L'intero articolo di Silvana Mazzocchi, con la sua introduzione (o "cappello") all'intervista può essere letto a questo indirizzo: http://www.repubblica.it/rubriche/passaparola/2013/12/11/news/fare_editoria-73337787/

Grazie e buona lettura! E a presto sulle pagine del mio blog e su facebook.
1) Essere un piccolo editore, secondo il suo libro,
sembra quasi impossibile... Che cosa serve per tentare comunque?
Quasi impossibile, forse no; ma molto difficile, senza
dubbio. Le faccio un esempio per provare a spiegarmi meglio. Poche settimane
fa, in occasione di una tradizionale fiera del libro della piccola editoria,
gli organizzatori invitarono un editore francese come ospite. Si svolse un
incontro pubblico nel corso del quale il collega d’oltralpe ci spiegò che la
crisi sta colpendo l’editoria anche in Francia. E portò due esempi, per lui
lampanti della crisi. Disse che lo Stato francese sta tagliando sussidi
all’editoria e che i distributori stanno aumentano le richieste di sconto sui
libri che devono distribuire, superando talvolta anche il 40 per cento.
Noi
colleghi italiani restammo basiti. In Italia, quando va bene, lo sconto che
l’editore deve riconoscere al distributore oscilla tra il 55 e il 65 per cento
e l’editoria libraria, almeno quella piccola, non beneficia di nulla, a livello
pubblico. Avevamo solo una agevolazione, ovvero le tariffe postali agevolate
per la spedizione dei libri tramite le Poste Italiane, che un decreto firmato
Claudio Scajola e Giulio Tremonti ha cancellato nel giro di 24 ore il 30 marzo
del 2010. Un altro esempio: come fa un piccolo editore a crescere e a
migliorarsi se non ha margini per investire in sviluppo e innovazione dovendo
pagare (dati del 2013 per l’anno 2012) oltre il 65 per cento di tasse, tra
tassazione diretta e indiretta? Un ultimo esempio? Perché se un cittadino
italiano acquista un libro negli Stati
Uniti o in Germania può pagare delle spese di spedizione irrisorie mentre se un
cittadino straniero, fosse anche svizzero, acquista un libro in Italia, rischia
di dover pagare 10-12 euro di spese di spedizione? Esportare cultura – in un
Paese che dovrebbe vivere di cultura, come l’Italia – per un editore italiano è
impossibile. Ancora: in Italia ci sono, attive, circa duemila case editrici, ma
non esiste uno studio di settore ad hoc per loro, il che vuol dire che con
difficoltà una casa editrice riesce a essere congrua per il fisco, dovendo però
applicare studi di settore pensati per le tipografie. E potremmo andare avanti.
In sostanza, in Italia fare impresa editoriale è un
percorso a ostacoli insopportabile che comincia nello studio del notaio
all’atto della costituzione della società editoriale e non finisce più. A
questo si aggiunga che in Italia i dati di vendita generali sono imbarazzanti
rispetto ad altri Paesi europei, il che può voler dire diverse cose, oltre al
fatto, evidente, che oramai la crisi ha trasformato il libro in un bene
voluttuario. Ora bisognerebbe capire quante e quali sono le responsabilità, in
negativo, anche di editori e autori rispetto a questa disaffezione. Una cosa
però è chiarissima: fare editoria oggi vuol dire vivere costantemente in bilico
sull’orlo del baratro, ovvero del fallimento. E i tanti fallimenti di editori,
librai e distributori degli ultimi mesi – nel totale disinteresse del governo e
della politica (e spesso anche degli autori e dei lettori) – lo sta purtroppo
ampiamente a dimostrare.
2) Dalla parte degli autori, che cosa fare per poter
pubblicare al meglio?
Con grande chiarezza, bisognerebbe che fosse
finalmente chiaro che non tutti possono improvvisarsi scrittori. In Italia ci
sono troppi scrittori improvvisati e troppi pochi lettori. Il primo consiglio
allora può essere di leggere, di farlo di più e di provare a farlo non
superficialmente. Una volta realmente pronto, l’autore non deve avere fretta di
pubblicare, deve scegliere con attenzione l’editore a cui rivolgersi e farlo
senza inviare a pioggia la sua proposta editoriale. L’editore va contattato
dopo aver studiato il suo catalogo; gli va inviata una sinossi valida; gli
vanno illustrati adeguatamente i punti forti del testo; va testato il suo reale
interesse per la pubblicazione senza intestardimenti.
Però il discorso non può essere visto solo dal lato
dell’autore. Di questi tempi, con la crisi che c’è, gli editori spesso non
possono permettersi di investire su autori che magari meriterebbero. Questo
perché le risorse sono limitate, il numero dei lettori cala e i dati della
distribuzione sono vieppiù avvilenti. Per questo avere un po’ di pazienza nel
raggiungimento dell’accordo e della pubblicazione potrebbe aiutare sia
l’editore a fare il suo lavoro sia l’autore a realizzare il suo sogno. In
sostanza: è giunto il momento che due figure chiave della filiera editoriale,
ovvero editore e autore, comincino a remare finalmente nella stessa direzione,
in attesa che anche gli altri attori di questo mondo complicato comincino a
fare la stessa cosa. A cominciare dalle librerie e dalla distribuzione, che in
questa drammatica crisi dell’editoria italiana sono tutt’altro che scevre da
responsabilità.
3) Dalla parte dei lettori, come orientarsi nella
giungla dei titoli in libreria? Visibilità, marchio, eccetera non sono certo
sempre indici di garanzia...
Ha perfettamente
ragione. Anzi, non ho paura di affermare che spesso ciò che sta più in vista in
vetrina o sul bancone della libreria è quanto di peggio si possa trovare in
circolazione. Il marketing editoriale, come quello abbinato alla politica,
spesso usa tanti soldi non per promuovere un “prodotto” valido, ma solo per
promuovere il prodotto che è in grado di investire quei soldi. E questa è una
grossa responsabilità degli editori, in particolare dei grandi editori, che
oramai trattano il libro come qualsiasi altra merce. La domanda però è: il
libro è una merce? O, se vogliamo, è solo o innanzitutto una merce? Io credo
sinceramente di no. Ma i grandi editori che cosa credono, invece?
Se mi metto dalla
parte dei lettori – e in effetti ogni editore è innanzitutto un grande lettore
– oggi c’è in effetti di che perdere fiducia, quando si entra in libreria. Un
tempo era quasi naturale entrare in libreria e cercare un “buon romanzo”. E il
buon romanzo quasi sempre si trovava. E se risultava difficile, entrava in
scena la figura del libraio, quello vero, che sapeva consigliare e far
innamorare perché era innamorato: di un libro, di un autore, di una professione
che era quasi una missione. Oggi entrare in libreria vuol dire addentrarsi in
una selva oscura fatta di oltre trentamila romanzi nuovi l’anno – alcuni
pubblicati dopo editing sommari – e se non si trova il libro giusto, ci si
imbatte in commessi che devono applicare logiche da supermercato in termini di
metri quadrati da coprire e di secondi da dedicare a ogni lettore, che è ormai
solo ed esclusivamente cliente.
Da lettore, questo
mi fa sentire male. Da editore, che vorrebbe potersi di nuovo imbattere in
tanti librai che vedano la loro come una missione, questo mi fa essere molto
pessimista per il futuro. Se non riusciamo, tutti insieme, a fare marcia
indietro, non solo non usciremo mai da questa crisi ma avremo perso anche la
grande occasione che ogni crisi porta con sé: quella di determinare rottura,
innovazione, cambiamento. La crisi ormai insiste sul settore da anni. Ma,
onestamente, di innovazioni, rotture, cambiamenti, non se ne sono visti. Fin
qui, abbiamo visto solo fallimenti…