Quando
penso a Srebrenica, mi viene in mente un’estate di circa 25 anni fa. Penso al
tempo che ho trascorso con mio nonno, l’odore dei funghi che raccoglievamo
insieme. Mio nonno li vendeva e mi aveva comprato un ombrello rosso per andarci
a scuola; mi aveva detto che l’estate dopo avremmo lavorato ancora di più e mi
avrebbe comprato una borsa rossa. Ma quell’estate non c’è stata.
Dopo
più di vent’anni, lontano da casa, in una piccola città toscana, il telefono
suonava per me. Mia mamma piangeva. Fa male rispondere al telefono e sentire
piangere la propria mamma. “Dida, ascolta – mi diceva – abbiamo trovato il
nonno”. Ho sentito la fatica nella sua voce mentre mi parlava. “Come?”, mi
chiedevo in stato di shock, senza più parole, con la gola strozzata. “Lo abbiamo
trovato… il suo corpo era in tre diverse fosse comuni” – continuava mia mamma
mentre io sentivo il suo respiro diventare affannoso. “Ma mancano alcune parti.
– faticavo ad ascoltarla – Una gamba, una parte di un braccio…”. La linea è
caduta e non sono riuscita più a sentire mia mamma. Volevo solo sdraiarmi e
chiudere gli occhi, sdraiarmi soltanto… da una finestra aperta entrava un vento
leggero che muoveva una tenda con delle rose disegnate sopra. Sdraiata a occhi
chiusi vedevo un ombrello rosso, aveva delle piccole rose bianche e rosse in
alto, forse era un altro fiore, no, erano proprio rose… ricordati, forza, devi
ricordare… non lo so, non ci riesco. Il viso del nonno, il colore dei suoi
occhi, qual era, non me lo ricordo… mio Dio, non riesco a ricordarmelo.
Ho
pianto per ore, non riuscivo a ricordare se l’ombrello rosso avesse delle rose
o altri fiori disegnati, e quale fosse il colore degli occhi del nonno.
Srebrenica
sarà per sempre un dolore insopportabile.