Lunedì
10 luglio 1995
I bombardamenti si
intensificano e si avvicinano alla città. Alle 8,55 del mattino il colonnello
Karremans chiede appoggio aereo al quartier generale di Sarajevo per colpire
con attacchi selettivi i tank e l’artiglieria serbo-bosniaci. Alle 11 gli aggressori
cannoneggiano le postazioni olandesi, proprio mentre il generale francese
Bertrand Janvier respinge la richiesta dell’ufficiale olandese. Alle 18,30
Mladić è già a un passo dalla presa dell’enclave e passeggia con una
mitraglietta in mano su una collina che domina il centro della città: aspetta
questo momento da 3 anni. Karremans chiede di nuovo appoggio aereo. La gente è
ormai tutta in strada, in allarme, intorno ai tank dell’Onu bloccati da
migliaia di corpi in preda all’ansia e alle peggiori previsioni. Alle 21,40,
finalmente, Janvier accorda l’appoggio aereo, ma la notte nel frattempo è
calata. I serbo-bosniaci sospendono l’attacco; Janvier, da Sarajevo, fa lo
stesso, rinviando la missione aerea all’indomani mattina, all’alba. A
mezzanotte il colonnello Karremans comunica ai leader della città che
l’indomani, alle 6 del mattino, 50 aerei della Nato avrebbero attaccato le
postazioni serbo-bosniache.
Martedì
11 luglio 1995
Alle 6 la
popolazione si è già riversata nelle strade devastate, in attesa: finalmente qualcuno
ode il rombo degli aerei della Nato. Al rumore dei motori, tuttavia, non fa
seguito il tanto atteso boato delle bombe. Perché? Alle 9 il colonnello
olandese ammette davanti ai capi del villaggio che la sua richiesta d’appoggio
aereo è stata considerata sottoposta in modo errato, non conforme al regolamento.
In volo da ormai più di 4 ore, gli aerei sono in riserva e devono rientrare in
Italia, da dove sono partiti.
Intorno alle 10,30
i cannoneggiamenti serbi ricominciano: cannoni e tank vomitano fuoco sulla
città. Karremans informa il comando, ma alle 11 il generale Janvier ancora
esita a capacitarsi del fatto che i serbo-bosniaci stiano sferrando l’attacco
finale. La gente di Srebrenica è tutta in strada: è in trappola e lo ha capito.
La città sta per cadere e gli uomini sanno che i primi a subirne le conseguenze
saranno loro. In molti decidono di separarsi dalle famiglie che, in fin dei
conti, restano “al sicuro” con gli olandesi
dal casco blu. Circa 15.000, in gran parte uomini (che costituiranno la
cosiddetta “colonna mista”), scelgono di prendere la strada per le montagne,
che passa attraverso i boschi, per arrivare, dopo una roulette russa di una
cinquantina di chilometri di campi minati, dirupi e sterpi, nel territorio
controllato dai croato-musulmani. Almeno 20.000, più probabilmente 25.000, tra
donne, bambini, feriti e malati fuggono invece verso la base olandese di Potočari,
circa 5 chilometri fuori Srebrenica. I sopravvissuti ricordano quella giornata
come un inferno in terra, anche per la temperatura, già a quell’ora vicina ai
35 gradi centigradi.
Alle 12,05 il
generale Janvier autorizza l’intervento aereo. Alle 14,40 – più di due ore e
mezza dopo – due F16 olandesi sparano altrettanti missili sulle postazioni
serbe. Si odono due deflagrazioni, due tank centrati, poi più nulla: così si
esaurisce la risposta della comunità internazionale contro la violazione della
risoluzione 819 del Consiglio di sicurezza dell’Onu. I serbo-bosniaci intensificano
il cannoneggiamento della città e minacciano di uccidere gli ostaggi olandesi
oltre che di sparare sui rifugiati inermi. Dall’esterno, da quel momento in
poi, non sarebbe più arrivato alcun aiuto ai dannati di Srebrenica. Gli
olandesi non reagiscono, non sparano neppure un colpo: in compenso, caricano su
qualche camion bianco con la scritta UN i feriti e le donne con i bambini
piccoli, qualche anziano, e velocizzano l’evacuazione verso il compound di Potočari.
Alle 16,15 il
generale Mladić, comodamente seduto su una jeep, aggiustandosi i capelli entra
a Srebrenica e proclama ufficialmente la conquista della città. Da quel momento
in poi qualsiasi azione di stampo propagandistico sarà ripresa dalla troupe televisiva
che il carnefice serbo-bosniaco porta sempre con sé. Sceso dalla macchina,
Mladić, in divisa, passeggia per la città «liberata», sempre seguito dalle telecamere:
nulla sfugge al suo occhio nazionalista, neppure i cartelli stradali
«musulmani», che fa abbattere dai suoi sottoposti. Nella sua “passeggiata”
Mladić è costantemente in compagnia del generale Radislav Krstić, comandante
della compagnia Drina, che sarà poi condannato a 46 anni di carcere, il 2
agosto 2001, dal Tpi dell’Aja, che in quell’occasione riconobbe quello di
Srebrenica come un «genocidio». Tre anni dopo, il 19 aprile 2004, il tribunale
confermò la qualifica di genocidio per il massacro scientifico e premeditato di
Srebrenica, ma ridusse da 46 a 35 anni la condanna per Krstić, nonostante la
gravità delle accuse a suo carico: aver partecipato direttamente e
personalmente alla carneficina nella ex enclave.
Mladić è in grande
spolvero, al collo tiene un ingombrante binocolo, che ciondola sulla pancia:
urla ordini, si sbraccia, cammina impettito seguito dai suoi subalterni, che
accondiscendono in tutto. Mladić e Krstić, sempre sotto l’occhio vigile delle
telecamere, sono sommersi dagli abbracci degli altri ufficiali, ciascuno dei
quali aspetta il suo turno per poter stringere la mano e dare i canonici tre
baci sulle guance ai due conquistatori di Srebrenica. C’è chi scatta una foto
ricordo. Finalmente, arriva il grande momento per il condottiero Mladić di
esprimersi in prima persona davanti all’occhio di vetro della telecamera. Il
generale fissa con sapienza l’obiettivo, poi espone con fermezza il suo breve discorso,
che con mestiere legge da un foglio che regge in mano. La telecamera inquadra
solo il grosso ovale del viso da fiera, il collo e un accenno delle spalle. Il
viso è arcigno ma disteso, il sorriso con difficoltà rimane sotto le gote
rubiconde; i capelli, brizzolati e tagliati di recente, sono quelli di una star
hollywoodiana. Una stella sanguinaria: «Siamo qui, l’11 luglio 1995, nella
Srebrenica serba […]. Abbiamo dato questa città alla Nazione Serba. Ricordando
la rivolta contro i turchi, è arrivato il momento di prendere la nostra
vendetta contro i Musulmani». Si volta a sinistra e se ne va. La telecamera per
qualche istante continua a inquadrare il vecchio camion bianco fermo in
lontananza, sotto un palazzo sul cui tetto campeggia un’insegna che reca il
nome della città caduta.
Alla base di Potočari
nel frattempo continuano ad arrivare i fuggiaschi: stanchi, assetati, disperati.
Alle 16,30 i caschi blu olandesi decidono di considerare la base piena. Gli
ufficiali mandati da Amsterdam convocano gli interpreti e li istruiscono: devono
dire alle migliaia di persone che ancora stanno affluendo che il compound è
chiuso e sarebbero potute entrare solo madri con bambini piccoli. La gente è
incredula. Rimangono fuori dalla base circa 20.000 persone, che disperatamente
cercano riparo nelle immediate vicinanze: all’interno trovano rifugio solo circa
5.000 sfollati.
Nella “Srebrenica
serba”, nel frattempo, un Mladić raggiante incita i suoi a non fermarsi nella
deserta città ma a continuare fino a Potočari: intorno alle 16,45 i
serbo-bosniaci, armati fino ai denti, ubriachi, si presentano al cancello della
base Onu. Non ci sono solo i soldati di Mladić; con loro camminano fianco a
fianco i criminali prezzolati di Arkan e i serbi ultranazionalisti di Šešelj.
Ancora una volta, sono le telecamere serbe a svolgere un lavoro di
testimonianza per il resto del mondo, facendo diventare denuncia la propaganda:
ecco i volti terrorizzati dei caschi blu olandesi (un uomo e una donna) al
cancello fatto di pali e rete metallica; ecco i “guerrieri” di Mladić,
spavaldi, girare intorno alla base olandese terrorizzando con la loro sola
presenza gli sfollati. Le telecamere serbo-bosniache indugiano, i bambini
piangono, un bimbo musulmano ha lo sguardo perso nel vuoto e tiene stretto in
braccio il piccolo coniglio bianco con cui si è messo in salvo, immobile
compagno di un assedio che nessuno dei due è in grado di capire, motivare. Gli olandesi
se ne stanno fermi, impietriti, con le mani sui fianchi, in piedi al di là
della rete oltre la quale gli zoom delle telecamere serbe spadroneggiano.
Intorno alle 20,30
il generale Mladić convoca per un incontro il colonnello Karremans. I due
uomini parlano in piedi, all’interno di un locale del compound: Mladić è
arrogante, massiccio nella divisa; l’olandese è pallido, smagrito, quasi
nascosto dietro i grandi baffi: è ripreso di fronte, di mezzo busto, con le
mani in grembo, e la luce dei riflettori evidenzia in modo quasi macabro le
profonde fosse che ha sulle guance, gli occhi cerchiati di nero e intrisi di
paura e tensione. «Così, è lei che ha dato l’ordine ai suoi soldati di sparare
contro i miei e alle forze aeree della Nato di bombardare i miei uomini e le
mie posizioni?» chiede uno sprezzante Mladić con le mani sui fianchi.
Karremans,
impietrito, fissa l’interprete musulmano, di spalle alle telecamere serbe, poi
risponde, guardando per terra: «No, non di nuovo. Non sono io a deciderlo. Sto chiedendo qualcosa che è finito. Loro
decidono sulla base di quello che io potrei dire – in base alle informazioni
che vengono dal basso… – a Sarajevo e all’Onu a New York». Karremans parla con
difficoltà, dopo una lunga fase di immobilità ora muove il braccio destro
disegnando orizzonti lontani, guarda persino speranzoso in cielo, non ha mai il
coraggio di fissare negli occhi l’interlocutore. Anzi, quando sta per farlo
balbetta.
Le telecamere sono
impietose. I due uomini parlano ancora; Mladić prende una sigaretta dalle mani
di un collaboratore alla sua sinistra; un altro ufficiale, alla sua destra,
accende un fiammifero e gli porge il fuoco; il generale aspira, poi offre una
sigaretta al colonnello olandese.
«Ho fumato così
tanto ultimamente…», fa Karremans, di nuovo con la mani in grembo.
«Ne prenda una», risponde Mladić; poi, mentre il colonnello olandese si sporge in avanti per soddisfare l’interlocutore: «Non abbia paura, non sarà la sua ultima!». Karremans non risponde.
«Ne prenda una», risponde Mladić; poi, mentre il colonnello olandese si sporge in avanti per soddisfare l’interlocutore: «Non abbia paura, non sarà la sua ultima!». Karremans non risponde.
«Come vede la soluzione
di questa situazione?», fa il generale fumando spavaldamente.
«Se posso dire
qualcosa su questa situazione – risponde Karremans dopo un’esitazione – Forse
non è la stessa cosa… di quello che direbbero a Sarajevo. Loro sono i policy makers. Secondo la mia
opinione… le enclave saranno chiuse… e questo per l’interesse della popolazione…
non per l’interesse della BH (il governo della Federazione di Bosnia Herzegovina,
oggi FBiH). Io assisterò la popolazione più che sarà possibile…
per uscire dall’enclave verso… Non so dove debbano andare…»
Mladić ascolta
fumando, senza parlare, talvolta fissando l’interlocutore e assentendo. Alla
fine, il brindisi: «Qui le nostre uniche lingue ufficiali sono il serbo e
l’inglese» fa il generale a un atterrito colonnello. Le file si rompono, le
braccia si incrociano, i bicchieri tintinnano. Non si può dire che Karremans
sia felice o soddisfatto: la cera del colonnello olandese non è una bella
pubblicità per le forze armate di Amsterdam, per il governo, per la Nato e l’Onu;
l’ufficiale sembra avere soprattutto voglia di togliersi d’impaccio e di
tornare dalla moglie nella fiorita Olanda. Per questo non cerca neanche di
imporre un suo punto di vista su dove gli sfollati dovrebbero essere portati,
così da garantire la loro salvezza: dopo aver lasciato 20.000 esseri umani
fuori dal compound ed avervi invece fatto entrare il loro prossimo carnefice,
si limita a dire: «Non so dove debbano andare», accettando così qualsiasi
decisione sarà presa.
Finalmente
l’incontro volge al termine. L’ultima parola, naturalmente, è di Mladić: «Lunga
vita», sorride fissando Karremans che guarda altrove, spettrale.
La notte,
raccontano i testimoni che la vissero, è fredda – anche a causa dello stress
della giornata e della mancanza di cibo, acqua, vestiti asciutti – e popolata dai
fantasmi dell’imminente tragedia. E di altri arrivi: alcuni alla spicciolata,
altri di gruppi anche consistenti di persone che, solo all’ultimo momento, nei
villaggi più isolati dei dintorni di Srebrenica, hanno saputo della
capitolazione della città e sono dovuti fuggire dalle loro case.
Intorno alle 23,30
di quell’interminabile 11 luglio il colonnello Karremans incontra nuovamente Mladić
in compagnia di un maestro locale, Nesib Mandžić, il viso affranto e una giacca
scura. Ancora una volta, la scena è riempita dal generale serbo-bosniaco, nel
più tragico reality show mai concepito da mente umana. «Ti prego di scrivere. –
attacca il generale, questa volta in scena di profilo, parlando con il
malcapitato maestro – Dovete consegnare le vostre armi e tutti coloro che ne
fanno uso. Io garantisco per le loro vite. Lo hai capito? Nesib, il futuro
della tua gente è nelle tue mani. Non solo in quest’area. Ho finito. Siete
liberi di andare». Karremans finisce di annotare, piega il suo foglietto ed è
pronto ad andare via. Gli ufficiali serbo-bosniaci hanno già obbedito
all’ordine del capo e hanno cominciato ad alzarsi dalle sedie. Il giovane maestro
esita: «Glielo dico onestamente. Io sono qui per caso come rappresentante e non
posso essere responsabile…»
«Questo è un tuo problema.
Voi dovete consegnare le vostre armi e salvare la vostra popolazione dalla
distruzione!», replica Mladić. Nesib non può. Gli olandesi tacciono.
Mercoledì
12 luglio 1995
Alle 9 del mattino,
in una deserta Srebrenica, i generali Mladić e Krstić incontrano una
delegazione di cittadini, convocata dagli stessi gerarchi serbo-bosniaci e
accompagnata a bordo di vetture delle Nazioni Unite dagli ufficiali olandesi.
Della delegazione fanno parte il maestro Nesib e una donna, oltre a Ibro
Nuhanović, che si presenta come «laureato in economia ed ex uomo d’affari. Ora,
a causa della guerra, sono qui a Srebrenica con la mia famiglia».
«Voglio aiutarti –
fa Mladić fumando, mentre Karremans accende gentilmente una sigaretta a Krstić
– ma voglio assoluta cooperazione dalla popolazione civile perché il vostro
esercito è stato sconfitto. La vostra gente non merita di morire, né i vostri coniugi,
fratelli o vicini. A questo punto, decidete voi che cosa fare. Come ho detto
ieri notte, potete sopravvivere o scomparire. Consegnate le armi. Allah non può
aiutarvi, Mladić sì». Da allora di Nuhanovic non si ha più notizia.
Intorno alle 10
Mladić con i suoi ufficiali entra nel compound di Potočari. Ecco il generale
carezzare il capo di un bambino musulmano biondo, ecco i suoi soldati
distribuire qualcosa da mangiare e da bere ad altri bambini: pane, caramelle,
cioccolato... Tutto, sempre e soprattutto, davanti alle telecamere.
«Non vi
preoccupate: giovani o vecchi avrete tutti un trasporto. Non abbiate paura,
bambini e donne per primi - fa Mladić, inquadrato mentre arringa di speranza
una folla disperata – Stanno arrivando 30 autobus per portarvi a Kladanj. Di lì
andrete in territorio musulmano».
Mladić è di parola:
arrivano non 30 ma, secondo le prove raccolte dal Tribunale dell’Aja,
addirittura 50, forse 60 autobus. Ci sono anche dei grossi camion per il
trasporto merci. La gente esce dal compound, donne e bimbi in testa, per
prendere al volo questa speranza per la vita. Ma c’è una strana sorpresa: prima
di poter salire sugli autobus, i serbi separano dalle donne, dai vecchi e dai
bambini tutta la popolazione maschile d’età compresa tra 12 e 77 anni. Gli
uomini, in colonna, vengono spinti verso edifici nei quali i serbo-bosniaci
avrebbero provveduto a identificare, tra di loro, i «criminali di guerra
musulmani», come Mladić spiega a Karremans. Gli altri, gli «innocenti»,
sarebbero stati lasciati andar via.
«Ho potuto vedere
soldati serbi portare con sé dietro delle case uomini musulmani. (…) Li hanno
messi con la faccia al muro e poi gli hanno sparato in testa da dietro le
spalle» ha raccontato Paul Groenewegen, soldato del battaglione di caschi blu
olandesi, durante il lungo debriefing
che i soldati di Amsterdam dovettero fare in Croazia una volta evacuati da
Srebrenica. In molti fecero quella fine.
Nelle 30 ore
successive al momento in cui le telecamere di Mladić si spengono, sarebbero
stati deportati circa 23.000 donne e bambini: il via vai di autobus e camion è
impressionante. Gli olandesi, rimasti a piedi, accettano tutte le richieste dei
serbi e arrivano persino a pagare per avere del carburante, lo stesso che,
probabilmente, i serbo-bosniaci hanno rubato negli ultimi mesi dai convogli
delle Nazioni Unite con i rifornimenti che non sono mai arrivati a Srebrenica,
a causa del blocco ordinato dallo stato maggiore di Pale. Durante quelle 30
ore, gli olandesi possono notare che a bordo degli autobus non vi sono uomini,
solo donne e bambini piccoli. Lo annotano nelle loro teste, ma nessuno, ancora
una volta, fa nulla. Gli aguzzini possono agire indisturbati. Così, già nei
dintorni di Potočari può compiersi una parte del genocidio degli abitanti di
Srebrenica. Nello stesso momento, mentre centinaia di uomini, bambini e anziani
vengono assassinati dai serbo-bosniaci sul posto, e mentre in migliaia sono deportati
altrove per essere uccisi, e mentre donne e bimbi piccoli vanno incontro a un
destino ignoto, nei boschi e tra le montagne si compie un’altra parte
importante del lavoro sporco: l’artiglieria e i cecchini serbi, entrati in
azione già alle prime luci dell’alba contro i circa 15.000 che avevano lasciato
Srebrenica, cercando di raggiungere a piedi un territorio meno ostile,
martellano senza sosta i fuggiaschi affamati e stanchi. In centinaia vengono
subito uccisi, in migliaia riescono però a disperdersi nei boschi, partecipando
come prede a una caccia disumana tra le verdi montagne e i campi minati di
questa selvaggia parte della Bosnia.
Giovedì
13 luglio 1995
La mattanza continua.
I vertici bosniaci piazzano coppie di uomini ogni 3 o 4 metri lungo le strade;
i militari di Mladić cercano di far uscire dai boschi i musulmani, per non
dover faticare più di tanto ad ammazzarli; in fin dei conti, fa un gran caldo: «Coraggio
ragazzi! Venite fuori con le mani in alto», gridano dal ciglio della strada. Ai
serbo-bosniaci non manca nulla dell’equipaggiamento di un perfetto peacekeeper
dell’Onu, neanche i caschi blu calati sulla testa, esibiti per trarre in
inganno le vittime.
Alle 10 del
mattino, nelle vicinanze della città, 400 uomini vengono chiusi in un magazzino;
molti di loro sono percossi a morte. A
mezzogiorno gli olandesi cominciano a dare seguito alla richiesta dei
serbo-bosniaci di espellere tutti i 5.000 rifugiati dalla base di Potočari. La
procedura è la stessa: gli uomini vengono separati dalle donne. Ma per i pochi
uomini che possono salire sugli autobus l’agonia non è finita: gli sfollati non
sono sottoposti a controllo e separati da donne e bambini solo a Potočari; la
strada, infatti, è disseminata di posti di blocco; chiunque può essere
marchiato e fatto scendere – uomo o donna – strada facendo: la vita di ciascuno
degli abitanti di Srebrenica è legata agli istinti primordiali di assassini
disseminati nell’ex enclave fino al territorio della Federazione di Bosnia
Herzegovina.
Ancora nel corso
della mattinata e del pomeriggio centinaia di persone in fuga nei boschi sulle
montagne sono catturate: i fuggitivi sono esausti e i serbo-bosniaci bombardano
incessantemente i boschi, come testimoniano le riprese serbe. Nel villaggio di
Kravica i prigionieri sono rinchiusi in un magazzino. I serbi sparano e gettano
granate attraverso le finestre: ancora oggi sono ben visibili i buchi –
centinaia - provocati nei muri dalle pallottole dei mitra. Altri, poco più di
una ventina, sono rinchiusi in una scuola, picchiati a sangue, poi caricati su
un camion. Sul limitare di un bosco, vengono ammazzati uno per uno. Kadir Habibović,
uno di loro, riesce a salvarsi miracolosamente, dandosi alla fuga. Dopo due
settimane, il 27 luglio, riesce a raggiungere il territorio musulmano e
racconta la sua storia.
Venerdì
14 luglio 1995
La base olandese di
Potočari è vuota. I caschi blu svolgono le loro incombenze quotidiane, come se
nulla fosse accaduto. Incredibilmente, questo accade proprio nella giornata in
cui il genocidio di Srebrenica diventa un massacro organizzato, che porta nelle
72 ore successive allo sterminio scientifico di migliaia di uomini. Bratunac,
città serbo-bosniaca a una decina di chilometri da Srebrenica, diventa il
centro della carneficina, messa in opera su un’area di una ventina di
chilometri. Da Bratunac i prigionieri sono trasportati nei luoghi scelti per le
esecuzioni di massa. Scuole, dighe, magazzini, grandi spiazzi all’aperto,
fabbriche: ogni posto è utile per attuare
il massacro. Le esecuzioni vanno avanti per ore e ore; i corpi vengono gettati
in gigantesche fosse comuni. Tra Grbavci e Petkovci in questa sola giornata e
nel giorno successivo vengono uccisi più di 1.000 uomini.
Domenica
16 luglio 1995
In questa giornata
si svolge l’ultima parte delle esecuzioni. Una fila di autobus e camion porta
ininterrottamente le vittime sul luogo del massacro: il “lavoro” è così tanto
che le esecuzioni si protraggono dalle 10 del mattino alle 13: chi aspetta il suo
turno è costretto ad assistere all’uccisione dei suoi compagni di sventura dai
finestrini degli autobus. In molti casi, le vittime vengono ancora una volta assassinate
all’interno di edifici, sparando nel mucchio e lanciando granate dalle
finestre. Tra il 12 e il 16 luglio 1995, i serbo-bosniaci hanno ucciso almeno
7.414 esseri umani, colpevoli di essere musulmani. Secondo i familiari delle
vittime, i morti sono stati, invece, 10.701.
Venerdì 21 luglio,
dopo 5 giorni di fuga attraverso le montagne, i primi profughi di Srebrenica
cominciano a giungere nella Federazione di Bosnia Herzegovina. Tuttavia, in
territorio serbo-bosniaco le uccisioni di chi non è riuscito a far perdere le sue
tracce sarebbero proseguite per settimane. Sempre il 21, in seguito a lunghi
negoziati tra Onu e serbo-bosniaci, i caschi blu olandesi ottengono il permesso
di lasciare Srebrenica. Per ottenere il via libera, però, il 17 luglio il maggiore
Franken, il vice di Karremans, aveva dovuto firmare nelle mani dei
serbo-bosniaci una dichiarazione nella quale riconosceva che «l’evacuazione»
dei musulmani da Potočari era avvenuta «nel rispetto della legge umanitaria
internazionale», sebbene Franken alla fine ebbe il buon senso di aggiungere una
postilla nella quale affermava che quanto asserito riguardava «convogli fino al
momento scortati dalle forze dell’Onu». Con gli olandesi possono partire anche
gli operatori di Medici senza frontiere.
Il commiato è
quanto di più amabile possa essere immaginato. Fuori dal compound di Potočari,
Karremans e Mladić si incontrano per l’ultima volta. Il colonnello olandese ha
il viso rilassato; il genocida serbo-bosniaco un grande sorriso dipinto sul
viso: «Faccia buon viaggio»; «Grazie». Poi un grande regalo per la signora
Karremans, accuratamente avvolto in carta gialla con decorazioni rosse, viene
sistemato davanti alle telecamere nelle mani del colonnello, che sorride,
ringrazia e riceve qualcosa anche per sé, una bella bottiglia impacchettata con
carta a fondo bianco e decorazioni viola. I due si ringraziano, ammiccano;
Mladić si volta per un istante e guarda la telecamera: anche questa è fatta. La
stima di Karremans per il generale serbo sembra reale: alcuni giorni dopo,
durante il debriefing con le autorità dell’Unprofor e persino di fronte alla
stampa internazionale, in Croazia, definirà la presa di Srebrenica «un’operazione
militare eccellentemente pianificata», senza mai fare menzione delle atrocità
commesse, delle quali non poteva non aver avuto per lo meno sospetto.
D’altronde, il colonnello olandese aveva trovato nell’Onu, ed esattamente nel
Rappresentante speciale delle Nazioni Unite per la Bosnia, una perfetta sponda:
finché poté, Yasushi Akashi smentì sempre che in Bosnia fossero state compiute
atrocità, evitando puntualmente, finché gli fu possibile, di inviare
informazioni in proposito al Palazzo di Vetro, salvo poi ricevere un telegramma
di richiesta di chiarimenti da Kofi Annan, successore di Boutros Ghali. È il
momento del brindisi: i due ufficiali fanno incontrare i rispettivi bicchieri, bevono,
e finalmente giunge l’ora della festa. Ubriachi di birra, i caschi blu olandesi
ingollano quanto più possono, cantano, ballano, accompagnati dalla banda. Sono
felici per il ritorno a casa, per la fine della “prigionia” nell’enclave, per
essersi sbarazzati della compagnia di quelle decine di migliaia di musulmani «puzzolenti»,
come loro stessi li avevano descritti in graffiti di pessimo gusto nei locali
del compound di Potočari. Difficile dire se sappiano o meno, o se almeno
abbiano il sospetto – o una consapevolezza di sospetto - di che cosa sia
successo. Di che cosa abbiano contribuito a fare.
Gli olandesi sono
appena arrivati in Croazia che, il 24 luglio, il giorno prima della caduta
dell’enclave di Žepa e della formale incriminazione da parte del Tpi di
Karadžić e Mladić, l’ex primo ministro polacco Tadeusz Mazowiecki, rapporteur
speciale dell’Unione europea, conclude una prima investigazione a Srebrenica,
rendendo noto al mondo che almeno 7.000 dei circa 40.000 abitanti dell’ex enclave
risultano scomparsi. Da quel giorno comincia il gioco di specchi delle bugie e
delle negazioni, infranto forse, solo nove anni dopo, dietro il ricatto di
sanzioni internazionali, dalla prima mezza ammissione sul genocidio dei vertici
della Republika Srpska, con il terzo rapporto della “Commissione
di indagine sugli eventi accaduti a Srebrenica e nei dintorni tra il 10 e il 19
luglio del 1995”. Nel frattempo, chi ha voluto ha avuto tutto il tempo
di far scomparire le prove del caso, e di eclissarsi. Lasciandosi alle spalle migliaia
di cadaveri senza nome oltre alle ceneri delle Nazioni Unite e di ogni
principio di giustizia.
Da Luca Leone, SREBRENICA. LA GIUSTIZIA NEGATA Infinito edizioni, IV
edizione.