Questa mattina Paese Sera mi ha chiesto un contributo per la Giornata mondiale del rifugiato. Ho raccontato in breve di una storia che ho pubblicato su UOMINI E BELVE (Infinito edizioni, 2008). Mi permetto di condividere storia e riflessione finale con voi, sperando di farvi cosa gradita.
Buona lettura
Qualche anno fa mi trovai a condurre ricerche per alcuni reportage sui richiedenti asilo che poi sono confluiti in un libro, Uomini e belve (Infinito edizioni) a cui sono molto affezionato.
Per mesi incontrai, in varie parti d’Italia e d’Europa, persone che mi raccontarono la loro storia. A una in particolare tengo molto, e vorrei provare a raccontarla in poche righe, in questa Giornata mondiale dei rifugiati.
Charlie portava sempre in testa un vecchio cappello di velluto beige. Sempre sorridente, mostrava a tutto il mondo i suoi splendidi denti africani. Grandi come i suoi sogni. Perfettamente allineati. Era arrivato in Italia nel novembre 2002 dopo avere lasciato la Liberia, il suo Paese natale sconvolto dalla guerra. Chiusi in una saletta, sottovoce, quasi che orecchie sbagliate potessero ascoltarci ovunque, mi raccontò la sua storia: «Sono qui perché un giorno d’estate del 1999 il National Patriotic Front of Liberia (Npfl) ha deciso che avrei dovuto imbracciare le armi per combattere contro altri liberiani». Quelli che, partendo dalle zone rurali, tentavano di opporsi al regime sanguinario e corrotto instaurato due anni prima dal presidente Charles Taylor. Si guardava continuamente intorno, Charlie. E abbassava sempre di più la voce, fino a rendere le sue parole un piatto sospiro indistinguibile. «Io – riprese – risposi di no. Che non avrei mai vestito la divisa. Perché sono un pacifista. E perché non volevo sulla coscienza dei fratelli uccisi dalle mie mani. Il Fronte non reagì bene. Nell’agosto del 1999 mi arrestarono, trascinandomi in carcere. Ho vissuto per tre anni tra quattro luride mura. Fui liberato nell’agosto del 2002». Ma Charlie, che al tempo aveva 34 anni e tante ferite insanabili nell’anima, non potrà mai più cancellare quei 36 mesi. «Non c’è stato giorno, non c’è stata ora in cui i miei carcerieri non mi imponessero umiliazioni o in cui non mi infliggessero torture e violenze fisiche e morali d’ogni genere. Ogni giorno – riprese con gli occhi velati d’angoscia – i militari mi costringevano per ore a mettermi accosciato, nella posizione della rana, e a saltare. E questo finché non si stancavano di ridere e di divertirsi con la mia sofferenza. Spesso mi tenevano per lungo tempo sospeso da terra, legato per le braccia o per i polsi». Ma la tortura è un’altra cosa. Mi guardò quasi attonito. Improvvisamente parve rianimarsi. Sorrise di nuovo «La tortura? Ne vuoi vedere un esempio? – fece con gli occhi lucidi, che rispecchiano il tonfo dell’anima nella palude infestata dei fantasmi dei ricordi – Ecco che cosa vuol dire essere torturati». Avvicinò una mano alla bocca. Il sorriso, quel bel sorriso fatto di denti grandi e perfettamente allineati, ora è lì, sul palmo della mano di Charlie, tenuto insieme da una placca rosa. «Questa – mi disse dopo avere rimesso la protesi in bocca – è una delle conseguenze meno spiacevoli che possono capitare a chi viene torturato. Senza contare che ogni volta, dopo essere stato picchiato, nessuno ha mai pensato di portarmi in infermeria per medicarmi le ferite».
Nella Giornata mondiale dei rifugiati credo che la storia di Charlie possa essere non solo tremendamente attuale, ma inchiodi alle sue responsabilità un governo xenofobo come quello italiano e un Paese – l’Italia – impaurito dalle menzogne della propaganda estremistica, che con la politica dei respingimenti indiscriminati ha messo in questi ultimi anni a repentaglio la vita di migliaia e migliaia di esseri umani, tra i quali anche molti uomini e donne (e bambini!) come Charlie. Di questa pagina, un giorno, noi italiani non potremo andare molto orgogliosi.
La storia di Charlie è purtroppo simile a quella di tanti dei circa 44 milioni di rifugiati, richiedenti asilo e sfollati che nel 2010 hanno dovuto lasciare le loro case e i loro Paesi cercando scampo, aiuto e sostegno umano. C’è molto lavoro da fare, nel mondo: a favore delle popolazioni civili oggetto di persecuzioni o colpite da conflitti, contro i governi ricchi che fanno affari con dittature sanguinarie, e su noi stessi. Perché un giorno qualcuno potrebbe respingere noi o i nostri figli, e allora non avremo scuse da accampare, ma solo rimorsi enormi in fondo all’anima.