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anni fa aveva inizio la guerra in Bosnia Erzegovina con l’assedio di Sarajevo,
che con i suoi 1445 giorni è stato l’assedio più lungo della storia del
ventesimo secolo e, a Višegrad, con l’inizio dei bombardamenti ai danni delle
case dei musulmani-bosniaci.
Ripercorriamo
brevemente quei giorni grazie alle parole del giornalista e
scrittore Luca Leone nel reportage sul campo dal titolo Višegrad. L’odio, la morte, l’oblio
Ragioni economiche, storiche e
strategiche portano, il 6 aprile 1992, unità serbe locali appartenenti alla
Jna, ovvero la Jugoslovenska narodna armija, ad aprire il fuoco contro
la città di Višegrad oltre che contro molti villaggi circostanti.
Il referendum del 1° marzo 1992
aveva sancito quasi all’unanimità – con l’esclusione della quasi totalità dei
cittadini serbo-bosniaci, che si erano astenuti dalle urne, come chiesto dal
loro leader Radovan Karadžić – la volontà della Bosnia Erzegovina di
seguire l’esempio sloveno e croato e di proclamare l’indipendenza della
Repubblica dalla Jugoslavia. La reazione serbo-bosniaca è quasi immediata e si
concretizza in un diffuso intervento armato contro la Bosnia Erzegovina, sia a
Sarajevo che in molte città di confine. Tra queste, Višegrad.
Una breve
digressione. Il 6 aprile 1992 è il giorno in cui viene fatto formalmente
cominciare il conflitto in Bosnia Erzegovina. È il giorno in cui i cecchini, a
Sarajevo, assassinano Suada Dilberović e Olga Sučić. Qualche libro riporta la
data del 5 aprile per raccontare lo scoppio del conflitto. In realtà non è
così. Come non è vero, o non del tutto, che è quello il giorno in cui comincia
l’aggressione contro la municipalità di Višegrad. Si tratta, in verità, di date
simboliche, perché l’essere umano ha bisogno di catalogare tutto, e per farlo
necessita di un inizio e di una fine – trasferendo così negli archivi che forse
giungeranno ai posteri la sua, la nostra, biologica finitezza e fragilità.
I primi segnali
dell’inizio del conflitto in Bosnia Erzegovina risalgono alla fine del 1991. La
prima vittima sacrificale fu la cittadina bosniaco-erzegovese di Ravno, ad
ampia maggioranza croato-bosniaca, attaccata dalle forze serbo-bosniache.
L’allora presidente bosniaco Alija Izetbegović, il presunto padre della Bosnia
Erzegovina, bollò quel primo episodio di pulizia etnica come un “fatto” tra
serbi e croati e tranquillizzò i suoi concittadini – come follemente avrebbe
fatto altre volte, in seguito, anche di fronte all’evidenza dell’inizio
dell’assedio a Sarajevo – asserendo che la Bosnia in quel conflitto sarebbe
rimasta neutrale. Chissà se l’intellettuale musulmano-bosniaco amico della
Libia e dell’Arabia Saudita (e degli Stati Uniti) lo pensava davvero. Le prime
richieste d’aiuto arrivano a Sarajevo, però, dai villaggi e dalle cittadine
lungo la Drina, in particolare da Bijeljina (che è ben più di una cittadina,
con i suoi quasi 115.000 abitanti) e da Zvornik. Parliamo del 4-5 aprile.
Anche
a Višegrad tutto comincia prima del 6 aprile, in particolare minacce,
delazioni e le prime violenze. Il 6 aprile rappresenta, però, lo spartiacque
tra il prima e il dopo, tra ciò che era e mai più sarà. È, infatti, la giornata
in cui cadono le prime vittime ufficiali a Sarajevo – per quanto qualcuno
sostenga che il primo morto sia stato un uomo serbo fatto oggetto di colpi
d’arma da fuoco durante un matrimonio – e in cui l’esercito che fu jugoslavo,
la Jna, toglie le sicure e fa partire le prime bordate di artiglieria pesante
su Višegrad. La gente scappa.
I
colpi di cannone sono destinati alle case della maggioranza musulmano-bosniaca.
Contestualmente, al confine tra Serbia e Bosnia Erzegovina vanno ammassandosi
i soldati della Jna del Corpo di Ušice. La maggior parte dei musulmani-bosniaci
cerca di sfuggire ai bombardamenti lasciando come può la città e i villaggi
circostanti. Un gruppo di musulmani-bosniaci reagisce all’aggressione militare
delle unità della Jna prendendo in ostaggio alcuni serbo-bosniaci e occupando
la centrale idroelettrica e la diga. Minaccia di far saltare in aria l’enorme
muro di cemento armato che ferma la corsa di milioni di litri d’acqua dolce. Le
conseguenze sarebbero gravissime perché una massa d’acqua incontrollabile e
dalla spaventosa forza bruta si riverserebbe su tutta quella regione della
Bosnia e dilagherebbe poi in Serbia, spazzando via tutto, con perdite
economiche e di vite umane enormi. A capo della banda di cittadini musulmani di
Višegrad c’è Murat Šabanović. I media sono attratti dalla notizia come
orsi dal miele. Comincia una drammatica contrattazione in diretta televisiva,
mentre sia Višegrad sia le cittadine e i villaggi nei dintorni si vanno svuotando
ulteriormente per paura che l’impossibile – la deflagrazione della diga – possa
d’incanto rivelarsi possibile. L’iniziativa di Šabanović e dei suoi ha
l’effetto di fermare le cannonate e di congelare lungo il confine la presenza
del Corpo di Ušice. Per quasi una settimana la regione vive come sospesa in una
situazione di stallo, finché il 12 aprile Šabanović e i suoi cedono, rivelando
il bluff. Le forze armate jugoslave riprendono il controllo della diga e
della centrale idroelettrica; il Corpo di Ušice, il giorno dopo, 13 aprile, un
lunedì, entra in Bosnia e lancia l’attacco contro una Višegrad ormai largamente
spopolata. Vi sono scontri a fuoco tra i militari jugoslavi arrivati dalla
Serbia e sacche di resistenza musulmana in città, ma le perdite di vite umane
sono minime e ben presto il Corpo di Ušice prende il controllo dell’intero
territorio, sistemando in tutti i punti strategici carri armati e artiglieria
pesante con i quali tenere in scacco la città e i villaggi intorno. Vengono
effettuati arresti. Alcuni musulmani-bosniaci vengono maltrattati, altri
picchiati, la maggior parte interrogati e poi rilasciati. Attraverso la radio e
la televisione, esercitando pressioni su alcuni personaggi stimati dai
bosniaci-musulmani di Višegrad, la Jna convince la maggior parte dei musulmani
che avevano in precedenza lasciato la città a farvi ritorno. In gioco ci sono
le proprie case, i beni, i ricordi. E, ancor di più, i posti di lavoro: la
minaccia è che coloro i quali non si presenteranno in ufficio o in fabbrica
saranno licenziati. Dopo dieci duri anni di crisi economica, questo è un
pericolo per molti insostenibile. Nessuno pensa, in quel momento, che in ballo
possa esserci ben di più. La vita. Alla fine di aprile, così, la maggior parte
dei bosniaci-musulmani ha vinto ogni residua resistenza ed è tornata in città.
Si parla di circa 13.000 persone rientrate in quei giorni.