martedì 8 marzo 2011

Poche e brevi riflessioni sull’arresto di Jovan Divjak e sulla Bosnia Erzegovina

L’episodio dell’arresto – avvenuto giovedì 3 marzo all’aeroporto di Vienna su mandato di cattura internazionale spiccato dalle autorità giudiziarie di Belgrado per un discusso fatto di guerra dell’inizio del 1992 – dell’ex generale Jovan Divjak, passato alla storia come il comandante serbo che difese Sarajevo dall’assedio ultranazionalista serbo-bosniaco, ha riportato alla luce, una volta di più, l’interminabile dopoguerra balcanico, un dopoguerra mal gestito dalla comunità internazionale e tremendamente strumentalizzato dai partiti nazionalisti ininterrottamente al potere in Bosnia Erzegovina e apertamente sostenuti da una politica europea sempre più disattenta ai diritti dei popoli e sempre più partecipe a quelli degli uomini d’affari.
La nostra casa editrice ha pubblicato nel 2007 il libro di memorie di Jovan Divjak, “Sarajevo, mon amour”, premiato da un eccellente successo di critica e di pubblico. Anche in quell’occasione, allorché organizzammo un lungo tour di presentazioni, partito da Trieste e terminato a Roma, potemmo sperimentare con mano il contrasto di sentimenti che circonda l’uomo Divjak, osannato come un eroe dai bosniaci e trattato alla stregua di un traditore dal nazionalismo serbo e serbo-bosniaco più radicale e netto. In quell’occasione, improvvisamente svanito l’invito del prestigioso ospite che ci aveva offerto, mesi prima, la sede – nonostante la Digos garantisse a chi scrive l’ordine pubblico e la sicurezza personale dell’ex militare diventato filantropo e fondatore della più nota organizzazione bosniaca attiva nell’aiuto e nel sostegno di minori orfani e bisognosi – si pensò di trasferire con una certa celerità Divjak da Trieste a Teglio Veneto, dove – ospite di un’associazione locale coraggiosa, a differenza di quegli ospiti poco…ospitali… – l’uomo poté riprendersi dall’amarezza di quell’esperienza e tornare a concentrarsi sul lungo giro di presentazioni che lo aspettava. E che andò splendidamente.
Non avevamo mai raccontato pubblicamente l’episodio, ma questo sembra il momento giusto per farlo.
Oggi, allontanatosi lo spettro di una possibile estradizione di Divjak dall’Austria alla Serbia – almeno stando alle dichiarazioni di ieri del ministro viennese degli Esteri, Michael Spindelegger, il quale ha dichiarato che "secondo i nostri esperti di diritto internazionale, un'estradizione di Divjak alla Serbia è impensabile”, e a una comunicazione di Marjana Grandits (Commissione diritti umani del ministero dell’Interno austriaco) giunta attraverso la Fondazione Alexander Langer, secondo cui Divjak è “in gran forma. Legge e scrive molto. È difeso da uno dei migliori avvocati in materia, convinto di riuscire a evitare l’estradizione ma dovrà rimanere in Austria” fino alla conclusione della lunga procedura giudiziaria – per meglio inquadrare l’uomo e non rischiare di restare vittime di strani “profili” letti qua e là nel Web, vale forse la pena citare qualche riga del prologo al libro “Sarajevo, mon amour”, scritta dalla giornalista francese Florence La Bruyère: “Jovan Divjak incarna l’ideale europeista, così brutalmente calpestato nella ex Jugoslavia. Rifiutando una divisione degli uomini e delle terre secondo criteri etnici o razziali, è la pace ch’egli ha voluto difendere, la convivenza tra i popoli, più ancora della loro ‘coesistenza pacifica’. È nel nome di un’autentica concezione della dignità e dei diritti dell’uomo ch’egli ha resistito alle sirene del nazionalismo e ha rischiato la vita per l’idea di un’Europa senza frontiere, all’indomani del crollo del muro di Berlino. Ancora oggi Divjak, che ha lasciato l’esercito e non ha voluto aspirare ad altri incarichi né ottenere il minimo privilegio per il suo passato, vuole essere al servizio della fratellanza e della riconciliazione, e di questo testimonia la sua azione in favore dei giovani. Chi s’aggrappa rabbiosamente a una bandiera e a un’ideologia ha paura di vedere scomparire la sua identità come se temesse di non essere più vergine, notò un giorno il regista Volker Schlöndorff. ‘Ebbene, l’identità non può mai esser persa – aggiunse – poiché viene conquistata un poco ogni giorno a contatto con gli altri, e s’arricchisce della storia, della cultura e della lingua d’ognuno’. Quest’appassionata convinzione è la stessa che anima Jovan Divjak”. E che la nostra casa editrice – avendo conosciuto l’uomo e occupandosi attivamente, tutti i giorni, di pace e di diritti umani nei Balcani, sinceramente gli riconosce, indipendentemente da quel che avvenne a Sarajevo, a Dobrovoljačka ulica, il 3 maggio 1992, quando una colonna dell'esercito jugoslavo (Jna) e gruppi di cittadini e membri del nascente esercito bosniaco si scontrarono, una volta di più dimostrando che in Bosnia già da mesi si combatteva una tragica e sanguinosa guerra. Una guerra non etnica o religiosa, ma di conquista territoriale ed economica, programmata a tavolino come l’odio che venne scientificamente instillato nella gente, e che ancora oggi scorre in troppe vene. E la domanda che tutti dovremmo porci, oggi, è: perché nessuno si adopera per tirare fuori un antidoto, che pure ci sarebbe, e persino a portata di mano?