lunedì 20 ottobre 2008

La tolleranza della Sarajevo assediata



Intervista ad Alda Radaelli, autrice di Sabur. Racconti d’amore e di massacro

di Luca Leone

“In una città che ha perso 10.000 abitanti fatti a brandelli dalle granate, in cui ogni uomo ha vissuto un’esperienza di trincea tra le peggiori, che dovrebbe averlo reso duro e insensibile, per quel poliziotto sparare un colpo di pistola a un cane randagio morente è come sparare a sangue freddo a una persona che ti chiede aiuto… Quel cane non appartiene a nessuno ma nessuno si sente di abbandonarlo. Questo è il mistero di Sarajevo”. E un’ottima ragione per leggere Sabur. Racconti d’amore e di massacro (Infinito edizioni, 2008, pagg. 140, € 12,00), il bel libro di Alda Radaelli – autrice anche del testo citato – che si giova della prefazione della scrittrice Maria Pace Ottieri e della postfazione del foto reporter di guerra Mario Boccia, la cui visione della guerra e dell’assedio è diversa da quella esposta dalla Radaelli, e la cui testimonianza è stata accolta tra le pagine di “Sabur” proprio per dimostrare che è la civiltà dello scambio di opinioni a dover prevalere, anche e soprattutto tra coloro che vedono nelle cose sfumature diverse.

“Sabur” è un libro di guerra e di dolore ma anche d’amore e di civiltà, dalla prima all’ultima riga. L’autrice, che ha vissuto gli oltre 1.400 giorni del sanguinoso assedio (costato la vita a oltre 10.000 persone), si trovava sul posto per svolgere la sua missione di giornalista, esattamente come Boccia. Da quel giorno, la sua vita – la loro vita – non è stata più la stessa.

Alda Radaelli racconta in questa breve intervista la sua esperienza nella Sarajevo di allora e in quella di oggi, a partire dalla prima, inevitabile domanda.

Cominciamo dal titolo del libro: Sabur. Come spiegheresti ai lettori il significato di questa parola bosniaca, ma quasi arabo-spagnola nella fonetica, e che cosa rappresenta per te “Sabur”?

R - Partiamo da una premessa. Per me le radici dell’Europa sono tre e non due: quella ebraica, quella musulmana e quella cristiana. Ho appreso dalla cultura musulmana una parola che usano a Sarajevo, ma che proviene dall’impero ottomano, e che usano anche gli arabi (o forse l’hanno inventata loro ancora prima?). La propongo come invito a tutti noi. Ne trascrivo il significato dalla prima pagina del libro: “Sabur significa per il musulmano tolleranza, pazienza, autodisciplina. Sabur l’ha aiutato a sopravvivere a due genocidi di uguale matrice nell’arco di 50 anni Sabur non gli permette di covare vendetta. Ma non chiedete al musulmano di Bosnia di dimenticare.
Il primo genocidio è avvenuto durante la seconda guerra mondiale ed è descritto dallo storico Vladimir Dedjer nel libro Genocid nad muslimanima.

Hai vissuto un’esperienza tragica come l’assedio e il bombardamento di Sarajevo, il più lungo che la storia bellica europea moderna e contemporanea abbia mai conosciuto. Ti sei sottoposta a questo assedio volontariamente, per volontà di testimoniare. Come descriveresti la tua esperienza a Sarajevo durante la guerra?
R - È una esperienza ragionata, senza nessun eroismo. Sapevo esattamente quello che rischiavo. All’inizio, pensavo che era importante testimoniare direttamente. In un secondo tempo ho capito che tutti a livello internazionale sapevano tutto e che la divisione della Bosnia era stata pianificata a tavolino per cancellare, là e altrove, ogni esempio di pacifica convivenza tra culture diverse. Ma a quel punto avevo assorbito dalla popolazione valori irrinunciabili non solo per sopravvivere, ma per vivere. E non c’era più ragione di andare via perché stavo bene lì. È quello che chiamo ancora oggi lo spirito di Sarajevo.

Lo rifaresti?
R - Certo. Mi ha cambiato la vita. Mi ha dato un sereno rapporto con il mondo che prima non conoscevo.

Oggi, quando torni a Sarajevo, con quali occhi la osservi e quale rapporto hai con le persone che hai conosciuto durante l’assedio?
R - Mi onoro di essere una delle poche persone che è stata accettata, perché a Sarajevo, come dice Mario Boccia nella postfazione, non è facile entrare. In una Bosnia ridotta a un quarto del suo territorio, che vive sotto la minaccia di scomparire dalla carta geografica, vivo meglio che in una Italia in cui mi riconosco sempre meno.

Molti sarajevesi e almeno il 50% dei bosniaci quotidianamente devono sostenere una dura lotta per mangiare e sopravvivere. Perché il dopoguerra bosniaco è stato ed è così lungo? Di chi è la colpa?

R - Di chi rifiuta di prendersela. D’altronde lo stesso avviene nel resto del mondo, dove il 4% della popolazione sfrutta a proprio beneficio tutte le ricchezze del pianeta, provocando livelli di sofferenza e disperazione indicibili.

Che cosa pensi di coloro che negano l’aggressione alla Bosnia Erzegovina e parlano di guerra fratricida, come se la guerra e il genocidio bosniaci non fossero stati qualcosa di programmato a tavolino?
R - Penso che non ce ne libereremo mai. Rispondo estendendo il concetto del grande filosofo Yeshayahou Leibowitz, recentemente scomparso, il quale dice che la shoah è un problema di chi l’ha voluta, non di chi l’ha subita.

E di fronte all’arroganza di un criminale di guerra come Radovan Karadzic, che cosa provi?
R - Nulla, fa il suo mestiere di criminale per cui è stato scelto per scatenare l’aggressione alla Bosnia. Il problema riguarda chi sta dalla sua parte. Ma questo vale non solo per la grande maggioranza dei serbi di Serbia e di Bosnia, ma per la grande maggioranza degli italiani, che, approvando o disapprovando Berlusconi, lo considerano comunque un esempio di successo, e quindi sotto sotto pensano più o meno coscientemente: “Perché no, se è vincente?”. Anche Karadzic è vincente, perché è stato chiaro dal primo giorno che il processo all’Aja non si farà mai.

La Bosnia tornerà mai più il “paradiso” multiculturale e di tolleranza che era una volta?
R - Non era un paradiso, ma era un esempio positivo da cui partire per consolidare le basi di una buona visione della vita, come c’era nell’antica Spagna per 700 anni, in Sicilia fino ai Normanni, come c’era in Libano prima degli anni Ottanta, come c’era in Iraq prima di Saddam. Come c’è nella Palestina del musicista Daniel Barenboim, del poeta Mahmud Darwish, di cui piangiamo la recente dolorosissima perdita di Mustapha Barghuti, di Edo Murtic, pittore e scultore di grande intensità. Egli ci ha lasciato prima di morire una serie di opere dedicate a Sarajevo ed esposte dentro lo scheletro imponente della biblioteca distrutta, che vive proprio perché masse di giovani di tutto il mondo la vengono a visitare, com’è successo quest’estate durante il Film Festival. Non chiediamoci se tutto ciò sia ancora recuperabile. Non è mai morto. E tante persone lo testimoniano in tutto il mondo. Sta a noi rapportarci a loro. Per me Sarajevo è tuttora questo.