato è originariamente responsabile del genocidio,
ora non è più governato dagli stessi individui che ho visto brandire armi da
fuoco e machete, né la stessa ideologia di allora dirige il Paese. Il nuovo governo
del Rwanda ha richiesto un tribunale penale internazionale e l’Onu l’ha
istituito. Questo tribunale ha almeno il merito di esistere, anche se non mi
soddisfa, ma i carnefici non dormono tranquilli là dove si sono sottratti alla
giustizia, fuggendo attraverso il mondo. Hanno cambiato talvolta i loro nomi e
le loro identità per camuffarsi. C’è però una giustizia da qualche parte, anche
se ciò non serve a niente a noi, alle vittime.
A Srebrenica è differente. Dalle testimonianze
risulta la prova che il Potere pensava di massacrare i musulmani fino
all’ultimo. Ma alcune vittime sono riuscite a fuggire fino a Tuzla. È per
questo che io do ragione ai miei antenati che hanno detto: ”Nessuno può sterminare un popolo”. Vi è
sempre qualche sopravvissuto (Ntabapfira
gushira).
Almeno in Rwanda abbiamo una forza positiva che ha
fermato il genocidio, ma questo non è successo a Srebrenica. Ho appreso che
alcune vittime che sono sopravvissute hanno trascorso sei mesi nella foresta
senza rendersi conto che i massacri erano cessati. Hanno continuato a fuggire
affamate e assetate.
Da noi durante il genocidio, anche se i caschi blu
dell’Onu non hanno fatto niente per arrestare i massacri, non ci hanno fatto
del male prima dell’arrivo della missione
umanitaria francese. A Srebrenica è stato ancora differente. I caschi blu
avrebbero violentato le donne che si erano rifugiate da loro. Per me, è fuggire
la morte verso la morte! I caschi blu avrebbero dato le armi al potere
sterminatore!
Non capisco perché nessuno vuole ricostruire
Srebrenica.
Non capisco perché nessuno fa giustizia nei
confronti di un crimine di genocidio riconosciuto dalla giustizia
internazionale. Dopo un simile crimine le potenze non vogliono che la giustizia
sia fatta, ma quando si verificano gli tsunami tutti si precipitano perché
questi non pongono il problema delle responsabilità umane.
Quale disperazione per le vittime vedere che il
potere, che ha pianificato ed eseguito i massacri dei musulmani di Srebrenica,
è lo stesso che governa ancora e che dovrebbe rendere loro giustizia!
Impensabile, inimmaginabile, disgustoso!
E ogni pretesto è buono per colpire l’Afghanistan,
l’Iraq, presto si colpirà l’Iran e, ancora come al solito, i piccoli pagheranno
per i grandi.
Yolande Mukagasana
sopravvissuta al genocidio in Rwanda