Diplomazia. È una parola che ho cominciato a conoscere, nel suo vero
significato, nei primi anni '90. Ne ho avuto l'occasione durante la militanza
in Amnesty International, quando parlavo con diplomatici che mi spiegavano cosa
occorreva fare per difendere i diritti umani. Non ci si doveva scontrare
apertamente, mettendo in imbarazzo gli interlocutori. Molto meglio
scambiare le idee in modo informale, nei corridoi dei palazzi delle
organizzazioni internazionali, dove c'era l'occasione di mettere una parola
buona per quel o quell'altro prigioniero per motivi di opinione.
Per ottenere risultati, mi spiegavano con la
pazienza che ci vuole nei confronti di un ragazzino dalle buone intenzioni ma
poco avvezzo alle cose del mondo, bisogna intrattenere buoni rapporti con
tutti. Elencare i politici europei - anche italiani - che con Milosevic hanno
tenuto buoni rapporti, nel corso degli anni, richiederebbe tempo e spazio. Per
ricordare dove ha portato, quella diplomazia, basta un nome: Srebrenica.
Assistere ai massacri come quello avvenuto l'11
luglio 1995 oppure scatenare guerre dalla dubbia efficacia come quella per il
Kosovo di quattro anni dopo. Pare che le diplomazie europee non conoscano vie
di mezzo. Se a vent'anni di distanza dal genocidio di Srebrenica passasse
l'idea che difendere i diritti umani è il modo migliore per prevenire massacri
e che difendere i diritti umani significa impegnarsi con coraggio e serietà
tutti i giorni, e non nei corridoi dei palazzi abitati dai diplomatici, allora
questi decenni non sarebbero passati invano.Daniele Scaglione