venerdì 29 agosto 2008

Processo Karadzic, seconda ridicola udienza

L’imputato non si dichiara né colpevole né innocente…


Il tribunale delle Nazioni Unite per l'ex Jugoslavia ha accolto oggi pomeriggio una dichiarazione di non colpevolezza a nome dell’ex leader serbo-bosniaco Radovan Karadzic, accusato di undici capi d’accusa, tra cui crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio, dopo il rifiuto da parte dell'imputato di dichiararsi colpevole o innocente. La notizia è riportata dall’agenzia Reuters.

Alla seconda udienza preliminare in vista del processo per crimini commessi durante la guerra in Bosnia del 1992-1995, Karadzic si è rifiutato di esprimersi in merito a ciascuno degli 11 capi di imputazione contro a suo carico. "Non mi dichiarerò in linea con la mia posizione nei confronti di questa corte", ha detto Karadzic in merito alla prima accusa, quella di genocidio, riferendosi alla sua sfida alla legittimità del tribunale. Iain Bonomy, il presidente della corte, gli ha chiesto se questa posizione si riferisse a tutti i capi d'accusa, ottenendo come risposta da Karadzic un fermo e risoluto: "Assolutamente sì". La corte ha quindi dedotto che l’intenzione di Karadzic è di dichiararsi non colpevole.

I capi di imputazione attribuiti a Karadzic, 63 anni, comprendono due capi d'accusa per genocidio, uno per l'assedio di Sarajevo, durato 43 mesi, e uno per il massacro di 8.000 bosniaci musulmani a Srebrenica. Il processo dovrebbe iniziare l'anno prossimo dopo le procedure preliminari, e se l'accusa decidesse di emendare gli 11 capi di imputazione potrebbero esserci altre fasi di udienza preliminare che rimanderebbero ulteriormente l'inizio del processo.

Esperti legali hanno rintracciato un parallelismo fra il comportamento di Karadzic e quello dell'ex presidente jugoslavo Slobodan Milosevic, dopo che quest'ultimo fu portato all'Aja nel 2001 per difendersi contro le accuse di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio.

“È evidente che Karadzic cercherà di rimandare l'inizio del processo e di utilizzare il tribunale come tribuna e megafono per rendere pubblico il suo punto di vista sul conflitto”, ha pronosticato Andre de Hoogh, professore di legge all'università di Groningen. Allo stesso tempo, i giudici delle Nazioni Unite cercheranno di velocizzare le operazioni per evitare che accada quello che è accaduto nel processo a Milosevic, durato quattro anni, con 300 testimoni, per poi concludersi con la morte dell'imputato nel 2006, a processo ancora aperto.

Personalmente credo che il Tribunale dell’Aja rischi di trasformarsi in uno squallido ‘Bagaglino’, se si continuerà di questo passo. L’obiettivo di Karadzic è arrivare senza sentenza al 2010, allorché il Tribunale dovrà chiudere i battenti. E allora si affiderà alle cure dei suoi amici russi in sede di Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

È giusto e sacrosanto essere garantisti, ma qui si sfiora davvero il ridicolo. Karadzic è uno dei peggiori criminali che abbia calcato il proscenio europeo dai tempi di Adolf Hitler e andrebbe messo un limite alla sua evidente e inevitabile tattica attendista e ostruzionistica. Il limite è quello della decenza, che comprende il rispetto verso le vittime di quest’uomo che ha preso disgustosamente in giro il mondo e verso i parenti delle sue vittime. Spero solo che non si arrivi al 2010 con la chiusura del Tpi e lo spostamento del processo in Bosnia, magari della Repubblica serba di Bosnia, dove gli ultranazionalisti già avranno preparato i fuochi d’artificio per la festa di santificazione del boia di Srebrenica, magari programmando qualche sacrificio umano di musulmani, tanto per non perdere l’abitudine.

Karadzic è un appassionato di calcio e sa che può fare goal solo in contropiede. Sinceramente, credo che la pratica-Karadzic potrebbe essere chiusa in sei mesi, senza fare del Tpi la mediocre e molle platea teatrale su cui far esibire questo mediocre attore, emulo del suo amico e alleato Milosevic, e al contempo far cadere ulteriore ridicolo su una giustizia internazionale inconsistente e passiva. Karadzic merita non uno ma 8.000 ergastoli, quanti sono stati gli innocenti che ha fatto ammazzare a Srebrenica dal suo compare Ratko Mladic e dal grande capo Milosevic, il grande orchestratore del genocidio balcanico. Speriamo che invece che con un sacrosanto ergastolo il processo non finisca con una scrittura a Broadway per qualche spettacolo da tutto esaurito… “Signore e signori, questa sera a grande richiesta Radovan Karadzic in How I did it. Come feci a massacrare un popolo, distruggere un Paese e a farla franca grazie a russi e americani…”.

Ancor più ridicola, se vogliamo, la questione del salvacondotto riconosciuto 13 anni fa dagli statunitensi a Karadzic, forse dal “grande” negoziatore Richard Hoolbrook in persona, purché il capo banda ultranazionalista si ritirasse dalla politica bosniaca. Probabile che l’accordo segreto esista. Mai mettere un fine al peggio. D’altronde, a differenza che per Mladic – onorato e stipendiato forse ancora oggi dall’esercito serbo – in Bosnia si è sempre parlato di un patto del genere a favore del furbo psichiatra-poeta Radovan, e non sempre la voce del popolo racconta leggende metropolitane. Katardic non è un coccodrillo bianco che gira nelle fogne di Pale, nonostante la somiglianza… Il punto però, se permettete, è un altro.

Il furbo Radovan può far leva quanto vuole su questo presunto accordo. Ma, sinceramente, lungi dal considerare valida e ineluttabile qualsiasi cosa firmino, dicano o facciano gli statunitensi (è ora che tutti la facciano finita di fare carta straccia del diritto, dell’etica e del buon senso), più che lasciare che Karadzic continui a invocare la validità di questo presunto salvacondotto, forse tutti dovremmo chiedere a gran voce che i responsabili politici di una simile (eventuale) porcheria vengano processati a fianco di Karadzic, e condannati per oltraggio a centinaia di migliaia di persone che hanno sofferto le pene d’inferno a causa del signor karadzic e degli imbecilli par suo, serbi, musulmani o cattolici che fossero. Perché gli imbecilli non hanno mai una sola nazionalità, o una sola religione, come bene la guerra di Bosnia ci ha insegnato… (o almeno ha fatto a chi ha voluto stare a guardare, ascoltare, imparare…).

lunedì 25 agosto 2008

Intervista sull'Iran

Luca Leone intervista Antonello Sacchetti, autore de I ragazzi di Teheran

(l'articolo è stato pubblicato sul numero di luglio del mensile "Popoli e missione")

“In Iran nulla è come appare”, ha detto qualche tempo fa una giornalista. Un concetto interessante, se vogliamo decisivo per comprendere un popolo, in un momento storico in cui quello con capitale Teheran viene considerato dal gendarme globale statunitense uno degli “Stati canaglia” e in cui l’immagine del Paese sui media occidentali è come minimo claustrofobica. “Popoli e missione” ne ha parlato con lo scrittore Antonello Sacchetti, eccellente conoscitore dell’Iran. Società e giovani ma anche libertà di culto e pluralismo religioso sono gli argomenti che abbiamo toccato, con esiti sorprendenti.

Sacchetti è sbarcato a Roma proveniente da Teheran da tre giorni quando nega risolutamente che quella trasmessa dai giornali italiani sia la vera immagine dell’Iran. “Claustrofobica? – fa perplesso – Sinceramente, tutto direi tranne questo della società iraniana. C’è, senza dubbio, grande insofferenza ai controlli e alle limitazioni imposte dal governo alla libertà personale. Ma la società iraniana è tradizionalmente votata all’apertura, alla curiosità verso le altre culture. Dai primi Anni ‘90 la tv satellitare e Internet hanno aperto finestre preziose e irrinunciabili sul resto del mondo. I blog iraniani sono tra i più interessanti di tutto il Web”.

Ciò nonostante – viene da pensare leggendo quanto i grandi media occidentali scrivono sull’Iran – la censura esiste e colpisce chiunque non sia allineato con le direttive del Capo dello Stato (che non è il presidente Mahmud Ahmadinejad ma la Guida della rivoluzione o faqih – dal 4 giugno 1989 Ali Hoseini Khamenei – designata dall’Assemblea degli esperti, gli ayatollah, eletta a suffragio universale diretto ogni 8 anni) e dal Consiglio dei guardiani della Costituzione, l’onnipotente organo composto da 12 membri che controlla la conformità delle leggi con l’Islam, ne verifica la costituzionalità e ammette i candidati alle elezioni. Secondo Sacchetti, però, è così solo in parte: “Non dobbiamo pensare all’Iran come a un Paese avvolto nelle tenebre – spiega – La censura funziona in modo intermittente e a volte non centra il bersaglio. Basta farsi un giro nelle librerie di Teheran per rendersi conto della vastità di titoli che il pubblico iraniano ha a disposizione. Capita che la censura arrivi a ordinare il blocco di un film che è nelle sale ormai da mesi o di un libro già venduto in migliaia di copie. La repressione politica è schizofrenica: in alcuni momenti il dibattito politico è accesissimo e si arriva persino a mettere in discussione il principio di base della Repubblica islamica, il velayat e-faqih, “governo del giureconsulto”, la teoria elaborata da Khomeini. Ricordiamo tutti le immagini degli studenti che contestano a viso aperto Ahmadinejad all’università di Teheran. Poi magari la repressione arriva in modo subdolo quando i riflettori si sono spenti, a distanza di mesi o di anni, con arresti, minacce, violenze. Nonostante questo, l’Iran e i suoi giovani continuano a stupire per il loro desiderio di vivere, di non arrendersi alla situazione vigente”. Un esempio – molto comune, purtroppo, a livello mondiale – di un popolo che soffre la distanza culturale di chi lo governa e l’incapacità, da parte di coloro che detengono le redini del potere, d’intercettare e soddisfare le esigenze più comuni, a cominciare dalla libertà.

Come vivono questa condizione coloro che, per definizione e per pulsioni proprie dell’età, più anelano all’emancipazione, ovvero i giovani (che costituiscono il 70% dei 69 milioni di iraniani!) e, in una società che le discrimina, le donne? “In Iran, per necessità ma anche per tradizione, esiste una netta distinzione tra vita pubblica e vita privata – spiega il nostro intervistato – Nelle case dei ceti medio-alti, comportamenti e abitudini sono assai simili a quelli dei giovani europei. Nel bene e nel male. Esiste una naturale ricerca del divertimento ma è oggi diffusissimo il ricorso alle droghe. È una vera piaga: su una popolazione di 70 milioni di abitanti, ci sono almeno 200.000 eroinomani. E il peggio sta accadendo ora con l’arrivo del crack. È una situazione spaventosa, i genitori dei ragazzi adolescenti sono terrorizzati. La condizione delle donne, nonostante un sistema giuridico che le discrimina, è assai complessa. Oggi sono donne il 65% degli studenti universitari e le ragazze sono la maggioranza anche tra i laureati. Certo, la carriera è comunque più difficile. Ma ci sono donne in quasi tutti gli ambiti lavorativi. Nelle campagne la situazione cambia. Il tessuto sociale è nettamente più arretrato e la condizione della donna è più difficile. Va precisato che l’accesso all’istruzione è una delle innegabili conquiste della Repubblica islamica. Soltanto dopo il 1979 in Iran è avvenuta la scolarizzazione di massa di uomini e donne. Il dato comune a tutti è la grande difficoltà a trovare lavoro, a costruire un futuro. Da anni si registra una disoccupazione intellettuale di massa. E l’inflazione è cresciuta a livelli incredibili. Una situazione molto brutta, insomma, resa peggiore dalle continue tensioni con la comunità internazionale. Chi può, va all’estero. L’emigrazione iraniana è un’emigrazione intellettuale e di alto livello. Partono i laureati, chi può contare su un’iniziale base economica e su contatti all’estero. Negli Stati Uniti, la comunità iraniana è la più colta, quella col grado medio di istruzione più elevato”.

Difficile pensare che, in un Paese definito semplicisticamente musulmano – in alcuni casi persino, erroneamente, “arabo” – dal un stampa occidentale poco informata, possa essere riconosciuta la libertà di culto. Invece talvolta si scopre che l’“altro” non è poi così chiuso e duro – o addirittura malvagio – come certi poteri forti vorrebbero far credere. “La libertà di culto è garantita dalla Costituzione, che riconosce come minoranze religiose gli zoroastriani, gli ebrei e i cristiani, i quali costituiscono circa il 2% della popolazione iraniana – chiarisce Sacchetti – Queste comunità hanno anche un loro rappresentante nel Majles, il Parlamento iraniano. Per assurdo, la comunità non riconosciuta è quella musulmana sunnita. È severamente proibito il proselitismo, ma la libertà di culto è reale. L’unica minoranza non tollerata è quella dei baha’i. La costituzione iraniana li considera un gruppo politico, non religioso, e per questo la repressione è stata anche molto dura”. Difficile definire i baha’i, presenti tra l’altro con una comunità anche in Italia. La cosiddetta “fede Baha’i” è – a detta dei suoi aderenti – una religione monoteista, in verità piuttosto giovane poiché nata a metà del XIX secolo. I baha’i, come sono chiamati gli aderenti alla fede in questione (circa 7 milioni nel mondo), si rifanno ai precetti del sedicente mistico persiano Baha’u’llah (1817-1892) e hanno come simbolo una stella a nove punte.

Un altro dato è interessante: “In Iran l’89% della popolazione è musulmano sciita; i sunniti sono il 9%, i cristiani sono circa 200.000, gli ebrei 30.000 e i zoroastriani 50.000. Una cosa va sottolineata, a dispetto delle tensioni con Israele: in Iran vive la più grande comunità ebraica del Medio Oriente (dopo Israele, ovviamente) e la seconda in Paesi musulmani, dopo l’Uzbekistan. È una presenza antichissima, che risale ai tempi di Ciro il grande. La grandezza della cultura iraniana è data proprio da questo insieme di religioni e di storie diverse. In Iran la religione (non solo l’Islam) è un elemento centrale e la Persia è una terra centrale nella storia delle religioni. Basti pensare al contributo della predicazione di Zarathustra nello sviluppo delle tre grandi religioni monoteiste”.

Tra i cristiani, esiste anche una piccola ma convinta minoranza cattolica. “Si tratta di poco più di 13.000 persone – precisa lo scrittore, che sta lavorando a un nuovo libro il cui cuore parlerà proprio delle religioni iraniane e la cui uscita è prevista per il prossimo autunno – Nella sola Teheran ci sono almeno 4 chiese con rito cattolico. La maggior parte dei cristiani iraniani, tuttavia, sono di rito armeno ortodosso. Ho incontrato nella capitale sacerdoti locali, ma anche e soprattutto italiani. Ci sono diversi progetti culturali religiosi in corso tra Italia, Vaticano e Iran. A Esfahan, ad esempio, grazie alla collaborazione tra il Vaticano, l’associazione culturale Anastasis e il ministero dei Beni culturali iraniano, si sta realizzando il restauro di una splendida chiesa armena”.

Una società così intrisa di elementi religiosi, tuttavia, sta vivendo in questi ultimi anni una grave crisi di rigetto. È, questa, secondo Sacchetti, una delle conseguenze dell’islamizzazione della società. “Questo però non vuol dire che i non praticanti non siano credenti. Piuttosto, cercano una religiosità più intima. È forte il richiamo del sufismo e del misticismo. In generale, direi che esiste un legame storico tra sciismo iraniano e cattolicesimo romano. Un legame fatto anche di riti molto simili. La passione di Cristo e quella di Hossein, la nostra via Crucis e la loro Ashura. In genere, direi che esistono una grande attenzione e un forte rispetto per il cristianesimo e per il cattolicesimo in particolare”.

L’Iran è, dunque, a parte i suoi governanti e il loro pericoloso e dannoso radicalismo politico, un Paese di grande cultura e profondità, un luogo che non merita la nomea negativa e le tetre immagini con cui è normalmente descritto. “L’Iran è un paese sorprendente per chi è disposto a vederlo senza pregiudizi. Il sistema politico e l’attuale governo sono “radicali”, ma la società non lo è affatto. Per gli iraniani la rivoluzione – che, per quanto paradossale possa sembrare, ha avuto una sua funzione nella crescita e nella modernizzazione del Paese – è finita. L’errore gravissimo dei media occidentali è giudicare il Paese in base ai suoi governanti e al suo attuale presidente. Ma l’Iran è una realtà molto più complessa e infinitamente più bella. Se lo visiterete, tornerete liberi da molti pregiudizi”.

martedì 22 luglio 2008

Arrestato Karadzic, una riflessione



Radovan Karadzic lavorava come medico – come omeopata – in un ambulatorio privato alla periferia di Belgrado. Occhiali da vista, barba bianca lunghissima, grandi baffi, l’artefice e ideologo della pulizia etnica in Bosnia Erzegovina, irriconoscibile esteticamente, curava esseri umani sotto (presunte) mentite spoglie. Lui che durante la guerra in Bosnia (1992-1995) di esseri umani ne ha ammazzati tra i 100.000 e i 256.000, a seconda delle fonti, dei tam tam “suonati” dai nazionalisti eccetera. Impossibile credere che i servizi segreti non sapessero, e con loro i politici a un certo livello.

Radovan il medico, Radovan lo psicologo della squadra di calcio di Sarajevo, Radovan il politico. Radovan il poeta, che solo nel 2005 mandava alle stampe un libro di poesie in Serbia, in spregio e sfregio di tutto e tutti, lui ricercato per crimini di guerra, crimini contro l’umanità, genocidio…

La Bosnia, quella non ultra-nazionalista serba, da ieri è in strada a festeggiare. Bandiere, birra, canti. Hanno arrestato il boia, il piccolo Hitler/Stalin dei Balcani. Ora manca all’appello il suo socio e braccio armato, Ratko Mladic, colui che teneva i rapporti più stretti col “dittatore democratico” di Belgrado, Slobodan Milosevic, e con i paramilitari torturatori, stupratori e assassini mandati dalla Serbia di Slobo a fare il lavoro sporco sia in Bosnia sia in Croazia. Colui che più volte ha trattato con l’altro sostenitore del disastro bosniaco, l’ex presidente croato Franjo Tudjman, dividendo l’agnello bosniaco in due parti: “Da qui a lì la Grande Serbia; da qui invece la Grande Croazia…”. Chissà se i segreti che conserva dentro di sé Mladic sono più importanti e scottanti di quelli di Karadzic… Soprattutto per la “salute” di chi, in Occidente, con la guerra in Bosnia Erzegovina ci si è arricchito. Perché l’impressione, dall’esterno e dopo 13 anni di latitanza indisturbata, è che l’arresto di Karadzic non sia stato causale ma sia interpretabile come merce di scambio per qualcos’altro di più importante.

Guarda caso, ecco subito chi vuole far entrare prima possibile (Franco Frattini, ministro degli Esteri italiano, ad esempio) la Serbia nell’Unione europea. E Mladic? E Goran Hadzic, l’ex presidente della Repubblica serba auto-proclamata di Krajina, con 14 capi d’imputazione a carico, tra i quali la deportazione di migliaia di croati e altri non-serbi durante la guerra di Croazia e l’uccisione nell'ospedale di Vukovar di 250 esseri umani? Signor ministro, perché tutta questa fretta? Ne ha Washington, e il vassallo europeo ne sostiene ancora una volta chinando il capo il progetto? Come nel caso del Kosovo?

L’arresto di Karadzic, undici giorni dopo la celebrazione dell’anniversario del genocidio di Srebrenica (10.000 persone uccise in cinque giorni, l’ultimo “capolavoro” della premiata ditta Ratko-Radovan), è stato dunque accolto da giubilo e festa. In strada sono scesi in tanti, inclusi i cretini. Forse gli stessi che erano a Srebrenica, l’11 luglio 2008, sventolando bandiere arabe. È il nazionalismo ottuso che non conosce distinzione tra stupidità di una parte e dell’altra. Il nazionalismo musulmano, questa volta, che per restituire favori di guerra ai Paesi arabi gioca – sulla pelle della stragrande maggioranza laica dei bosniaci – a trasformare la Bosnia in una piccola Arabia Saudita, favorendo così lo sdoganamento di luoghi comuni che distruggono l’immagine del Paese e le sue prospettive europee e per forza di cose europeiste. Non ne possiamo più delle bandiere arabe e delle tre dita serbe alzate. Non se ne può più, al contempo, degli interventi vaticani e “cattolici” nella vita del Paese. È troppo chiedere che la Bosnia Erzegovina possa governare da sola il proprio presente per costruirsi un destino non da colonia ma da vero Stato indipendente e sovrano? Forse sì…

Karadzic, arrestato venerdì sera, è dunque in galera. Tre giorni per prendere accordi diplomatici, costruire dichiarazioni e comunicati a effetto, e finalmente la notizia è stata data in pasto anche a noi, e soprattutto a coloro che invocano giustizia da quasi tre lustri.

Ora sono tante le domande cui nessuno di noi può dare risposta.

Quando il genocida dei Balcani sarà estradato all’Aja?

Quando potrà cominciare, finalmente, il processo e quanto durerà?

Chi avrà l’arroganza di difenderlo?

A quale pena sarà condannato?

Esiste una condanna sufficiente per punire un uomo come lui, incarnazione del male in terra?

Quale rete televisiva avrà l’esclusiva a pagamento per intervistarlo?

Sopravviverà fino alla fine del processo o farà la fine toccata in sorte al socio Milosevic?

E soprattutto: la giustizia internazionale sarà potenziata per pervenire finalmente anche all’arresto del vero numero uno della lista, ovvero Mladic? Oppure dovremo accontentarci di Karadzic e, con questo mezzo tributo, la Serbia – una volta che Washington avrà definitivamente messo piede e missili nel Paese – potrà cancellare le brutture del passato recente ed entrare a pieno titolo in questa Unione europea inutile e svuotata di ogni principio che non sia economico?

Manco a dirlo, nessuno di noi ha risposte a queste domande. Troppo grandi per chi vive alle prese con i super-euro, la super-benzina, i super-problemi di ogni giorno.

Tutto quello che sappiamo è che oggi per molti è un giorno di festa, nella speranza che finalmente il vento della ragione spazzi via le bandiere di parte. Il tempo ci dirà qual è stato lo scambio che ha portato Karadzic in gabbia.

Senz’altro, al di là di tutto, in gioco c’è la Serbia tutta. Il presidente Boris Tadic sa che l’unico modo per tenere la Serbia ancorata a Occidente ed evitare la deriva nazionalista e filo-russa – in questo scorcio d’inizio secolo in cui stiamo assistendo a una rapida escalation di una nuova guerra più o meno fredda tra Russia e Stati Uniti – è chiudere i conti col passato e voltare pagina. Da qui anche la decisione, una volta vinte pure le recenti elezioni parlamentari, di sostituire il capo dei servizi segreti e mettere in sua vece un giovane di 36 anni, Sascia Vukadinovic, nonostante nella loro maggioranza Tadic e il primo ministro Mirko Cvetkovic abbiano dovuto imbarcare i resti impresentabili dell’ex partito socialista di Milosevic, che solo in parte si è ripulito rispetto al passato.

Per ogni cosa ci sono dei prezzi da pagare. Finalmente Karadzic sta per saldare il suo conto. Al di là della condanna che, presumibilmente, lo vedrà finire i suoi giorni in carcere (si spera non a cinque stelle), la punizione più giusta sarebbe poterlo mettere davanti alle immagini, agli odori sgradevoli, alle grida, alla disperazione di ciò che ha prodotto in Bosnia Erzegovina. Ma è difficile che un uomo così riconosca i suoi fantasmi e quel che Stanlei Kubrik ha partorito in “Arancia meccanica” non è – per fortuna – realizzabile nell’altrettanto cruda realtà. Chi ha convissuto, fuggendo, per 13 anni con le sue colpe e si è avvalso della “facoltà di non rispondere” appena arrestato, non conosce fantasmi. E allora, alla fine, tutto quel che rimane è la speranza che possa vivere a lungo e farlo nel chiuso di una cella, in attesa che il dio in nome di cui, senza averne mandato né ragione, ha fatto massacrare un popolo gli renda la punizione – quella, sì, giusta ed eterna – che spetta ai malfattori come lui.

Arrestato Karadzic, una riflessione

Radovan Karadzic lavorava come medico – come omeopata – in un ambulatorio privato alla periferia di Belgrado. Occhiali da vista, barba bianca lunghissima, grandi baffi, l’artefice e ideologo della pulizia etnica in Bosnia Erzegovina, irriconoscibile esteticamente, curava esseri umani sotto (presunte) mentite spoglie. Lui che durante la guerra in Bosnia (1992-1995) di esseri umani ne ha ammazzati tra i 100.000 e i 256.000, a seconda delle fonti, dei tam tam “suonati” dai nazionalisti eccetera. Impossibile credere che i servizi segreti non sapessero, e con loro i politici a un certo livello.

Radovan il medico, Radovan lo psicologo della squadra di calcio di Sarajevo, Radovan il politico. Radovan il poeta, che solo nel 2005 mandava alle stampe un libro di poesie in Serbia, in spregio e sfregio di tutto e tutti, lui ricercato per crimini di guerra, crimini contro l’umanità, genocidio…

La Bosnia, quella non ultra-nazionalista serba, da ieri è in strada a festeggiare. Bandiere, birra, canti. Hanno arrestato il boia, il piccolo Hitler/Stalin dei Balcani. Ora manca all’appello il suo socio e braccio armato, Ratko Mladic, colui che teneva i rapporti più stretti col “dittatore democratico” di Belgrado, Slobodan Milosevic, e con i paramilitari torturatori, stupratori e assassini mandati dalla Serbia di Slobo a fare il lavoro sporco sia in Bosnia sia in Croazia. Colui che più volte ha trattato con l’altro sostenitore del disastro bosniaco, l’ex presidente croato Franjo Tudjman, dividendo l’agnello bosniaco in due parti: “Da qui a lì la Grande Serbia; da qui invece la Grande Croazia…”. Chissà se i segreti che conserva dentro di sé Mladic sono più importanti e scottanti di quelli di Karadzic… Soprattutto per la “salute” di chi, in Occidente, con la guerra in Bosnia Erzegovina ci si è arricchito. Perché l’impressione, dall’esterno e dopo 13 anni di latitanza indisturbata, è che l’arresto di Karadzic non sia stato causale ma sia interpretabile come merce di scambio per qualcos’altro di più importante.

Guarda caso, ecco subito chi vuole far entrare prima possibile (Franco Frattini, ministro degli Esteri italiano, ad esempio) la Serbia nell’Unione europea. E Mladic? E Goran Hadzic, l’ex presidente della Repubblica serba auto-proclamata di Krajina, con 14 capi d’imputazione a carico, tra i quali la deportazione di migliaia di croati e altri non-serbi durante la guerra di Croazia e l’uccisione nell'ospedale di Vukovar di 250 esseri umani? Signor ministro, perché tutta questa fretta? Ne ha Washington, e il vassallo europeo ne sostiene ancora una volta chinando il capo il progetto? Come nel caso del Kosovo?

L’arresto di Karadzic, undici giorni dopo la celebrazione dell’anniversario del genocidio di Srebrenica (10.000 persone uccise in cinque giorni, l’ultimo “capolavoro” della premiata ditta Ratko-Radovan), è stato dunque accolto da giubilo e festa. In strada sono scesi in tanti, inclusi i cretini. Forse gli stessi che erano a Srebrenica, l’11 luglio 2008, sventolando bandiere arabe. È il nazionalismo ottuso che non conosce distinzione tra stupidità di una parte e dell’altra. Il nazionalismo musulmano, questa volta, che per restituire favori di guerra ai Paesi arabi gioca – sulla pelle della stragrande maggioranza laica dei bosniaci – a trasformare la Bosnia in una piccola Arabia Saudita, favorendo così lo sdoganamento di luoghi comuni che distruggono l’immagine del Paese e le sue prospettive europee e per forza di cose europeiste. Non ne possiamo più delle bandiere arabe e delle tre dita serbe alzate. Non se ne può più, al contempo, degli interventi vaticani e “cattolici” nella vita del Paese. È troppo chiedere che la Bosnia Erzegovina possa governare da sola il proprio presente per costruirsi un destino non da colonia ma da vero Stato indipendente e sovrano? Forse sì…

Karadzic, arrestato venerdì sera, è dunque in galera. Tre giorni per prendere accordi diplomatici, costruire dichiarazioni e comunicati a effetto, e finalmente la notizia è stata data in pasto anche a noi, e soprattutto a coloro che invocano giustizia da quasi tre lustri.

Ora sono tante le domande cui nessuno di noi può dare risposta.

Quando il genocida dei Balcani sarà estradato all’Aja?

Quando potrà cominciare, finalmente, il processo e quanto durerà?

Chi avrà l’arroganza di difenderlo?

A quale pena sarà condannato?

Esiste una condanna sufficiente per punire un uomo come lui, incarnazione del male in terra?

Quale rete televisiva avrà l’esclusiva a pagamento per intervistarlo?

Sopravviverà fino alla fine del processo o farà la fine toccata in sorte al socio Milosevic?

E soprattutto: la giustizia internazionale sarà potenziata per pervenire finalmente anche all’arresto del vero numero uno della lista, ovvero Mladic? Oppure dovremo accontentarci di Karadzic e, con questo mezzo tributo, la Serbia – una volta che Washington avrà definitivamente messo piede e missili nel Paese – potrà cancellare le brutture del passato recente ed entrare a pieno titolo in questa Unione europea inutile e svuotata di ogni principio che non sia economico?

Manco a dirlo, nessuno di noi ha risposte a queste domande. Troppo grandi per chi vive alle prese con i super-euro, la super-benzina, i super-problemi di ogni giorno.

Tutto quello che sappiamo è che oggi per molti è un giorno di festa, nella speranza che finalmente il vento della ragione spazzi via le bandiere di parte. Il tempo ci dirà qual è stato lo scambio che ha portato Karadzic in gabbia.

Senz’altro, al di là di tutto, in gioco c’è la Serbia tutta. Il presidente Boris Tadic sa che l’unico modo per tenere la Serbia ancorata a Occidente ed evitare la deriva nazionalista e filo-russa – in questo scorcio d’inizio secolo in cui stiamo assistendo a una rapida escalation di una nuova guerra più o meno fredda tra Russia e Stati Uniti – è chiudere i conti col passato e voltare pagina. Da qui anche la decisione, una volta vinte pure le recenti elezioni parlamentari, di sostituire il capo dei servizi segreti e mettere in sua vece un giovane di 36 anni, Sascia Vukadinovic, nonostante nella loro maggioranza Tadic e il primo ministro Mirko Cvetkovic abbiano dovuto imbarcare i resti impresentabili dell’ex partito socialista di Milosevic, che solo in parte si è ripulito rispetto al passato.

Per ogni cosa ci sono dei prezzi da pagare. Finalmente Karadzic sta per saldare il suo conto. Al di là della condanna che, presumibilmente, lo vedrà finire i suoi giorni in carcere (si spera non a cinque stelle), la punizione più giusta sarebbe poterlo mettere davanti alle immagini, agli odori sgradevoli, alle grida, alla disperazione di ciò che ha prodotto in Bosnia Erzegovina. Ma è difficile che un uomo così riconosca i suoi fantasmi e quel che Stanlei Kubrik ha partorito in “Arancia meccanica” non è – per fortuna – realizzabile nell’altrettanto cruda realtà. Chi ha convissuto, fuggendo, per 13 anni con le sue colpe e si è avvalso della “facoltà di non rispondere” appena arrestato, non conosce fantasmi. E allora, alla fine, tutto quel che rimane è la speranza che possa vivere a lungo e farlo nel chiuso di una cella, in attesa che il dio in nome di cui, senza averne mandato né ragione, ha fatto massacrare un popolo gli renda la punizione – quella, sì, giusta ed eterna – che spetta ai malfattori come lui.

mercoledì 16 luglio 2008

A proposito di guerra, pace, cicogne nere e istriani lontani...

Franco Juri è un uomo speciale, esattamente come il suo primo libro, “Ritorno a Las Hurdes. Guerre, amori, cicogne nere e istriani lontani”, appena pubblicato dai tipi di Infinito edizioni (giugno 2008, pagg. 176, euro 13,00, distribuzione Cda). Nato a Capodistria (Koper) in Slovenia/Jugoslavia nel 1956 da padre italiano e madre croata, giornalista e vignettista satirico, negli Anni ‘80 e ‘90 si è occupato di diritti umani ed è stato deputato nel primo Parlamento democraticamente eletto di Lubiana. Dopo l'indipendenza della Slovenia, nei governi di Janez Drnovšek, ha rivestito importanti incarichi nella diplomazia del suo Paese: ambasciatore in Spagna e a Cuba e segretario di Stato agli Affari esteri. Poi ha deciso di abbandonare la diplomazia e di mettersi a lavorare come giornalista indipendente. E di scrivere un libro.

Ritorno a Las Hurdes”, che Juri (i cui parenti italiani hanno mantenuto il cognome Iuri, trasformato invece dal regime titino jugoslavo, destino toccato – per legge – a non pochi italiani rimasti, dopo la seconda guerra mondiale, dall’“altra parte”), quasi timidamente, si ostina a volte a definire “un romanzo”, è invece molto di più: è, semplicemente, un viaggio lungo trent’anni nella storia e nei ricordi di un Paese che non c’è più, la Jugoslavia, fino all’attuale Slovenia (uno dei sette Stati nati dallo sfaldamento della creazione di Tito), con rimandi e flashback nella Spagna di ieri e di oggi, alle Canarie, in Cile e fino in Canada. Un libro cosmopolita e colto, in definitiva, esattamente come l’autore.

Abbiamo brevemente parlato di “Ritorno a Las Hurdes” con il suo autore, che ha presentato in anteprima il libro a Roma lo scorso 21 giugno e che si appresta a portarlo in librerie, teatri e pizza, tra l’Italia e la sua Istria.

DOMANDA: Fanco Juri, chi definisce il tuo libro un romanzo – come a volte fa, ad esempio, il tuo amico Marino Vocci – ti fa in definitiva un torto. Seppur romanzata, la tua è una cavalcata lungo trent'anni di storia jugoslava ed europea, con puntate anche in America. Come definire allora, esattamente, il tuo libro?

JURI: Devo ammettere che nel mio libro qualche concessione al romanzo, o meglio alla narrativa c' è, anche se quanto induce a definirlo tale, cioè un romanzo, si rivela in verità solo una sorta di escamotage per raccontare una fetta di storia e di vita, indubbiamente vita mia, vita nostra, ma anche quella di un'intera generazione. Il libro è senz' altro un ibrido, dove ciò che risalta è comunque il saggio. Un intreccio di racconti e riflessioni ispirati a vicende, personaggi e problemi reali. I capitoli possono essere letti singolarmente o seguendo il filo, il percorso, l'itinerario suggerito da Cesco, il protagonista.

D: Come è stato accolto il tuo libro in Slovenia, a pochi mesi dalle elezioni?

J: È curioso che un libro pubblicato a Roma, in italiano, abbia avuto un immediato riscontro e – finora - più recensioni in Slovenia, sui quotidiani nazionali più importanti, scritti comunque da chi l' italiano lo conosce perfettamente e ha potuto leggere il libro. Forse è dovuto al nome dell' autore, probabilmente più conosciuto in Slovenia che in Italia. Molti si chiedono perché mai non abbia scritto questo lavoro in sloveno. Ebbene, anche se sono bilingue e lavoro più con lo sloveno che con l'italiano, ho scelto la mia lingua materna, anzi “paterna" per affrontare la mia prima sfida letteraria. Ma penso che tra poco si tradurrà anche in sloveno.

D: Oltre che scrittore, grande vignettista e giornalista, sei un diplomatico e un ex parlamentare sloveno. Ti ricandiderai alle elezioni, e perché?

J: Sì, ho accolto l' invito del partito d'opposizione Zares (che tradotto letteralmente significa...Davvero), un gruppo nato dalla scissione della democrazia liberale, schierato al centro-sinistra e particolarmente sensibile a tanti temi che fanno l'attualità come, ad esempio, l'ambiente, i cambiamenti climatici, il welfare, la libertà dei media, i diritti umani, lo sviluppo sostenibile... Molti di questi temi appaiono con forza nel mio libro; ad esempio la crisi alimentare, l’assurda piega presa da una storia e da un'attualità in balia delle chimere del neoliberalismo e del consumismo. Da nove anni sono free-lance, ma ho anche un passato sia politico che diplomatico. Con le vignette diverto, con gli articoli induco alla riflessione, ma l' impegno politico è un modo per non lasciare la politica in mano solo ai pasdaran del capitale speculativo, ai clown e ai demagoghi. Insomma, ho deciso di ributtarmi nell'arena, ma senza grosse speranze di arrivare in Parlamento, visto il numero limitato di seggi che Zares – un partito prevalentemente intellettuale e di profilo urbano – potrà ottenere. Comunque mi sento in dovere di dare loro una mano.

D: Come vive oggi la minoranza italiana nel pezzetto di Istria slovena e nella Slovenia tutta e quali sono state le eventuali conquiste nel passaggio dalla Jugoslavia alla Slovenia?

J: Ne scrivo anche in “Ritorno a Las Hurdes”. È una minoranza quasi inesistente, strutturata per lo più attorno alle istituzioni in mano a quelli che definisco "italiani di professione" o "yuppies dell' identità nazionale". Questi lavorano per garantire quanto la Costituzione riconosce alla minoranza e per ottenere da Lubiana e Roma i mezzi finanziari necessari a far andare avanti le istituzioni. Ma una vera e propria società civile italiana, in Slovenia, non esiste più. L' esodo del dopoguerra ha chiuso definitivamente ogni partita. Sono circa 3.000 coloro che si dichiarano e parlano l'italiano in Slovenia. Il grosso di questa comunità è concentrata nell'Istria croata, ma il confine di Schengen ha ulteriormente diviso questo gruppo nazionale un tempo identificabile omogeneamente con l'Istria, Fiume e le isole del Quarnero.

D: E le perdite?

J: Pensi all'esodo e all'assimilazione? Fenomeni apparentemente inevitabili che nemmeno la buona volontà riesce più ad arginare. L' unica speranza vera è la multiculturalità e l'interculturalità...la contaminazione tra culture. Io ci credo, anzi ne sono un risultato.

D: Franco, domanda secca: si stava meglio prima o adesso?

J: I miei amici spagnoli, quando si lamentano dell'oggi, usano dire “Contra Franco se vivía mejor”, contro Franco si viveva meglio. Una battuta sarcastica, ovvio. Ma qualcosa del genere affiora ogni tanto anche da noi: si stava meglio contro Tito...anche se Tito, certamente, non era Franco e negli Anni ‘70 noi jugoslavi stavamo meglio degli spagnoli. Oggi una cosa del genere non me la sentirei proprio di dirla. Siamo in Europa, nella Nato, persino in Afghanistan e in Iraq, circa come voi italiani, abbiamo l'euro e abbiamo appena concluso 6 mesi di presidenza dell’Unione europea (il primo semestre del 2008, passato alla “storia” come “i semestre gentile”, n.d.A.)... Eppure... Siamo veramente più felici? Ho assistito qualche settimana fa, da giornalista, a una manifestazione nazionalista anti-croata sul confine in Istria. Tristissimo! Ho visto skinhead giovanissimi sventolare bandiere della "grande Carantania". Nei loro volti non c'era né gioia né passione. Erano pallide maschere di inquietante disperazione...assomigliavano a quelle di Weimar.

D: Tuo padre è stato un combattente anti-fascista e a un certo punto si è trovato a fare una scelta, alla fine della seconda guerra mondiale. Ha scelto, anche per evitare epurazioni politiche e processi più o meno sommari, di restare "di là". Ti sei mai chiesto che cosa sarebbe cambiato nella tua vita se oggi fossi un cittadino italiano?

J: Pensa, in virtù delle mie origini potrei anche richiedere e ottenere la cittadinanza italiana. Quasi tutti, nella minoranza, l'hanno fatto. Io no. Non perché non apprezzi la cittadinanza del Belpaese.... No, direi che la mia indole mi mantiene lontano da queste logiche. E poi siamo o non siamo in Europa? Mio padre fece una scelta che avrebbe preferito evitare: l' esilio, per i fatti di Porzus. Lo racconto nel libro, per cui non ripeterò qui la sua vicenda. Ma quella storia racconta molto di più che non un semplice capitolo nero della Resistenza, e induce a riflettere perché le cose non sono mai in bianco e nero. Di mio padre ho sempre apprezzato l'idealismo, l'altruismo e la fede nell'eguaglianza degli uomini.

D: Qual è l'immagine dell'Italia in Slovenia?

J: Di eterno odio-amore. C'è ammirazione e sottovalutazione. L'Italia è un Paese del Sud, ma anche un Paese geniale... Soprattutto gli sloveni della regione litoranea – quella che fu parte del regno dei Savoia – hanno impresso nella memoria storica e nell'immaginario collettivo il volto peggiore dell'Italia: il ventennio fascista con il suo squadrismo e la sua "bonifica etnica". È un ricordo indelebile anche perché viene spesso e volentieri mantenuto vivo dalla destra di frontiera: nazionalista e antislava. E ora c'è pure una destra slovena che gli italiani li disprezza, ancor di più se sono di sinistra. Sembra un paradosso, ma non lo è. Le destre vanno a braccetto su questi temi.

D: Ci regali una tua vignetta e ce la spieghi?

J: Te ne passo una che certo ridere non farà e che è stata pubblicata mercoledì 9 luglio sul giornale austriaco Kleine Zeitung, con cui collaboro settimanalmente. Sullo sloveno Dnevnik invece le mie vignette appaiono ogni giorno. Eccola, è dedicata al G-8, e al "miracolo" della lievitazione dei prezzi del cibo, immolato sull'altare del biocarburante. Cose da Bush & company, ovviamente...










Ritorno a Las Hurdes

Guerre, amori, cicogne nere e istriani lontani

Il saggio di Franco Juri
Prefazione di Nelida Milani
Introduzione di Paolo Rumiz

“È, questo libro, la biografia di un’intera generazione seppellita dai suoi stessi sogni, che ancora sopravvive, nonostante tutto, ma lo fa sul ciglio di un baratro, stupita dinanzi al passato e al futuro, ugualmente sviliti da un presente turpe, che nega ogni passione” (dalla prefazione di Nelida Milani).

Il racconto unico di uno dei testimoni del nostro tempo, tra l’Istria e la fine della ex Jugoslavia, la nascita della Slovenia e Gladio, la Spagna e il Cile, la resistenza al fascismo, il fallimento del socialismo e un mondo che non esiste più.

Collana: Orienti
Titolo: Ritorno a Las Hurdes
Autore: Franco Juri
Prefazione: Nelida Milani
Introzione: Paolo Rumiz
Caratteristiche: formato cm 15x21, brossura filo refe, copertina
plastificata a colori
Pagine: 176
Prezzo: euro 13.00
Isbn: 978-88-89602-37-9
In libreria da: giugno 2008